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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

sabato 20 dicembre 2008

La governante e lo scarafaggio

(da teatro.org)
La variazione su partitura classica è pane consueto nel laboratorio drammaturgico di Ugo Chiti, penna e regia, non ci stancheremo mai di ripeterlo, tra le migliori del panorama teatrale italiano. L’interpolazione laterale della Metamorfosi kafkiana (testo vincitore del Premio Riccione per il Teatro) si colloca quindi su una direttrice di lungo periodo dell’autore chiantigiano, la stessa de Il fantasma di Canterville secondo la signora Umney con Lucia Poli, il falstaffiano Nero Cardinale e altre numerose sperimentazioni ricavate da un repertorio letterario eletto secondo criteri di prossimità geografica o umorale: Boccaccio, Machiavelli, Shakespeare, Augusto Novelli, Palazzeschi, ma la lista potrebbe continuare.
Kafka è, in qualche modo, autore chitiano per eccellenza, in grado di sposare polarità grottesca, comicità nera e un’irresistibile attrazione verso la vischiosità dei rapporti umani, la loro dannata e dolorosa complessità. In tutto ciò, s’inserisce la mano felice di Chiti nello scrivere parti femminili, nel rendere carne pulsante una drammaturgia che penetra nell’animo muliebre con delicatezza, precisione e crudezza: il pensiero corre sia ai monologhi redatti per Lucia Poli sia all'Adele Gori coprotagonista della trilogia allestita per e con Alessandro Benvenuti.
Il celebre racconto lungo di Franz Kafka viene dunque rivoltato dalla lettura di Chiti, che assume il punto di vista della signora Anna, ciarliera governante a servizio presso i Samsa, nucleo familiare tanto allucinante quanto ordinario che fa da coro a Gregor il mutante.

In un interno borghese di freddi colori pastello dotato di pareti semoventi per ricreare i vari spazi domestici, si consuma il paradossale dramma della trasformazione in scarafaggio da parte del primogenito: modificazione che coglie del tutto impreparati genitori e Greta, la sorella. Questa, interpretata da Lucia Socci, per prima prende a cuore la situazione del fratello, al contrario del dramma materno (cui dà vita Giuliana Colzi) e dell’ondivago atteggiamento del padre (Massimo Salvianti).
Anna, una Giuliana Lojodice cui Chiti ha cucito addosso il personaggio, assiste alla vicenda, prima come occhio esterno, trattata con malcelata sufficienza da parte dei datori di lavoro, per poi assumere un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’infausta e imprevedibile circostanza. Col tempo, diviene l’unica a entrare nella stanza dello scarafaggio, tentando di instaurare un rapporto con quello che, si presume, una volta fosse un ordinario ragazzo perbene.
La vita è un processo violento, senza cuore o pietà, alla stessa stregua della specie umana, in grado di far l’abitudine a qualsivoglia supplizio. Ed è così che, tutto scorre, tutto continua, a casa Samsa: il padre, ritrovata forza e autorità (doti che la maturità d’un figlio finiscono inevitabilmente per fiaccare, in senso psicanalitico e non solo), torna al lavoro recuperando aspetto virile e dignità, la madre continua a dolersi del poco coraggio nel non voler affrontare la vista del ragazzo, la sorella, com’è ovvio, continua la propria vita, per quanto sembri la più toccata dall’inusuale accadimento (ne è testimone il rapporto col timido spasimante interpretato da Alessio Venturini).
È Anna, invece, l’unica che parla con Gregor, l’unica che stabilisce, o tenta di stabilire, un contatto reale, umano, per quanto il termine possa risultare improprio.

È una parabola sugli outsider questo Kafka chitiano, confronto e guerra contro una solitudine inenarrabile, una dimensione umana ossessiva e lancinante cui nessuno può scientemente sfuggire. Anna, ruvida, brusca, a tratti comica, scopre nel rapporto con Gregor una via di fuga, illusoria, perché il diverso tale è e tale rimane. Poco importa il cicaleggiare dei pensionanti (Andrea Costagli e Dimitri Frosali) che scopriranno la vergognosa presenza, decretando un palpabile scacco economico per i Samsa: il tentativo di contatto da parte di Anna si risolve in un fallimento, forse previsto, forse inevitabile.

Gregor, o quello in cui egli s’è tramutato, muore, nel silenzio. Le spoglie vengono raccolte in sacchetto dell’immondizia: non c’è rapporto, non c’è dialogo, non c’è speranza.
Anche Anna fallisce, nonostante la paradossale umanità, quella sintonia materna che la colloca una spanna sopra la madre naturale del protagonista mai visibile direttamente in scena. La differenza, quella differenza, è cosmica, esistenziale, metaforica, non meramente fisica: forse un ascolto reale, vero, potrebbe colmarla, un ascolto santo, senza la pretesa d'un ritorno, di risposta, che non s’aspetta niente in cambio.

Le note lugubri del dettato kafkiano sono ben rese nel cambiamento prospettico adottato da Chiti, che fornisce una mise en abîme del celebre racconto. La recitazione degli attori di Arca Azzurra Teatro, unitamente alla brava Lojodice, è ottima, come sempre, diversa rispetto ai canoni consueti del teatro italiano, benché in questa difficile partitura sembri pagare dazio, per quanto parziale.
Del resto, la Metamorfosi, in quanto capolavoro universale, si presta a infinite letture, tanto diverse quanto plausibili: sorprende, conoscendo le corde di Chiti, l’assenza di un piano comico più pronunciato, a limiti del fou, tratto innegabile dell’originale, ma si tratta di interpretazioni e di punti di vista.
Lo spettacolo funziona e rappresenta l’ennesima scommessa vinta da un insieme che vede un ottimo drammaturgo e regista, supportato da una compagnia sempre alla sua altezza.
Visto a Prato, teatro Metastasio, il 19 dicembre 2008.

Spettacolo
Le conversazioni di Anna K.
liberamente ispirato a La metamorfosi di Franz Kafka
testo e regia di Ugo Chiti
scene: Daniele Spisa
costumi: Giuliana Colzi
luci: Marco Messeri
musica originale e adattamento: Vanni Cassori e Jonathan Chiti
con Giuliana Lojodice
e con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali,
Massimo Salvianti, Lucia Socci, Alessio Venturini
Produzione: Teatro Eliseo / Arca Azzurra Teatro

giovedì 18 dicembre 2008

Decameron, o della (vera) satira

(da teatro.org)
Qual è il ruolo della satira, la vera satira, in un periodo difficilissimo per questo peculiare genere espressivo? Sovresposta, bruciata dal grillismo (che ha recentemente registrato alcune significative battute d’arresto), fraintesa ed equivocata in televisione (quella di Crozza è satira in parte, idem per la Cortellesi; quella della pur brava Littizetto non la è proprio; quanto a Zelig e Striscia, sopravvoliamo…), sfruttata in modi talvolta discutibili (la stizzosetta Guzzanti, l’ambiguo mélange col giornalismo di Travaglio), fiaccata dal diffuso clima d’intimidazione produttiva, dalla crisi, dalla mancanza di veri spazi promozionali: questo il poco edificante quadretto che ci conduce al cospetto di Daniele Luttazzi, attualmente il miglior satirico (l’unico?) del panorama nazionale.
La sala del Politeama pratese non è piena quanto avremmo pensato e la totale scomparsa dai teleschermi dell’artista romagnolo gioca di certo il suo ruolo in certe dinamiche d’afflusso: a quanto pare, molti teatri solitamente frequentati dal “dottore”, fiutata l’aria, hanno smesso di ingaggiarlo come un tempo. In Italia si può dar noia a una chiesa, non a tutte contemporaneamente…

Esaurita la necessaria premessa, lo spettacolo. Nuovo, ispirato nel titolo e nei temi al programma bandito dall’emittente LaSette nell’autunno 2007, Decameron (completo del sottotitolo originale, ossia Politica, sesso, religione e morte) torna sulle tavole del palcoscenico. La struttura apparente è la medesima degli ultimi one man show del comico: in realtà a cambiare sono i contenuti, anzi, la forma in cui i contenuti (press’a poco gli stessi che la satira tratta da qualche millennio…) vengono presentati, sezionati, analizzati. S’inizia subito con la politica, come da programma e Luttazzi misura subito la “pressione” al pubblico, con un’ardita metafora tra il popolo italiano e una donzella coinvolta in un rapporto sodomitico: niente di nuovo, si dirà… In realtà, tutto di nuovo, giacché il nostro più caustico raisonneur scenico arriva al punto di evidenziare le tre fasi distinte della sodomizzazione, riconducendole puntualmente, con un irresistibile paragone politico, al rapporto tra Berlusconi e l’intero elettorato. Inizio col botto. Niente male: in più, la similitudine sessuale offre il destro per reiterazioni, riprese, all’insegna dell’estremo: del resto, “Se la satira non è estrema”, lo dice Mel Brooks e lo ricorda spesso Luttazzi, “non fa ridere”.

Al di là dell’iperbolismo scatologico (funzionale e ottimamente pensato), il monologo evidenzia alcune perle assolute, a testimoniare una continua evoluzione del modus satirico dell’artista. Splendida la disanima del panorama politico nazionale secondo schemi desunti dall’analisi narratologica: la scomposizione cui Luttazzi sottopone i protagonisti dell’attualità, sottolineandone la capacità, o meno, di “rappresentare una storia”, è illuminante. La chiave permette di leggere con estrema chiarezza sia il successo berlusconide sia la disfatta, ultraventennale, d’una sinistra incapace di proporre modelli nuovi e alternativi, ancorata alla suicida gestione dell’esistente.

Satira ultrapolitica, anfibia per vocazione: sesso e morte occhieggiano continuamente. Per la religione si deve aspettare la seconda parte dello spettacolo: una sequenza di osservazioni al vetriolo sull’assurdità di ogni confessione e sulle ingiustizie del cattolicesimo, quali il differente statuto (e trattamento economico) dei docenti di religione rispetto agli altri o la gestione scientemente ondivaga di vicende eticamente complesse, confrontando il caso di papa Wojtyla con gli altri che hanno animato i recenti dibattiti inerenti alla gestione delle volontà dei pazienti terminali. Degna d’un cattedratico, infine, la prolusione sulla radice antropologica del cristianesimo, i recuperi da altre tradizioni precedenti, nonché la riconduzione della simbologia crociata ai cicli cosmici.
Il tutto, sia chiaro, facendo ridere, in situazione per di più del tutto disagevole: è, infatti, un gran peccato che l’acustica del Politeama sia tanto deficitaria da impedire a gran parte del pubblico di carpire in modo definito le parole pronunciate dal comico. Luttazzi, più di ogni altro collega, è una macchinetta verbale: fa dell’eloquio rapido, serrato, una delle sue peculiari strategie comiche, in cui le rapide impennate locutorie fanno da trampolino per le battute, autentiche rasoiate che sorprendono l’ascoltatore. Se l’acustica viene meno, lo spettatore è costretto a porre eccessiva attenzione sulla fonetica delle parole, compromettendo del tutto il meccanismo comico: si sorride, al massimo, perché si capisce in ritardo, là dove l’effetto sorpresa è il fondamento primo della scarica emotiva costituita dal riso.
La cosa è per nulla secondaria, perché a restar penalizzate sono le parti più raffinate del dettato luttazziano, quelle in cui primeggia un esprit de finesse impareggiabile, tra le migliori armi dell’arsenale umoristico del nostro. Del tutto perduta, per esempio, la parte in cui l’attore, conscio del pericolo “unanimistico” implicito nel successo delle performance, si sottrae al pernicioso meccanismo dell’autosantificazione, fenomeno che coglie impreparati altri suoi colleghi, incapaci di gestire opportunamente tale rischio. Non si tratta di “bontà”: certo, di intelligenza, cultura e coscienza. La satira è contro il potere e, per essere autentica, deve ben guardarsi anche (e soprattutto) dal potere della satira medesima.

Applausi, convinti, anche sulla fiducia, per ciò che non siamo stati in grado di sentire distintamente.
Spettacolo da vedere, dunque.
Anzi, da rivedere (alla Città del Teatro di Cascina il 17 gennaio, a Firenze, Saschall, 27-28 febbraio), e non certo per colpa del suo protagonista.
Ancora una volta: grazie, Dottor Luttazzi.

Visto a Prato, Teatro Politeama, il 18 dicembre 2008.

Spettacolo
Decameron
di e con Daniele Luttazzi
produzione: Krassner

lunedì 15 dicembre 2008

Michelina, dalla risaia all’amore, tra canzonette e risate

(da teatro.org)
È lieve e zuccherata, la storia di questa Michelina, scritta da Edoardo Erba, allestita dalla compagnia Teatro Stabile di Firenze e affidata alla regia di Alessandro Benvenuti.
In scena, Maria Amelia Monti nei panni della protagonista, affiancata dal cardinal Dorigo di Amerigo Fontani e da Arturo Bonavia, cantante sentimentale in perenne cerca di riscatto nell’interpretazione guittesca di Giampiero Ingrassia. Il cast è completato da Mauro Marino, Gianni Pellegrino e Anna Lisa Amodio, rispettivamente nelle parti di un altro cardinale vaticano, di padre Tomaino e di Suor Ercolina, buffa presenza onirica in odor di santità.

La scena, firmata da Tiziano Fario, è divisa in due parti, alla stregua di altrettanti spazi d’azione: il richiamo al teatro nel teatro è continuo, sia nelle esibizioni del cantantucolo di Ingrassia sia nel sipario utilizzato a metà palco, utile per i cambi di fondale.
Si va dalla risaia lombarda, anno 1948, luogo di fortuito incontro tra Bonavia e la squinternata Michelina, una rozza contadina dalle belle gambe e i modi sgraziati: una serie di richiami vegetali suggeriscono la collocazione en plein air dell’azione, ben presto cangiante in un interno pontificio, con scene spostate a vista da due tecnici vestiti in blu scuro e richiami pittorici a raffigurazioni sacre. La scena è una “scatola”, sembra suggerire l’allestimento, con differenti “piani” e punti di vista, analogamente alle gustose “lezioni di teatro” che Bonavia impartisce progressivamente all’imbranata Michelina, troppo rozza per penetrare a fondo il concetto di finzione scenica, ma non stupida al punto d’essere totalmente sottomessa all’improbabile “salvatore”.

Maria Amelia Monti è brava nel conferire i caratteri del “proprio” personaggio classico (una donna clownesca sospesa tra ingenuità e furbesca malizia) a questa ragazza, protagonista di una storia che non riesce completamente a cogliere. Sì, perché oltre all’intreccio di tema teatrale (la ricerca della fortuna da parte di un artista velleitario e illuso), Michelina è protagonista di un’altra storia, ben più improbabile, a mescolar sacro e profano: due cardinali (Fontani e Marino), coadiuvati dal servo non troppo sciocco di Pellegrino, devono provvedere a riscattare la fiducia dei credenti e sono incaricati di provvedere a un processo di beatificazione. Da un lato, hanno l'obbligo d'assicurarsi che la cosa sia svolta seriamente, senza ciarlatani e finzioni, dall’altra, il momento storico “richiede” assolutamente nuovi santi da proporre ai fedeli, per rinsaldarne la fiducia nell’istituzione ecclesiastica. Gli accertamenti canonici all’indirizzo di Suor Ercolina da Afragola, colei che viene scelta e reputata in odor di santità dai prelati, portano il pio e severo cardinal Dorigo a incontrare Michelina e l’evento è destinato a cambiare la vita di entrambi.

La storia prosegue sulla falsariga d’una pochade musicale, tra brevi scene e canzoni, in cui i due improbabili amanti vengono allontanati forzatamente, ma alla fine si riuniscono nel “trionfo” d’un sentimentalismo surreale e incline al paradosso. Con usuali trovate farsesche, la situazione viene “aggiustata”, Dorigo abbandona la tonaca, non prima di sciogliere i voti che avrebbero impedito a Michelina di amarlo, Suor Ercolina viene beatificata (divertente l'apparizione alla protagonista, col conseguente dialogo) e Bonavia ottiene d’esibirsi al desiderato (e temutissimo) Ambra Jovinelli di Roma, quel teatro dal pubblico temibile, che scaglia gatti morti contro gli artisti non all’altezza. Si chiude con una canzone che vede tutti i personaggi in scena: cantano una strofa a testa e ballano insieme, offrendo al pubblico uno scampolo di quel mondo del varietà, oggi andato perduto.

L’allestimento è leggero, forse troppo, ma non è pretenzioso e il richiamo al mondo dei guitti, degli artisti sfigati, delle luci colorate alla bell’e meglio di certi teatranti simili al Sik Sik eduardiano, non manca d’intenerire un poco il cuore. Dato il cast si potrebbe pretendere di più, ma è il testo a non lasciare troppi margini d’intervento.

Visto il 14 dicembre 2008, a Carrara, Teatro degli Animosi.

Spettacolo
Michelina
di Edoardo Erba
regia: Alessandro Benvenuti
con Maria Amelia Monti, Amerigo Fontana, Giampiero Ingrassia, Mauro Marino, Gianni Pellegrino e Anna Lisa Amodio
musiche: Edoardo Erba
scene: Tiziano Fario
costumi: Massimo Poli
disegno luci: Laura De Bernardis

La danza e il mistero delle cose

(da teatro.org)
Virgilio Sieni affronta Lucrezio e quel capolavoro assoluto di letteratura, filosofia e scienza che è De Rerum Natura, per trarne uno spettacolo abbacinante, profondo e ambiguo.
In uno spazio ricavato da una serie di teli trasparenti a formare un gigantesco parallelepipedo (alto almeno una decina di metri il doppio di lunghezza), la prima apparizione è una testa animale, nella penombra: con tutta probabilità un cavallo.

La musica, creazione originale firmata da Francesco Giomi, compositore e direttore del Centro Tempo Reale di Firenze, cala il pubblico in un’atmosfera sospesa e lattiginosa, effetto amplificato dal fumo diffuso all’interno di questo immenso big box di velami.
Si visualizza panno alla stregua di un sipario, mantello e nascondiglio per la comparsa dell’equino; il telo cade d’un tratto, precipitando lo sguardo dello spettatore nell’abisso vertiginoso dello spazio vuoto.

Una voce femminile, suadente e soffiata (è di Nada, l’affascinante cantante e cantautrice d’origine labronica) ripete, in italiano, alcuni lacerti del testo lucreziano, mentre, dal fondo della scena, compaiono alcune figure umane: un corpo, forse di bambola, a grandezza naturale, è portato, alla stregua di flessuosa presenza androide, da quattro ballerini, vestiti casual, con ordinarie tshirt e calzoni neri. I piedi sono scalzi e disegnano traiettorie sinuose, nel continuo gioco di piegamenti e plastiche figure cui le braccia dei danzatori applicano all’inerte corpo femminile: non è una bambola, bensì Ramona Caia, parrucca bionda, body rosso. La ragazza rappresenta una Venere di magrezza estrema ed elegante, fuscello leggiadro privo di propria volontà, giocato nelle figure che i quattro (Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna, Csaba Molnar e Daniele Ninarello) creano senza sosta, percorrendo in lungo e in largo lo spazio scenico.

La dialettica del dettato di Lucrezio, eterna e incrollabile, tra letizia e orrore, delizia e amarezza, assume la dimensione di mantra che la voce di Nada replica come figura ritornante, risacca logica galleggiante sulle note rumoristiche della colonna sonora.
Le figure umane sfruttano completamente la scena, spesso occupando i corridoi laterali, dietro i veli, che fasci di luce opportunamente direzionati evidenziano in qualità di spazio altro.
I ballerini entrano ed escono, sul flusso ossessivo, allucinatorio di musica e fonica vocale: i costumi mutano, ora Venere è un’apparizione bambina, ora indossa un vistoso costume di paillettes rubine, ora l’apparizione è quella d’una testa di cervo, inquietante e silenziosa. La partitura coreografica allestita da Sieni si alimenta di soluzioni sottili, armonizzando in modo sapiente i corpi degli attori nel giocare coi concetti di vuoto, trasfigurazione, mistero.
La sospensione del fantoccio divino che catalizza l’incipit dello spettacolo, discende progressivamente verso la terra, verso quella coscienza, gioisa e dolorosa al contempo, della natura delle cose, la loro inevitabile vischiosità, l’impasto ineluttabile e materialistico di positivo e negativo.

Le visioni, denudate, inquietanti, e sempre sorprendentemente delicate che Sieni consegna agli sguardi del pubblico sono silenti e profonde, a comunicare un che d’insondabile e muto, quasi offrendo sostanza corporea e, allo stesso tempo, materialisticamente spirituale al discorso di Lucrezio. Una natura delle cose misteriosa, ma impossibile da eludere per la mente dell’uomo, sia costui un autore del I secolo avanti Cristo o uno spettatore contemporaneo.

Visto il 12 dicembre 2008, a Prato, Teatro Fabbricone.

Spettacolo
La natura delle cose
ispirato all'omonima opera di Lucrezio
Regia: Virgilio Sieni
con Ramona Caia, Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna, Daniele Ninarello, Csaba Molnar, Virgilio Sieni
musiche: Francesco Giomi
voce narrante: Nada
Produzione: Teatro Metastasio Stabile della Toscana /Torinodanza/Compagnia Virgilio Sieni/Comune di Siena

mercoledì 3 dicembre 2008

Sillabari per un dizionario emozionale

(da teatro.org)
È sempre il solito, eppure è come se non si ripetesse mai. Paolo Poli porta a Firenze il suo nuovo allestimento, Sillabari da Goffredo Parise, serie di numeri intervallati da fintofrivole coreografie e rocamboleschi cambi di costumi. L’architettura della messinscena è collaudata, puntuale nella sua apparente semplicità: le fogge dei travestimenti firmati da Santuzza Calì risaltano il camaleonte che vive in questo “quasi centenario” (dice lui) istrione nostrano; le tele di Emanuele Luzzati sono piccoli capolavori di scenografia sovrapposti l’uno sull’altro, rinnovando rapidamente l’impatto visivo e rimandando costantemente a celebri immagini della pittura novecentesca. La scena si completa con un praticabile a scalini e tre ingressi laterali che costeggia i dipinti cangianti.

La struttura della performance è consueta nella peculiare declinazione poliana del cabaret: numeri brevi, canzoni rétro, balletti, ammiccamenti e allusioni che strappano sorrisi e applausi da parte di un pubblico che ama a priori questo vero grande del teatro italiano. La novità è, semmai, rappresentata dal rinnovato equilibrio tra i pezzi recitati in prima persona e quelli (siano danze o monologhi) affidati al bravo Alfonso De Filippis (aiutoregista e autore delle coreografie) e agli altri tre compagni di palco, Luca Altavilla, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco. Se sino a qualche tempo fa (si pensi a Sei brillanti, ultimo allestimento in ordine di tempo) gli attori della compagnia di Poli svolgevano la funzione di cloni scenici del capocomico, in Sillabari si nota una considerevole autonomia da parte di questi talentuosi attori: ovvio che il timbro stilistico sia quello del maestro e che il ventaglio espressivo vari dal grottesco alla malizia en travesti, ma i quattro si segnalano tutti per qualità e personalità, ognuno con lievi e differenziate sfaccettature, che vanno dal cubismo di certe espressioni (acuite ridicolmente dal trucco) alla minima caricata di certe canzonette intonate e ballate nelle buffe reinterpretazioni sonore di Jacqueline Perrotin.

I Sillabari sono minuti quadretti d’umanità, saggi di minimalismo emotivo, apologhi dalla morale indecifrabile: nelle storie di queste donne turbate e bovariane (e quanto è grandioso Poli alle prese con le parti muliebri), di questi incontri e racconti di vita, sta l’attrazione, forte e irresistibile, che l’artista prova nei confronti dei sentimenti. Figurine di un’Italia trascolorata nel ricordo, memorie sospese tra ingenuità simulata e malcelata malizia, canzoncine frutto del répechage teppista del miglior brillante che il nostro teatro recente annoveri. Afferma lo stesso Poli: «gli uomini d'oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie», ed ecco che Parise offre l’occasione per un divertente quanto enigmatico dizionario emotivo, che solletica intelletto e cuore del pubblico in sala. E se il “quasi centenario” (in realtà non ha “neppure” ottant’anni, dato che è del 1929) vorrà ancora regalarci altre perle come questa, non c’è che da starne allegri. Applausi convinti, e non tributati al solo nome.

Visto a Firenze, Teatro Puccini, il 28 novembre 2008.

Spettacolo
Sillabari
due tempi di Paolo Poli, da Goffredo Parise
con Paolo Poli, Luca Altavilla, Alfonso De Filippis, Alberto Gamberoni, Giovanni Siniscalco
scene: Emanuele Luzzati
costumi: Santuzza Calì
musiche: Jacqueline Perrotin
regia: Paolo Poli
Produzioni Teatrali Paolo Poli

lunedì 1 dicembre 2008

Le vacanze, antica ossessione

(da Giudizio Universale, n.29, dicembre 2007-gennaio 2008, ripubblicato nel n. 37, novembre-dicembre 2008)
Nel trecentenario della nascita di Carlo Goldoni, torna in scena la Trilogia della villeggiatura in versione integrale. Toni Servillo firma una regia briosa e un’interpretazione insolitamente loquace

A trecento anni dalla nascita di Goldoni, Teatri Uniti e Piccolo di Milano producono una Trilogia della villeggiatura molto attesa, e per l’importanza del testo (anzi, dei testi), e per quella di Toni Servillo, attore e regista il cui nome è ormai garanzia di qualità nel teatro e nel cinema di casa nostra. Presentare in un solo allestimento l’intero trittico è un’impresa, non foss’altro che per i precedenti illustri (Strehler nel ’54, Missiroli nell’80, Castri nel ’95), e perché Goldoni è autore feticcio del tempio scenico meneghino.

Dalle briose Smanie a Le avventure sino al Ritorno, la storia si snoda rappresentando una borghesia scriteriata sulla quale Goldoni ha smesso di porre le speranze: se ne La locandiera il commediografo veneziano è ancora convinto dai valori positivi della propria classe sociale, con la Trilogia affiora un disincanto amaro, la rassegnata constatazione del dilagare di parvenu insoffribili sempre più omologati a vizi e mode nobiliari.
La villeggiatura è mania tra le più perniciose, irragionevole scialacquìo da parte di famiglie “per bene” costrette ai debiti per non mancar la pugna del sociale apparire.

Servillo affronta i testi con mano lieve, guidando un’eterogenea e ottima compagnia: dai “vecchi” Paolo Graziosi e Gigio Morra a un nutrito gruppo di trentenni, passando per
alcuni fedeli compagni di scena. Spettacolo dall’incipit avvolgente, in cui l’ariosa vivacità goldoniana è resa con brio dalle smanie dei caratteri: Leonardo (Andrea Renzi) soffre
d’amore e gelosia per la volubile e volitiva Giacinta (Anna Della Rosa, da applausi), insidiata da Guglielmo (Tommaso Ragno) e desiderosa di partire per l’agognato carnevale vacanziero. Vittoria (Eva Cambiale), sorella di Leonardo, gareggia con la bella protagonista in fatto di moda (tema forte del primo testo) nell’equivoco intreccio destinato alla pur precaria ricomposizione finale. Servillo riserva per sé la parte minore di Ferdinando, lo scrocco: spettatore disincantato e cinico della vicenda, ciarliera pittima alla costante cerca di desco e patrimonio da mungere. Ruolo
“esterno”, a replicare in qualche modo la posizione del regista, che osserva, vivendo “alle spalle degli interpreti”: è dunque curioso vedere un attore dei silenzi quale il campano alle prese con un personaggio tanto loquace e fatuo cui fa da vittima (e spalla) la Sabina d’una smagliante Betti Pedrazzi.

Peccato che, nel secondo tempo, si smarrisca il ritmo, tradendo le aspettative iniziali: intaccata la puntuale tripartizione originaria, il meccanismo complessivo soffre, registra un calo di tensione riverberato pure nell’interpretazione.
Dinanzi a tre ore e oltre di recita (che, va detto, non pesano), due pause gioverebbero, mantenendo fedele la scansione dei testi.

La chiave di Servillo risparmia un’appuntita satira sociale e predilige i meccanismi teatrali dell’intreccio: il finale è però vibrante, non consolatorio, dominato da Giacinta, ennesima
eroina goldoniana, unico personaggio a prendere coscienza e cambiare, anteponendo il dovere al cuore.
Lo spettacolo potrebbe osare di più, ma non ci si pente d’averlo visto.

Visto a Milano, Teatro Grassi, 10 novembre 2007.

Spettacolo
La Trilogia della villeggiatura
di Carlo Goldoni
regia di Toni Servillo
con Anna Della Rosa, Gigio Morra, Paolo Graziosi, Andrea Renzi, Eva Cambiale, Tommaso Ragno, Toni Servillo, Betti Pedrazzi, Rocco Giordano, Salvatore Cantalupo, Chiara Baffi, Giulia Pica, Marco D’Amore
e Mariella Lo Sardo
scene: Carlo Sala
costumi: Ortensia De Francesco
luci: Pasquale Mari
produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa e Teatri Uniti

Giudizio: 2 soli
Scheda:
>Pregio:
gli attori
>Difetto: il ritmo nel secondo tempo
>Perplessità: a che pro l’uscita in platea dopo una scena? Dimostrare che a’mo fatto l’Avanguardia?
>Un Teatro Piccolo piccolo: la metropolitana che romba, una salabugigattolo e l’addetta stampa che tratta da pezzente chi chiede un accredito. Teatro d’Europa?

lunedì 24 novembre 2008

Franca Valeri, o dell'inarrivabile comicità

(da teatro.org)
C'è da chiedersi, sinceramente, in quali condizioni versi la comicità italiana contemporanea.
Forma-contenuto invasiva, insinuante e insinuatasi in ogni interstizio della comunicazione pubblica, dal giornalismo alla politica, ben oltre i vecchi confini spettacolari. Il nostro paese pullula da tempo di comici, trasmissioni a essi dedicate, riflessioni sul fenomeno, delineando una tendenza in atto da almeno tre decenni e che vede gli attori-autori assurgere a pulpiti inediti, finendo per sostituire una classe intellettuale distratta o, ancor peggio, assente.

Eppure, c'è sempre meno da ridere (il che spiegherebbe, in effetti, la necessità endemica di comico) e gli interpreti sono, spesso, sempre più scarsi, i numeri sempre più veloci, corti e banali, attaccati con le unghie ai tormentoni, reiterazioni inerti ma facili per imprimersi nelle memorie di spettatori sempre più di bocca buona.
"I comici mi rendono triste", cantava De Gregori quindici anni or sono, e difficilmente si può dargli torto.

Tocca affidarsi ai mostri sacri, e meno male che godono di sufficiente salute e, soprattutto, amano il proprio lavoro a tal punto da calcare ancora le scene, come nel caso felicissimo di Franca Valeri, al secolo Norsa.
La più grande attrice comica del Novecento, alla soglia degli ottantotto anni, torna a esibirsi con un titolo che più attraente non si può, Carnet de notes 2008, citazione evidente dello spettacolo che la portò al successo al fianco di Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, prima a Parigi, poi in Italia. E già pensare all'importanza di questa attrice minuta nel corpo, ma gigantesca per statura artistica, basterebbe per correre a vederla, tributarle quell'affetto doveroso per un'interprete del suo rango. Tanto per capirci: se cabaret v'è mai stato in Italia, paese culturalmente alieno da un genere di matrice borghese e colta, questo lo si deve ai vecchi Gobbi (Valeri-Caprioli-Bonucci, appunto) e a quel Paolo Poli, frutto cresciuto all'ombra della Lanterna, in quella fucina d'idee che fu la genovese Borsa di Arlecchino di Aldo Trionfo. Neppure il Fo dei Dritti (affiancato da Franco Parenti e Giustino Durano) ha mai accampato la pretesa d'esser cabarettista: "controrivista" definiva le cose proposte da quel trio il cui nome era tributo rispetto ai Gobbi di Franca e compagni.

Cabaret, rivista da camera, comicità pura, affilata come un rasoio intriso nel cinismo necessario per un disincanto che strappa risate a iosa, tutte precise, puntuali, intelligenti. E l'idea di riprendere il vecchio titolo, da parte di Franca Valeri, non è répechage in mancanza d'idee, secondo la logica del best of tanto in auge al giorno d'oggi. Se qualcosa non difetta a questa grande artista della risata è, pure in quest'occasione, il coraggio.

Nessuna autocitazione, nessun cedimento autocompiaciuto: uno spettacolo nuovo, riapplicando vecchie strategie (ma la comicità si basa su meccanismi quasi invariabili), allestito secondo una gustosa logica "diversa", recuperando quella polifonia di forme che è tratto tipico del cabaret d'antan. Franca si presenta in scena, vestita di blu: il fisico è segnato dall'età, ma le movenze non sono affatto claudicanti, tutt'altro. Il passo è sicuro e la coscienza scenica, la gestione del corpo è incredibilmente lucida: ne soffre, specie all'inizio, la voce, a tratti faticata, ma appena "si scalda" si dimenticano gli insulti dell'età a fronte di una padronanza del palco praticamente mai vista.

Ecco quindi una serie di perle, scenette recitate rigorosamente da sola, inscenando le "classiche" telefonate, o dialoghi con interlocutori immaginari. È la "cattiveria" a farla da padrone, una visione disincantata sull'umanità, prescindendo dalle specificazioni di genere: regina tra le attrici comiche italiane, Franca mai è stata "femminista", non perdonando niente, anzi, neppure alle "proprie" donne, dalla Signorina Snob all'indimenticabile Cecioni. Tra un pezzo e l'altro, le esibizioni di tre cantanti (il soprano Eleonora Caliciotti, il tenore Edoardo Milletti, il basso Emanuele Casani) accompagnati dal pianoforte di Ida Iannuzzi e anche questa parte di allestimento guadagna applausi convinti e giustificati: sui palchi d'opera d'oggi capita di sentir di tutto e trovarsi dinanzi a tre giovani voci belle, piene, precise rappresenta un vero e proprio sollievo. Le arie (da Verdi a Puccini, passando per Mozart, Rossini e Donizetti) sono non solo ben eseguite, ma, dote rara al giorno d'oggi, ottimamente interpretate, unendo canto a vocazione attorica. Una perla che impreziosisce ancor di più il piccolo capolavoro teatrale che è questo Carnet de notes contemporaneo.

Poco concede alla nostalgia, a quel senso del tempo che ne segna il fisico, inevitabilmente: Franca Valeri dimostra una sensibilità e una statura scenica inarrivate, persino dalle sue eredi più degne. Fossimo anglofili e credenti in dio, sarebbe da intonare, con affetto, convinzione e speranza, God Save The Queen.
Grazie Franca, non fermarti mai.

Visto a Lamporecchio (PT), Teatro Comunale, il 22 novembre 2008

Spettacolo
Carnet de notes 2008
di e con Franca Valeri
regia: Giuseppe Marini
con Franca Valeri, Eleonora Caliciotti (soprano), Edoardo Milletti (tenore), Emanuele Casani (basso), Ida Iannuzzi (pianoforte)
Produzione: Spoleto 51 - Festival dei due mondi - Società per attori

mercoledì 19 novembre 2008

"Troppo buono", ma non basta per il teatrocanzone

(da teatro.org)
Leggero, pure troppo, questo Troppo buono (in prima nazionale) con Giulio Scarpati, volto noto della nostra televisione (Un medico in famiglia su tutti) e attore apprezzato per il bell’aspetto, la recitazione “naturale” e un certo garbo, moneta quasi fuori corso nell’attuale panorama spettacolare.

In scena lui, giacca e camicia bianca ben evidenziata dal riverbero dei fasci di luce candida, e poco altro: uno sgabello, un leggio e un baule sul fondo; sulla sinistra, un pianoforte a coda dietro il quale suona e canta Bob Messini, partner e spalla di questa minuta riflessione sulla bontà. Lo sfondo è uno schermo dai colori cangianti, sul quale vengono proiettate immagini di repertorio, film d’epoca a sottolineare, talvolta contraddire, quanto detto o cantato dai due interpreti.

Scarpati prende subito di petto il pubblico, infrangendo la “quarta parete” secondo uno schema cabarettistico: “Sono troppo buono”, la sua ammissione, in un principio d’invettiva all’indirizzo delle insidie implicate dalla gentilezza, la disponibilità, l'altruismo.
Aneddotica infantile, riflessione semiseria, iperboliche considerazioni frutto delle penne di Nora Venturini (regista dell’allestimento) e Marco Presta, autore comico di buon spessore (all’opera ne Il ruggito del coniglio, programma mattinale ormai storico nel palinsesto di Rai Radio Due). Un umorismo misurato, non ipocrita, ma sempre attento a non graffiare troppo il pubblico, il quale risponde, gradisce con tepore: l’impressione è di non essere a teatro, ma a una cena con invitati che, non conoscendosi, si misurano col metro della gradevolezza spiritosa.

Al monologo vero e proprio, proposto in prima persona, Scarpati mescola citazioni, canzoni (sottolineiamo Le beatitudini, capitolo ingiustamente minore di Rino Gaetano), poesie e “numeri” chiusi: dalla lettura/reinterpretazione del Cuore deamicisiano al Qualcuno era comunista dell’ormai ultracitato Giorgio Gaber.
Ed è proprio il milanese d’origini istriane a venirci in soccorso per capire cosa non vada in questo Troppo buono: non si tratta dell’ennesima proposizione deboluccia del pezzo sul comunismo (utilizzato anche dalla Melato, per non dir di Giulio Casale, Neri Marcorè e molti altri), che ne fanno, forse giustamente, un “classico” dei nostri tempi, quanto l’ennesimo tradimento dello spirito con cui fare monologhi teatrali, con cui proporre teatrocanzone.
Il testo di Scarpati-Presta-Venturini è debole, garbato ma debole, nella stessa misura in cui l’attore risulta non completamente in grado di sostenere una scena tutta da solo: la recitazione è un po’ scompaginata, Scarpati gesticola troppo, ondeggia sui fianchi, in modo forse inutile, di certo inefficace. Messini tenta la controscena, con facce e interventi, ma pare un po' fuori centro, sorta di spalla non troppo a proprio agio nella parte.
Ne esce un’interpretazione simpatica, ma nulla più, a fronte di un tema che potrebbe certo riservare sorprese e riflessioni profonde.
La musica rappresenta un punto particolarmente debole: Scarpati, benché abbia nel curriculum anche Aggiungi un posto a tavola, non sembra avere la voce del cantante, in grado di assumersi la “responsabilità” musicale dell’allestimento, mentre Messini è un sovrappiù, in perenne cerca d’incerta collocazione.
Il problema è che, a fronte di fondi sempre più scarsi, fare teatrocanzone rappresenta un’ottima strada per andare in scena: poche spese (un attore solo, in genere), musiche registrate o suonate da pochi strumentisti (Giulio Casale nel primo caso, Marcorè e Scarpati nel secondo), una certa facilità d’allestimento. Con una non trascurabile differenza: la professionalità necessaria al teatrocanzone è doppia e non basta un’attitudine scempia, tra attore e cantante: Gaber era un fior di interprete, sia nei monologhi sia nelle canzoni, con una voce indimenticabile, una misura nella gestione del corpo tuttora insuperata. Non sono cose che si possano improvvisare o quasi.

Non per citare sempre il compianto Gaberscik (ma non siamo noi a tirarlo sempre in ballo, quanto chi lo cita in scena), ma già dagli anni Ottanta il cantattore lombardo cantava le insidie, e le profonde ipocrisie, della bontà, mettendo a nudo le contraddizioni di una borghesia, spesso coincidente col “suo” pubblico”, progressista e intimamente convinta d’essere “dalla parte giusta”.
Ebbene, uno spettacolo sulla bontà dovrebbe quantomeno avere il coraggio di graffiare lo spettatore e non lasciarlo con un sorrisino interte sulle labbra, a chiedersi se sia stato proprio il caso, per una sera, d'andare a teatro.
(visto a Pistoia, Teatro Manzoni, il 16 novembre 2008)

Spettacolo
Troppo buono
di Marco Presta, Giulio Scarpati, Nora Venturini

con Giulio Scarpati, Bob Messini
Produzione:
Associazione Teatrale Pistoiese

Si parte...

...eccoci qua.

Non che se ne sentisse poi la mancanza, però, visto che ci siamo, perché no?
Almeno potremo raccogliere qui gli articoli pubblicati in questi ultimi anni di attività anarchica e incessante.

Sempre meglio che essere in balia di editori sfuggenti, direttori astiosetti e chincaglieria varia.
Chi c'è, c'è, e di quello che c'è non manca niente.

Con calma e sangue freddo riporteremo via via recensioni, articoli e interventi, inserendoli con la data, ove sarà possibile, originale della prima pubblicazione e riportando sempre l'eventuale testata (quasi) sempre col rispettivo link.

Buona lettura, a tutti e tre.
Aloha.

martedì 28 ottobre 2008

Non solo kletzmer per Moni Ovadia

(da teatro.org)
La cultura ebraica è uno dei poli d’attrazione costanti per Moni Ovadia, artista polivalente, perennemente in bilico tra teatro, musica, satira e canto. Del resto, la sua stessa biografia conferma le due tendenze, dalla nascita in terra bulgara (la famiglia si trasferisce quasi subito a Milano) all’attrazione per il mondo yiddish, il percorso culturale di questo attore eclettico è improntato al nomadismo, in parallelo ai molti “oggetti” della sua ricerca espressiva.

Kavanàh rappresenta, però, un capitolo a parte della parabola ovadiana: non è teatro in senso stretto, come nelle numerose riprese brechtiane, non è musica kletzmer o ricerca popolare, sulla scia del maestro Roberto Leydi (con il celebre etnomusicologo, nel gruppo Almanacco Popolare, Ovadia muove i primi passi come cantante e musicista), bensì riscoperta della celebrazione, del sacro, di una dimensione spirituale che costituisce solo in parte una sorpresa nella poetica di questo cantattore. In ogni spettacolo, in ogni libro o disco, Ovadia, fieramente agnostico, materialista, di sinistra, lascia sempre trapelare il tarlo del dubbio, l’irrequieto interrogarsi sul senso dell’esistenza, andando incontro, e mai eludendo, i problemi rappresentati da una spiritualità ineffabile e, al contempo, non ignorabile.

Kavanàh rappresenta un’ulteriore tappa di questo viaggio, complesso e paradossale, nel mondo dell’ebraismo, affrontando uno dei suoi aspetti più difficili, e da penetrare e da tradurre in spettacolo, ossia i canti della sinagoga, la tradizione corale semitica. Il canto non è mera esecuzione canora, la fonazione non rappresenta la sola forma di relazione col sacro, bensì incarna la sostanza d'una tradizione monoteista che vede nel suono il principio del cosmo. Dio è voce, si manifesta con essa, crea il mondo per mezzo di essa: Ovadia, al centro di una scena spoglia, con un quartetto sui generis ad accompagnarlo (due violini, una viola e un contrabbasso al posto del classico violoncello), si esibisce alternando canti sacri a racconti, aneddoti, precisazioni bibliche, nel tentativo di “spiegare” il fascino irresistibile della tradizione ebraica, in grado di accogliere in modo non traumatico persino l’ateismo tra le proprie opzioni “di fede”.
Ed è il canto, la voce, la phonè, a costituire l’aspetto centrale, sia dello spettacolo sia della questione posta dall’attore: l’ebraismo non è teofania, bensì teofonia, e cantare rappresenta la modalità principale di rapportarsi al divino, di creare un legame tra l’interiorità e una spiritualità superiore ancorché ineffabile. Curioso ma non troppo che l’idea di uno spettacolo simile (disponibile anche in dvd corredato da un libro, informazioni al sito www.moniovadia.it) sia stata suggerita all’artista dall’incontro con una suora cattolica libanese, Marie Keyrouz, vero e proprio fenomeno in senso sia artistico (ha venduto milioni di dischi di canti sacri) sia culturale (insegna matematica e fisica alla Sorbonne di Parigi) sia religioso (è tuttora missionaria e si dedica ai bambini più poveri): come detto in precedenza, la ricerca di Ovadia è agnostica, ma non rifugge, non snobba, non sottovaluta il diverso da sé. È laicismo concreto e integro, che non rifiuta a priori, anzi, affronta sempre il dubbio.

Lo spettacolo è interessante, la voce di Ovadia ha bisogno un po’ di scaldarsi, dato che nei primi brani, non poco impegnativi, si avverte qualche difficoltà d’intonazione: l’intensità è comunque innegabile, ed è questo che al pubblico interessa maggiormente. Le digressioni dell’attore sono a tratti divertenti, mai banalizzanti e ottengono il risultato d’attrarre l’attenzione del pubblico, cosa che, dato l’argomento, è tutt’altro che scontata. Resta la perplessità circa l’operazione, la sua reale integrità: è possibile utilizzare un repertorio d’impronta religiosa per farne spettacolo, pur con le migliori intenzioni (filologiche, filosofiche ed etiche) senza comprometterne ineluttabilmente il senso, senza snaturarlo? Forse no, ma non è certo Ovadia a poter sciogliere un dubbio del genere, legato a doppio filo con la natura insidiosa della nostra La Société du spectacle.
(visto a Pontedera, Teatro Era, 26 ottobre 2008)

Spettacolo
Kavanàh
canti della spiritualità ebraica
di e con Moni Ovadia
Strumentisti: Carlo Cantini (violino), Valentino Corvino (violino), Sandro di Paolo (viola), Stefano Dall’Ora (contrabbasso)
Produzione: Promomusic

domenica 19 ottobre 2008

Ben tornato, signor Rossi

(da teatro.org)
Solo. Sulla strada ancora, riecheggiando la celebre canzone di Willie Nelson, la cui chitarra in sottofondo ne accompagna l’ingresso o, meglio, il ritorno in scena. Paolo Rossi, cinquantacinque anni, più della metà vissuti da rocker teatrale, nomade comico, in grado di coniugare i classici della scena con jazz, cabaret, intrattenimento circense e dimensione pop. Si ripresenta al “suo” pubblico dopo l’esperienza fallimentare di Ubu Re d’Italia: lo spettacolo, in programma la passata stagione, non è mai andato in scena a causa dei problemi di salute del Lenny Bruce dei Navigli e la tournée prevista è stata annullata.

È quindi dalle tavole del raccolto Teatro degli Animosi di Carrara che Paolo Rossi torna alla scena, in completa solitudine, come mai in precedenza. Certo, la vocazione di Paolino è sempre stata solistica, con quegli occhi, quella presenza da Puk fuori posto, ennesima e reale incarnazione di fool contemporaneo, suburbano e maudit, Peter Pan alcolizzato, perennemente in bilico tra Enzo Jannacci e Charlie Parker, Dario Fo e Jimi Hendrix, Molière e Vladimir Vysotskij.
La sua carriera è infatti caratterizzata dall’irregolarità individualistica del “rifinitore”, si perdoni la metafora calcistica, e il bisogno di coralità, di accompagnamento, nella ricerca della natura intimamente carnevalesca del teatro, classico o contemporaneo che sia. Dopo vent’anni trascorsi con musicisti a coprirgli le spalle, a seguirlo nelle elucubrazioni surreali dei suoi monologhi (nel 1993 il suo partner di scena era un Vinicio Capossela già al secondo disco…), dopo allestimenti in cui trovavano posto comici e attori dal futuro assicurato (nel Circo di Paolo Rossi, stagione 1994/95, recitavano talenti del calibro di Aldo Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese, Antonio Cornacchione, Maurizio Milani, Bebo Storti, Lucia Vasini e altri), Paolo Rossi riscopre l’assoluta semplicità della solitudine teatrale. A rafforzare l’effetto, l’assenza completa di scenografia, di quinte, di canoniche delimitazioni formali. Solo Rossi.

A dire il vero, la convenzione c’è eccome: l’attore compare, infatti, con in completo scuro, il volto sbafato di trucco (evidente citazione del Joker del compianto Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro, ennesimo capitolo cinematografico dedicato di recente a Batman), ma la maschera di biacca e rosso colato è in realtà funzionale al dettato dello spettacolo. Si tratta, del resto, d’una confessione: ridendo e scherzando, Rossi racconta, ovviamente servendosi di metafore, brani surreali, canzoni triestine e citazioni da Shakespeare a Cechov sino a Prévert, il fallimento di Ubu, la crisi d’identità al cospetto di Alfred Jarry (altro grande maledetto della storia del teatro), il ricovero in clinica di recupero da problemi con l’alcol. Per non dimenticare un riferimento non evidente, alquanto probabile per chi scrive, con il Gaber primi anni Settanta, che ripeteva come “l’unica salvezza” fosse “la strada”, perché “il giudizio universale / non passa per le case / le case dove noi ci nascondiamo / bisogna ritornare nella strada / nella strada per conoscere chi siamo”.

La trama metaforica dei “numeri” maschera ed espone la sostanza del racconto scenico dell’attore, in un monologismo comico ai limiti d’una personale “terapia”. Non c’è patetismo, né autocommiserazione, tutt’altro: la lente della satira permette a Rossi di scavare nel dolore, di tramutare il piombo inerte delle proprie esperienze, vere o presunte non conta, nell’oro della comicità. E non è forse un caso che tra gli autori dei testi compaia, assieme a Carolina de La Calle Casanova, Riccardo Pifferi e al regista Renato Sarti, anche Stefano Benni, penna illustre nostrana, anch’egli, come Rossi, autore borderline, tra comico e surreale.

Lo spettacolo è interessante, a tratti molto divertente, ma anche brusco, da affinare e “far girare”. La prima assoluta di un allestimento non è mai la migliore occasione per effettuare valutazioni, si avvertono gli scricchiolii d’un ingranaggio da oliare, pur nella consapevolezza che “questo” Rossi ha acquisito una natura diversa dalle precedenti, più spigolosa e meno ruffiana.
Non è certo un problema, questo, rispetto alla scoperta d’un artista nuovamente arrabbiato, forte e, soprattutto, “doloroso”, quasi come ai tempi del primo Kowalski. È con piacere, e speranza, che affermiamo quindi: ben tornato, signor Rossi, ben tornato sulla strada ancora.
(Visto a Carrara, Teatro degli Animosi, venerdì 17 ottobre 2008)

Spettacolo
Sulla strada ancora
di Carolina de la Calle Casanova, Paolo Rossi, Stefano Benni, Riccardo Pifferi, Renato Sarti
con Paolo Rossi
regia: Renato Sarti
Produzione: Agidi

sabato 11 ottobre 2008

Mariangela, sola ma non troppo

(da teatro.org)
Terzo anno di tournée per Sola me ne vo, assolo scenico di una (quasi)inedita Mariangela Melato che, smessi i panni d’attrice tragica, affronta il pubblico in solitudine, secondo il modello ormai collaudato dell’one man show, declinato in questo caso nella formula one woman show. A firmare il collage di testi e sketch, con varie citazioni classiche (da Racine a Shakespeare) e contemporanee (da Brecht a Tennesee Williams sino a Gaber), tre importanti nomi dello spettacolo italiano quali Vincenzo Cerami, Giampiero Solari (regista dello spettacolo) e Riccardo Cassini.

Mariangela si presenta sola. Un occhio di bue segue dall’alto la sua silhouette invidiabile. Vestita di nero, con una sorta di maglia scollata che scopre parzialmente le spalle, compare al centro di una scena spoglia, in cui campeggiano tre grandi schermi ovali disegnati da luci che, a tempo debito, s'illuminano creando godibili effetti a metà tra il “santino” e il varietà: le due ellissi laterali sono, come si capisce in seguito, anche degli specchi riflettenti, in grado di creare fantasiosi effetti di luce conferendo allo spettacolo un piacevole movimento visivo. Di quando in quando, un divano rosso compare sulla destra, nei momenti in cui la protagonista parla della propria vita privata.

Proiezioni e filmati d’epoca interagiscono col racconto dell’attrice, che narra, apparentemente a ruota libera, della propria vita, del proprio vissuto, dalla gioventù agli esordi con Dario Fo, dalla carriera cinematografica alla propria esperienza di donna. Non solo monologhi, tutt’altro: man mano che la performance prosegue, l’artista canta, accompagnata al pianoforte di Lorenzo Capelli che appare in controscena, e, soprattutto, balla attorniata da sei prestanti ballerini (coreografie di Luca Tommassini), nei momenti forse più felici dell’intero allestimento.

Sin dal principio Mariangela Melato rompe la quarta parete, rivolgendosi direttamente al pubblico, stratagemma certo non nuovo, ormai: si rivolge alle signore in sala, con complicità, lamentando l’assenza degli “uomini”, ormai intimiditi, effemminati, incerti, raccogliendo consensi e risate da una sala non eccessivamente calda. E l’intero spettacolo sembra pagare una palpabile incertezza nella scrittura, l'assenza di coraggio di un testo "garbatino" ma niente più, privo di spunti reali, tutto appoggiato sulla confidente personalità dell'attrice. Troppo poco.

Non è un caso che la produzione sia di Ballandi Enterteinment, colosso nello spettacolo italiano già attivo con i vari one man show che da qualche anno costituiscono i pochi, rarissimi eventi televisivi (si pensi a Fiorello, Panariello, Morandi e Celentano). Il punto è che il teatro funziona diversamente dalla televisione e, soprattutto, quello che in un dormiente e soporifero canale generalista sembra essere eversivo, traslato sulle tavole di un palcoscenico reale assume i contorni di uno spettacolo depotenziato, privo di forza e d’interesse.

Francamente, spiace che un’attrice del calibro della Melato si presti a un’operazione simile, dalla quale è difficile che possa trarre, artisticamente, vantaggio alcuno. Non che gli spunti manchino del tutto, i balletti sono godibili e ricordano, in alcuni rari momenti, certe “follie” sapientemente frivole di Paolo Poli, ma, alla fine dei conti, le voci in positivo sono veramente troppo poche a fronte di un testo debolissimo cui ben poco giovano inserti e citazioni. Nello specifico, non sosteniamo che Qualcuno era comunista di Gaber-Luporini sia impossibile da far recitare ad altri attori oltre che all’originale, ma la versione proposta dalla Melato grida ampiamente vendetta: ridotto a un bluesaccio né originale né disinvolto, il pezzo è risultato del tutto inconsistente. Buone le musiche, invero, ma nel complesso, troppo, troppo poco.
Visto a Lucca, Teatro del Giglio, il 10 ottobre 2008.
Spettacolo
Sola me ne vo
di Mariangela Melato, Michele Serra, Giampiero Solari e Riccardo Cassini
Regia: Giampiero Solari
Compagnia/Produzione: Tearo Stabile di Genova - Ballandi Entarteiment
con Mariangela Melato
musiche arrangiate da Leonardo De Amicis
coreografie Luca Tomassini

lunedì 22 settembre 2008

Quant'è insulsa l'umanità... L'ultima cattiveria dei fratelli Coen

(da loschermo.it)
LUCCA - A prova di spia - Burn After Reading è il divertentissimo film dei fratelli Coen (Joel e Ethan, freschi di consacrazione hollywoodiana con l'Oscar per Non è un paese per vecchi) presentato quest'anno a Venezia e uscito nelle sale italiane venerdì scorso (19 settembre). Una spy story grottesca e parodica, uno sguardo amaro sulla follia dell'umanità d'oggi e tanto, tanto cinema. Da vedere assolutamente

Dopo il monumentale Non è un paese per vecchi (orig. No Country for Old Men, Oscar 2008 come miglior film), Ethan e Joel Coen tornano sul grande schermo con una pellicola certo diversa, ma non troppo distante dalla precendente, almeno per la totale dis-speranza dello sguardo feroce sull’umanità contemporanea.

A prova di spia - Burn After Reading, presentato fuori concorso a Venezia, è film divertentissimo, arzigogolato e tagliente, secondo canoni consolidati per i due fratelli terribili. Un cast di autentici fuoriclasse del main stream hollywoodiano, in cui le due attrici (la cinica e puntuta Tilda Swinton, fresca di Oscar per Michael Clayton, e l’irresistibile Frances McDormand, moglie di Joel Coen, anch’essa Oscar per Fargo, nel 1997) la fanno letteralmente da padrone, costituisce l’ottimo materiale umano che ha permesso ai Coen di allestire una commedia allucinata e amara sul mondo d’oggi, evidenziando con ghignante cinismo le idiosincrasie, gli scarti, le futilità dell’America contemporanea. John Malkovich è Osborne Cox, un agente CIA in disgrazia per problemi etilici e contro il quale sembra essersi rivoltato il mondo: la moglie Katie (l’impietosa Swinton) lo lascia gettandosi tra le improbabili braccia di Harry, un George Clooney gigione e infantile, autentico maniaco del fitness e degli incontri via internet. La decisione di scrivere le proprie memorie da parte dell’ex analista CIA si rivela il motore di una vicenda oltre i limiti del paradosso: il cd con i "segreti" dei propri anni di servizio presso la fatidica "Agenzia" (il nome con cui negli USA si indica la CIA) viene sottratto dalla Swinton e smarrito in una palestra, ritrovato da Linda (Frances McDormand), una donna frustata dalla quarantina incipiente che coltiva il sogno di ricorrere alla chirurgia estetica per far di sé una persona nuova. Sodale di Linda è il giovane e palestrato istruttore Chad, un incontenibile Brad Pitt alle prese col personaggio più idiota e buffo della propria carriera. Linda e Chad, compreso non si sa come il contenuto esclusivo e segretissimo del dischetto, s’improvvisano agenti segreti: prima cercano, invano, di ricattare un Malkovich esasperato (la moglie l’ha cacciato letteralmente di casa), poi di rivendere il "prezioso" supporto a degli attoniti funzionari dell’ambasciata russa, come se fosse ancora in corso la Guerra Fredda. La storia di ogni personaggio s’intreccia imprevedibilmente con quella degli altri, creando una trama vorticosa e ben condotta dalla sapiente mano dei due registi: sembra di essere in una versione moderna d’una pochade di Feydeau. Divertente osservare come Burn After Reading sia intimamente legato ad altre pellicole coeniane, per motivi sempre diversi: la forma comica e il ritmo fanno pensare allo stracult di Il grande Lebowski (orig. The Big Lebowski, del 1998), film però ben più "squinternato" del presente, la tragica idiozia dei personaggi riporta invece all'impietoso Fargo e, in certe sequenze, al memorabile Barton Fink (1991); infine, questa è la prima sceneggiatura originale firmata dai Coen dopo il bellissimo L’uomo che non c’era (orig. The Man Who Wasn't There, 2001), considerato l'ultimo film integralmente coeniano prima dell'Oscar conseguito nello scorso marzo.

Risparmiamo l’evoluzione della trama a chi ha bisogno di non sapere "la storia", dicendo soltanto che, nella movimentata molteplicità dei caratteri in scena, solo uno di questi vedrà coronato il proprio personale (e più futile) obiettivo. Finirà male anche per l'unico personaggio apparentemente assennato, quel Ted (l'ottimo Richard Jenkins) che, proprietario della palestra e (non si sa perché) innamorato di Linda, finirà per cedere alla follia che lo circonda commettendo un unico, ma fatale errore. "Non c'è salvezza", sembrano affermare i Coen, con un ghigno satirico ben stampato sulle labbra: nessuna salvezza per un mondo completamente centrifugato tra idiozie, monomanie e la totale assenza di comunicazione vera. Impressionanti, infatti, i dialoghi tra la McDormand, Clooney e Pitt (questi ultimi due splendidamente assortiti in un duetto comico stile Scemo & + scemo) sono piccoli e disarmanti compendi di odierna cultura pop: sembrano strappati dalle riviste per signora o dalle rubriche di psicologi d'accatto e oroscopi assortiti.

Si ride, alla visione di Burn After Reading: i Coen, come per Fargo e Il grande Lebowski, mettono in campo personaggi costantemente "non all’altezza" del proprio ruolo, illustrando con cattiveria grottesca gli infiniti labirinti della stupidaggine umana e delle sue tragiche conseguenze. E se il tanto reclamizzato mondo contemporaneo, iperripreso, ipercontrollato, non fosse nient’altro che una gigantesca bufala? E se bastasse davvero un’oca alla soglia dei quarant’anni per mettere in crisi il sistema di intelligence dell’unica potenza rimasta? Del resto, è pur vero che George W. Bush stava per morire strangolato inghiottendo un salatino...

Si ride, per quanto ci sia ben poco o, meglio, nulla da ridere. Del resto, la grande comicità non si esaurisce nel semplice singulto d’una risata: in questo senso, Burn After Reading si segnala, al pari delle citazioni più o meno velate presenti al suo interno (dal Cluseau dell’indimenticato Peter Sellers a certe atmosfere kubrickiane del Dottor Stranamore), come un altro grande capitolo di quella gigantesca, folle comédie humaine cui rivolgono puntualmente lo sguardo i fratelli Coen. I quali sembrano affidare il proprio punto di vista allo stordimento del responsabile CIA interpretato da un indimenticabile J.K. Simmons: l'ufficiale, infatti, segue lo sviluppo di tutta la storia dall'esterno (dopo tutto Malkovich è un ex agente dell'Agenzia), senza peraltro capirci niente. "Dovremmo imparare a... non rifarlo...", afferma, cercando di dare un senso, una morale alla vicenda. E, sconsolato, aggiunge: "Se solo sapessimo cosa...".
Da non perdere.
Visto il 21 settembre 2008.

Film
A prova di spia - Burn After Reading
Regia: Ethan Coen e Joel Coen
Sceneggiatura: Ethan Coen e Joel Coen
Musiche: Carter Burwell
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Ethan Coen e Joel Coen
con Frances McDormand, Tilda Swinton, John Malkovich, George Clooney, Brad Pitt, Richard Jenkins, J.K. Simmons
Durata: 96 min

lunedì 8 settembre 2008

Vieni avanti pretino: la fantomatica morte di Giacomo Puccini

(da loschermo.it)
SERAVEZZA (Lucca) - Torna a vivere il suggestivo spazio scenico della Cava Barghetti di Seravezza: quest'anno Evocava ha presentato lo spettacolo originale Chi ha ucciso Giacomo Puccini?, affettuoso tributo al compositore lucchese sottoforma di monologo, protagonista Massimo Grigò

Sono quasi passati dieci anni dai primi spettacoli realizzati all'interno del teatro naturale rappresentato dall'imponente Cava Borella, sopra Vagli. L'idea di rivitalizzare uno spazio faticato, sofferto, come quello di una cava marmorea è un interessante esperimento, realizzato con successo dal gruppo Evocava. Negli ultimi anni, oltre allo spazio vicino a Vagli, si è iniziato a sfruttare il ben più piccolo (ma non meno suggestivo) antro della Cava Barghetti, a Seravezza, di certo, assai più raggiungibile dell'omologo vagliese, dato che si trova a non più di trecento metri di salita sterrata dal bel palazzo Mediceo del centro versiliese.

Lo spettacolo che quest'anno, purtroppo per sole due date, è stato offerto si pone nell'ambito delle molte, eterogenee iniziative in memoria di Giacomo Puccini per il 150° anniversario della sua nascita. L'originale teatro scavato nel marmo di Seravezza ha ospitato quindi un allestimento inedito, leggero e affettuoso, dal titolo Chi ha ucciso Giacomo Puccini?, ideato e realizzato da Andrea Tessieri, Maurizio Guidi e Piero Nannini, quest'ultimo autore del testo e muta presenza scenica al fianco del monologante Massimo Grigò.

Le musiche, tutte tratte e ispirate dal repertorio pucciniano, sono state rielaborate e campionate dal musicista e compositore Nicolao Valiensi, autore d'un brillante lavoro, e per una cernita dei brani remota da qualsivoglia banalità e per la capacità di giocare (del resto, suonare in inglese e francese è sinonimo di giocare) con le partiture del Maestro.

Si apre con una figura che, percorrendo la platea dal fondo verso il palco, entra in scena mentre le casse diffondono le note d'inizio del Tabarro. L'uomo in scena non è, però, il protagonista "pretino musicolfilo" divenuto, dal 1887, intimo amico di Giacomo Puccini, ma il silente Rodolfo (l'autore Piero Nannini), sacrestano tuttofare al servizio del chierico. Quasi subito, però, si capisce che la musica non è esattamente quella "originale" del maestro, ma una sequenza ripetuta, reiterazione di alcune misure in minore, a creare un singolare effetto misterioso. I gesti del personaggio sono misurati, quasi ieratici: dopo qualche indugio, procede alla sacra vestizione di un'altra figura umana, sulla destra della scena dove è collocato un piccolo armadio di legno verde scuro. Indossata un'elegante tonaca, Massimo Grigò raggiunge il grande tavolo centrale, coperto di libri e, sulla sinistra, da un busto marmoreo.

Don Pietro Panichelli (questo il nome del pretino) inizia a parlare direttamente al pubblico, come in una confessione aperta. Racconta il suo amore per Puccini, il primo incontro e la storia di un'amicizia durata per tutta la vita. Lo snello prelato ha modi rapidi, furbeschi: l'attore è bravo a caratterizzare il personaggio con sapienti tic espressivi, un certo muover d'occhi, ora densi d'amical commozione ora agitati da una linguacciuta malizia. La vita di Puccini è ripercorsa come su una tela, animata da repenti ma vivide pennellate di colore: Panichelli incarna sia la bonarietà un po' ingenua del parroco sia la perfidia tutta femminea d'una perpetua che non c'è. A lato, l'afasico Rodolfo, tirato in ballo per mescere bicchieri di rosso al prete; che contribuiscono a sciogliergli la lingua, lama affilata nel tranciare giudizi sulle persone vicine all'amato Maestro. Donna Elvira, la moglie, è dipinta qual volgare matrona, già sposa d'un commerciante, e così via via tutti gli amici, sia gli artisti (i "rivali" Mascagni e Leoncavallo, detto scherzosamente Leonbestia dallo stesso compositore) sia i compari delle varie brigate che Puccini frequentava in quel di Lucca o Torre del Lago.

Mano a mano che il divertente racconto procede, il "pretino musicofilo" rievoca i capolavori dell'amico e Rodolfo prende dall'armadio i vari costumi dei protagonisti delle opere pucciniane, variopinti indumenti dall'alto valore iconico: il kimono per Madama Butterfly, il vestito settecentesco di Manon Lescaut, il rosso scarlatto del vestito di Tosca.
Grigò prosegue nell'affabulazione: da un lato, si deve registrare qualche inciampo nell'eloquio (ben mascherato dal gran mestiere del bravo attore fiorentino), dall'altro si plaude alla perfetta interpretazione sia nel rendere in modo sottile e preciso la psicologia del buffo personaggio, sia per la singolare colorituta linguistica, una calata d'impronta versiliese che rappresenta un'ottima scelta per un prelato dai natali pietrasantini. E anche Puccini è reso, nelle parole dell'amico, in modo vivido, da quel toscanaccio che era, pronto alla battuta irriverente, come testimoniato dalla doppia quartina Cacca di Lucca, una poesia di carattere scatologico sulla purezza, anche morale, della Lucca escrementizia.
Il quid dello spettacolo è però altrove, non nell'efficace pittura d'ambiente, bensì sul giallo tutto inventato da don Panichelli: Puccini non sarebbe morto a causa del tumoraccio che lo colse a Bruxelles, il 29 novembre 1924, ma prima, nel 1918, nel corso di una cantata di maggio svoltasi a Seravezza, alla presenza del Maestro, della moglie, degli amici artisti, d'una sospetta amante e del pretino medesimo. Nel trambusto festivo, con il coro di maggianti a intonar un brano del compositore, il corpo del medesimo è scoperto esanime con una spada conficcata nel costato: nessun colpevole evidente. Don Panichelli assume il ruolo d'un improbabile Sherlock Holmes, alle prese col delitto dei delitti: chi ha ucciso Giacomo Puccini? L'azione viene smontata, ripercorsa, analizzata, e con essa ogni partecipante notevole della festa, compreso quel Lorenzo Viani sorpreso a "prender le misure" al cadavere "stecchito a seguito di una stecca", subito dopo il fatto, in vista d'una futura statua. E l'indagine del linguacciuto prete amante del buon vino è un'ulteriore occasione per rievocare episodi, storie, relazioni e personaggi della vita di Puccini.

Da ammirare la precisione filologica del testo di Nannini, che fonde in un racconto la fantasia del giallo whodunnit alla correttezza dei riferimenti biografici, non senza gustose licenze, comunque giustificate dai vari contesti. Certo, la struttura drammaturgica è un po' debole, ma non sta certo qui lo spirito dello spettacolo, che, anzi, ha nel gioco fantabiografico la sua cifra primaria: un divertissement ben condotto, affettuoso e che mai rischia di annoiare. Anzi, quando alla fine, Panichelli "ritrova" (o crede di ritrovare) il volto dell'amico nelle rughe petrose del marmo abbandonato della cava Barghetti, in quei solchi di roccia dal nitore perduto ormai sporca di faticato abbandono, lo spettacolo riesce persino a emozionare, complice il volto di una Butterfly a metà impersonata da Piero Nannini. L'impronta del viso maschile, tagliato in due parti dal trucco del celebre personaggio pucciniano, restituisce questo spettacolo leggero ma non troppo a una dimensione teatrale autentica, legata a doppio filo con l'indefinizione, sessuale e realistica.
Un'ambiguità che doppia quella dei sentimenti del bizzarro don Panichelli per l'amico e che nella maschera grottesca di Nannini riacquista una potenza sorprendente. Non è poco.

Peccato che le repliche siano soltanto due: è augurabile che iniziative del genere, pure aliene da qualsiasi speculazione (artistica ed economica), possano ricevere le giuste attenzioni sia dal pubblico (comunque presente alla recita) sia delle amministrazioni che troppo spesso usano la parola "cultura" in modo non troppo consapevole.

Di seguito, per chi non lo conoscesse, il testo delle due quartine escrementizie composte da Giacomo Puccini:
Cacca di Lucca è sempre senza pecca
anche se è fatta in fretta da baldracca
sia nera, gialla or rossa come lacca
cacca di Lucca è sempre senza pecca.
Sia secca, o a oliva cucca, o a fil di rócca
o fatta a neccio come fa la mucca,

il suo profumo acuto mai ci stucca,
cacca di Lucca è proprio senza pecca


Visto il 7 settembre 2008, a Seravezza (Lucca), Cava Barghetti.

Spettacolo
Chi ha ucciso Giacomo Puccini?
ideato e coordinato da Maurizio Guidi, Piero Nannini e Andrea Tessieri
testo di Piero Nannini
con Massimo Grigò e Piero Nannini
musica di Nicolao Valiensi (rielaborazione da brani di Giacomo Puccini)
regia audio: Stefano Nannizzi
Produzione: Evocava

Foto: Igor Vazzaz

venerdì 1 agosto 2008

L’incontenibile vitalità di Figaro

(da loschermo.it)
FIRENZE – Mercoledì scorso (30 luglio), presso il suggestivo Giardino di Boboli, si è svolta la quarta e ultima replica de Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini: per la regia di Beppe de Tomasi; l'allestimento è inserito nel ricco cartellone di OperaFestival 2008

Il Barbiere di Siviglia (titolo originale Almaviva, o sia l’inutile precauzione) può essere definito il melodramma buffo più noto d’ogni tempo; su libretto di Cesare Sterbini, ispirato alla commedia Le barbier de Séville ou la précaution inutile del grande Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, debutta al Teatro Argentina di Roma il 20 febbraio del 1816: la rappresentazione termina tra le contestazioni, complice la presenza dei sostenitori del tarantino Giovanni Paisiello, autore di un'opera dal medesimo soggetto nel 1782. Interessante notare come anche Mozart, nel 1786, s'ispiri a un altro lavoro del commediografo francese, Le mariage de Figaro che, con La mère coupable e il già citato Barbiere, costituisce la trilogia dedicata all'intraprendente "perucchier, chirurgo, botanico, spezial, veterinario" e "faccendier di casa".

L'opera, in due atti, è ambientata nella Siviglia di metà XVIII secolo e racconta come il giovane conte d’Almaviva riesca a sposare l'amata Rosina, dopo averne raggirato il tutore con l'aiuto dello scaltro e ingegnoso Figaro.

L'allestimento proposto da OperaFestival presenta scenografie firmate da Nicola Visibelli, semplici ma nello stesso tempo funzionali alla vivacità dell'azione. Sullo sfondo del palcoscenico sta la dimora di don Bartolo, parte d'una gigantesca struttura in tenue giallo con quattro portoni, permettendo un articolato gioco di entrate/uscite, e altrettante aperture nella zona superiore, i cui interni variano di colore a seconda delle luci di volta in volta impiegate. Al centro, il dischiudersi di un ampio portone a due ante segna i momenti più importanti della narrazione, mentre il resto della scena diviene strada antistante al palazzo all'inizio del primo atto e interno del medesimo nel prosieguo della storia. Abile e indovinata, quindi, la peculiare scelta di rappresentazione en plein air, dato che lo svolgimento dell’azione è, a sua volta, in parte all’aperto, sulla piazza cittadina di Siviglia: l'ambientazione della vicenda è dunque doppiata dalla suggestiva cornice del fiorentino Giardino di Boboli.

L'abilità dell'Orchestra di OperaFestival e del direttore Marco Balderi risultano evidenti già nell'esecuzione della sinfonia introduttiva: con precisione e sensibilità viene resa l’ampia gamma cromatica dello humour rossiniano, intuibile fin dalle prime note, cogliendo subito l'atmosfera giocosa che contraddistingue lo svolgersi dell'azione. Una leggerezza ariosa, sorridente, una partitura musicale dal gusto ludico, a toccare il pasticcio amoroso della storia con ironico distacco, non lesinando, d'altro canto, una mirabile alternanza dinamica (il registro spazia da sinuose morbidezze a brusche impennate di suono), nel dosare le sfumature espressive di un’orchestra ridotta come previsto dall'autore pesarese.

L'opera presenta peraltro un gran numero di arie ben note al pubblico: il coro Piano, pianissimo, che rivela una puntuale, e insolita nel mondo della lirica, attenzione al movimento di insieme; l'elettrizzante cavatina Largo al factotum della città di un gradevole Figaro (il baritono Juan Possidente); l'esuberante Una voce poco fa di Rosina (il contralto Miroslava Yordanova), irresistibile per virtuosismo e interpretazione; infine, l'aria La calunnia è un venticello di Basilio (il basso Andrea Patucelli), in cui il tipico crescendo rossiniano descrive il trasformarsi della maldicenza da semplice bisbiglio a fragoroso grido: aumentano gli strumenti, il livello sonoro e i registri si fanno sempre più acuti. Spassoso il finale del primo atto, Freddo ed immobile, vertice dello humour musicale: regna su tutto la confusione generale, le astuzie di Figaro stanno ingarbugliando la vicenda e Bartolo è incapace di spiegarsi l’accaduto. Il caos viene ben rappresentato dal consulto movimento dei personaggi intorno a sedute di vario tipo, originali nella forma e del colore. Il ritmo incalzante è conservato nel secondo atto con l’esilarante climax della rasatura di Don Bartolo da parte di Figaro, in cui sono riconoscibili le principali soluzioni d'intreccio della commedia dell’arte; si arriva quindi agilmente al lieto fine, con il matrimonio dei due giovani e l’incredulità dell’anziano tutore, le cui precauzioni si sono rivelate inutili.

Colpisce la preparazione, canora e, soprattutto, attoriale, dell’intero cast. Sia chiaro: è un gran bel pregio, giacché il Barbiere è opera che fa del movimento, musicale e scenico, una delle sue principali matrici. Brillano le due figure femminili: Yordanova, voce sicura e presenza teatrale notevoli, coglie in pieno la sfrontata arguzia e l’estro efficace della bella Rosina. Da parte sua, la governante Berta del soprano Giovanna Donadini presenta una compenetrazione formidabile di doti canore e guittezza clownesca: un vero portento comico che sfrutta una giocosa e accurata mimica accompagnandola a una sorprendente disinvoltura nelle movenze.

Al di là della piacevole esecuzione, il principale merito della regia di Beppe de Tomasi (già sulla carta una certezza) risiede nell'attenzione ai movimenti degli interpreti, totalmente a proprio agio nel dinamismo dell’azione e liberi dalle frequenti ingessature che il canto impone, ma alle quali troppo spesso si indulge. Desueto per la lirica è inoltre l’abbattimento della quarta parete: per salire sul palco, parte dei musicisti utilizza le scale poste ai lati della ribalta, mentre Figaro attraversa la platea nel burlarsi di Bartolo, liberando così il pubblico da quella sensazione di freddo distacco, più o meno percettibile, costante anche dei melodrammi più appassionati.

Gli applausi del pubblico giunto nella calura del Giardino di Boboli sono convinti, soddisfatti e, per una volta, del tutto giustificati.

Visto il 30 luglio 2008, Firenze, Giardino di Boboli.
di Igor Vazzaz e Silvia Cosentino

Spettacolo
Il Barbiere di Siviglia
Opera buffa in due atti
Libretto di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
cast: Bruno Ribeiro (Il conte d'Almaviva), Luca Ludovici (don Bartolo), Miroslava Yordanova (Rosina), Juan Possidente (Figaro), Andrea Patucelli (don Basilio), Alvaro Lozano (Fiorello), Giovanna Donadini (Berta), Leonardo Cirri (Ambrogio), Dario Shikhmiri (Ufficiale)
Direttore d’orchestra: Marco Balderi
Regia: Giuseppe De Tomasi
Assistente alla regia: Leonardo Cirri
Scene: Nicola Visibelli
Assistente scenografa: Elena Bianchini
Realizzazione maschere: Elena Bianchini
Costumi: Micol Joanka Medda
Assistente costumi: Caterina Bottai
Luci: Alessandro Ruggiero
Maestro del Coro: Maurizio Preziosi
Orchestra e Coro di OperaFestival

Fotografie courtesy OperaFestival