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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

venerdì 27 marzo 2009

Commedia plautina e poesia pasoliniana: il piccolo miracolo del Vantone

(da teatro.org)
È una Roma metafisica, onirica, ma al contempo viscerale, vitale, abitata da presenze slabbrate, truffatori e scrocchi, gente da male e varia umanità, quella messa in scena da Roberto Valerio alle prese con quel piccolo gioiello di (ri)scrittura plautina che è il Vantone di Pier Paolo Pasolini.

La scenografia, firmata da Giorgio Gori, è una visione essenziale, pulita: uno sfondo cromaticamente cangiante e una struttura lignea a due aperture sulla sinistra. Spazio ampio, vuoto arioso e prezioso offerto al respiro d’una lingua materica e corporea, quel romanesco in rima, lordato e terragno, che evoca certi passi di Giuseppe Gioacchino Belli.
Non è lingua archeologica (Vantone è, peraltro, sorta di neologismo, riuscitissimo, che non ha occorrenze nella letteratura e nell’uso romaneschi) né proiezione moderna o contemporanea, ma lingua poetica, unica vera soluzione per la traslazione espressiva e artistica dei dialetti (si pensi, ad altre latitudini, a Ugo Chiti, Dario Fo, Emma Dante, ma anche al Fabrizio De André pseudo-genovese).

Il Miles gloriosus di Tito Maccio Plauto approda quindi in una contemporaneità assurda e sospesa: il fanfarone Pirgopolinice è ben reso da Nicola Rignanese con un’interpretazione ottimamente calibrata sul carattere (retaggio d’una maschera arcaica della paillata latina), sempre sopra le righe, con movenze guappe, secche e accelerate.
L’intreccio della fabula è semplice, basato sul modello classico: l’amore di due giovani (Filocomasia e Pleusicle) è impedito dal rapimento compiuto da un soldato smargiasso e vantone che finirà per essere gabbato, vittima degli intrecci orditi dal furbo Palestrione servo di Pleunice.
A questo testo, il più lungo dell’intero corpus teatrale plautino, Pasolini applica, oltre alla reinvenzione linguistica (in opposizione alla traduzione, col rischio di rendere ancor più cristallizzato un testo risalente a oltre due millenni fa), un’appropriatissima vocazione musicale, pronta a esplodere in alcuni momenti d’irresistibile teatralità: pensiamo all’irruzione, potente e sentimentale, della voce di Domenico Modugno con Che cosa sono le nuvole?, canzone scritta a quattro mani proprio con Pasolini per l’omonimo episodio inserito nel film Capriccio all’italiana.

Se questo Vantone ha un pregio è, in ogni caso, quello della pulizia: in senso estetico, in senso scenico, in senso poetico. E spettacoli del genere dovrebbero esser mostrati agli aspiranti registi e ai frequentatori delle scuole di recitazione: nessun elemento di troppo, direzione degli attori puntuale, perfetta, sfruttamento dello spazio preciso.
Una regia così pulita, solo apparentemente facile, firmata da Roberto Valerio ottimo anche nella veste d’interprete, ha il grandissimo pregio di lasciar campo libero alla lingua, a quel meraviglioso impasto di termini e versi che inserisce a pieno diritto questo testo tra le migliori produzioni dialettali di Pasolini. L’evidenza di ciò è data dall’accessibilità della messinscena, in grado di divertire, strappare applausi e riscuotere consensi pur a fronte di un testo per niente facile, di non immediata comprensione.
Oltre al pregevole lavoro di Rignanese è d’obbligo sottolineare la bravura estrema degli attori, in particolare Massimo Grigò (e non è, ormai, una novità), interprete di grande centratura vocale, presenza e sorprendete levità, e l’abile Roberta Mattei, che riesce a gestire e differenziare con grande efficacia due ruoli. Il tutto concorre a rendere questo spettacolo una piacevolissima sorpresa, un piccolo gioiello emozionante e divertente, nella sua peculiare eleganza e misura, nei suoi riferimenti alla cinematografia pasoliniana, al varietà, a quel mondo minore, artistico e antropologico, che costituiva un polo d’attrazione irrinunciabile per il Pasolini degli anni Sessanta.
Facile sarebbe stato scadere nel pretenzioso, nella forzatura strillata del riferimento attualizzante e scomposto che pure sembra cifra stilistica di altri teatranti d’attuale successo, ed è per questo che, dunque, consideriamo questo Vantone allestimento felice, raro, da seguire con attenzione e, azzardiamo, speranza.

Visto a Pistoia, Teatro Manzoni, sabato 21 marzo 2009.

Il vantone
di Pier Paolo Pasolini da Plauto
con Francesco Feletti, Massimo Grigò, Roberta Mattei, Michele Nani, Nicola Rignanese, Roberto Valerio
regia: Roberto Valerio
scena: Giorgio Gori
costumi: Lucia Mariani
luci: Emiliano Pona
produzione: Associazione Teatrale Pistoiese/Teatridithalia

martedì 10 marzo 2009

L'indeterminatezza della verità

(da teatro.org)
Possibile portare la scienza a teatro? Domanda forse oziosa, aperta a differenti soluzioni. Di certo è sempre arduo piegare una disciplina espressiva in sensi che non le sono propri, pure didattici: che la scena e l’arte in genere possano assolvere a compiti d’insegnamento è infatti dubbio, benché non manchino esempi di senso opposto.

Copenhagen, testo del britannico Michael Frayn (autore contemporaneo, suoi anche Rumori fuori scena e Miele selvatico), regia di Mario Avogadro con un tris d’interpreti navigati quali Giuliana Lojodice, Umberto Orsini e Massimo Popolizio, sembra raccogliere coraggiosamente la sfida: da dieci anni infatti (il debutto è del 1999) porta in scena la fisica o, meglio, una vicenda strettamente connessa con la scienza e la storia del Novecento.

In uno spazio metafisico, caratterizzato da uno sgombro piano inclinato ai cui lati vi sono dei gradoni in legno e una serie di lavagne recanti formule scientifiche, tre personaggi s’incontrano, intrappolati nella visione realizzata da Giacomo Andrico. Verso il proscenio, una coppia; più in alto, vicino alle lavagne, un altro uomo, distante: a parlare per primo è il duo, il celebre fisico ebreo danese Niels Bohr (Umberto Orsini) e la moglie Margrethe (Giuliana Lojodice). Il primo dialogo è funzionale, teso a ricostruire la situazione, come nei prologhi delle commedie d’un tempo, tirando le fila d’una storia persa nel tempo e nello spazio. Appare chiaro sin da subito, infatti, che il luogo in cui si trovano i personaggi è un altrove sconosciuto, inquietante, per quanto questi non se ne curino troppo. Entrambi rievocano l’incontro avvenuto, nel 1941, tra Bohr e il suo allievo prediletto, Werner Heisenberg, celebre per aver teorizzato il principio di indeterminazione, al tempo docente universitario con cattedra a Lipsia e perciò al soldo della Germania hitleriana.

Le battute rimbalzano tra la coppia in proscenio e l’uomo sul fondo, nell’incomunicabilità tra i due piani che riferiscono autonomamente delle circostanze di quel misterioso faccia a faccia. D’un tratto i due spazi si fondono e i personaggi si trovano insieme: si concretizza un triangolo coatto, a simulare, nei ruoli assunti dai personaggi, una forma familiare con un padre (Orsini-Bohr), un figlio-discepolo (Popolizio-Heisenberg) e una madre severa e appassionata (Lojodice- Margrethe).

Lo spazio, ora più che mai, è gabbia, bolla di vetro d’un laboratorio: i personaggi si fronteggiano, si scontrano, nel tentativo di ricostruire quel giorno ormai lontano, senza mai riuscire a definire compiutamente quanto accadde. Popolizio è molto efficace, la recitazione naturale, basata su un’ottima centratura vocale: il suo Heisenberg è sospeso tra il bisogno di perdono (dopotutto, nel ’41, stava dalla parte sbagliata, nonché avversa all’amato maestro) e la rivendicazione di un’inevitabilità rappresentata dalla Storia. Giuliana Lojodice è invece figura materna che non concede sconti, tutt’altro: sempre pronta a correggere i due uomini nel tentativo di ristabilire una “verità” (la sua), è a tratti spietata nei confronti del figliol prodigo, fedele com'è alle sorti del marito. Orsini è, a sua volta, padre e scienziato appassionato: la recitazione è rapida, forse troppo, tagliente come un rasoio, il timbro ancora ricco di armonici.

Il difetto dello spettacolo, al netto d’una traduzione eccepibile sotto il profilo scientifico, sta però nel non valorizzare al meglio un testo certo “tradizionale” (in senso novecentesco), ma di sicuro ben scritto. Fisica e teatro, nella drammaturgia di Frayn vanno di pari passo e, anzi, il principio di indeterminazione di Heisenberg è la chiave di volta per penetrare l’irriducibile incomprensibilità del reale, la sua endemica natura effimera, sfuggente. Echi absurdisti, ma anche innegabili nervature pirandelliane, attraversano le tensioni di questo dramma di ardua, ma non impossibile, traduzione teatrale: le lavagne, per esempio, potrebbero essere meglio sfruttate da Popolizio e Orsini, così come i movimenti scenici nei momenti in cui le descrizioni scientifiche assumo evidenti connotati scenici.
E invece, lo spazio in cui i due uomini simulano, muovendosi in cerchio, l’orbita di un elettrone in collisione con un fotone (momento chiave per la concezione del principio heisenbergiano) resta unica nel suo genere.

Fisica e teatro finiscono quindi su due parallele sino al termine dello spettacolo, alla stregua di due elementi che, invece di fondersi armonicamente nel dare vita ad altro, restano coagulate e separate l’una dall’altra, in un insieme buono per un allestimento destinato alle scuole, meno interessante nell’ottica del teatro tout court.
Spettacolo lento, troppo, benché l’interpretazione degli attori abbia comunque il merito di salvare il salvabile. Resta purtroppo la netta impressione che si potesse fare meglio.

Visto a Pistoia, teatro Manzoni, il 6 marzo 2009.

Spettacolo
Copenhagen
di Michael Frayn
(traduzione di Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi)
regia: Mario Avogadro
con: Umberto Orsini, Giuliana Lojodice, Massimo Popolizio
scene: Giacomo Andrico
costumi: Gabriele Mayer
luci: Giancarlo Salvatori
musiche: Andrea Liberovici
produzione: CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia / Ert Emilia-Romagna Teatro