Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 25 febbraio 2008

Re-citare Gaber: fedeltà, tradimento e (tanto, tanto) business

(da loschermo.it)
PISTOIA – Nella suggestiva cornice del Teatro Bolognini, all’interno della rassegna In verso veritas, abbiamo visto Giulio Casale, astro nascente del teatrocanzone italano e acclamato interprete di Polli d’allevamento, indimenticabile spettacolo (e incisione) di Giorgio Gaber

Lo ribadiamo a scanso d’equivoci: mettere in scena Gaber si può, si potrebbe, non è di per sé lesa maestà. Lo dicevamo di fronte al deludente Un certo signor G con Neri Marcorè, ce lo ripetiamo a mo’ di mantra nel recarci fiduciosi al cospetto di Giulio Casale, di cui si parla un gran bene e la cui operazione, allestire non un the best of bensì uno spettacolo intero, un’opera conchiusa, del cantattore d’origine istriana, è iniziativa interessante e non da bocciare a priori.

Sipario aperto, una sedia. Filologia scenica perfetta, con la differenza della mise (e del portamento) dell’interprete: Gaber compariva di nero vestito, il consueto "costume" neutro, Giulio Casale, più alto e bello del maestro, indossa una camicia semiaperta e un paio di jeans. Capello sulle spalle, andatura dinoccolata, molto rocker e, in questo, diverso dal modello: del resto, l'epigono ha alle spalle una dignitosa carriera di cantante, senza essere mai riuscito a sfondare (il curriculum tratto dal suo sito ufficiale sembra spararla un po’ grossa, ma tant’è…), segnalandosi però attraverso gli anni Novanta con discreti risultati nel circuito italiano del genere.
È pure bravo, Casale: voce potente, bella, mai a disagio con l’intonazione. Certo, meglio il canto della recitazione, non aiutato da un’amplificazione che impasta il timbro del parlato, mentre invece con Gaber (basta ascoltarne i dischi) il problema non sussisteva.

Però, perché un però c’è sempre, Casale fa il verso all'originale. Ne è un calco (quasi) clonale: di Gaber sono le inflessioni d’accento, certe minuscole variazioni del tono di voce, certi fiati flautati, persino quando ringrazia il pubblico! Già dopo il primo pezzo la cosa è sin troppo evidente, tanto che la tentazione sarebbe di alzarsi e andarsene: s’è capito, s’è capito…
A peggiorare il tutto, c’è, come se non bastasse, il fatto che Casale è infinitamente più debole di Gaber, non ne ha la forza evocativa, la potenza. Lo spettacolo, uno dei migliori della collaborazione tra il cantante-attore e Sergio Luporini, in questa riproposizione-calco non trascina, non fa incazzare, non devasta. E, data la situazione, non ha nemmeno il buongusto di sottrarsi al confronto col modello. Confronto sia, dunque, e, dato che chi scrive, il disco Polli d’allevamento l’ha frustato, ascoltato, suonato e cantato, non si può certo dire che l’operazione di Casale possa reclamare un qualsiasi senso di per sé.

Che significato ha riproporre un’opera senza avere il coraggio, la faccia tosta, la bravura di reinterpretarlo? Di piegarlo alle proprie esigenze, di sondarne i sensi nascosti, tra le pieghe del testo, di renderlo vivo. Quello che Casale fa, con una certa bravura nel canto, è operazione sterile, poco rispettosa e dell’opera e dei suoi autori. Il teatro, comunque lo si voglia interpretare, è arte politica, parla qui e ora, sia che s’insceni Eschilo o Dario Fo. Allestire uno degli spettacoli più furiosi, complessi, difficili politicamente di Gaber non può consentire la monumentificazione, l’archeologia, la riproposizione inerte (non tanto del testo, quanto dell’interpretazione) di ciò che veniva fatto trent’anni prima (Polli d'allevamento esordisce infatti nell’ottobre 1978).
Anche perché, e qui sta il punto più importante, Gaber e Luporini scrivevano al presente, del presente, intervenivano e sviluppavano di anno in anno una propria poetica visione della realtà che, altro aspetto fondamentale, mai era consolatoria, rassicurante. Gaber è stato il Grillo Parlante di un’inquietudine interna alla sinistra italiana, la sua spia, il suo tarlo continuo e poco convinto, il Bastian contrario che, alla lunga, ha inchiodato i veri conformisti, quelli che duri e puri all’epoca fischiavano Quando è moda è moda e adesso prendono, o hanno preso, stipendi e regalie da potentati vari, testate e partiti.

Riproporre senza discutere, anche al limite contestare, qualsiasi disco di Gaber (ma si potrebbe dire qualsiasi opera in assoluto) è un’operazione depravata, deprivata, che ha solo un senso, quello commerciale. Non conoscitivo, soprattutto in questo caso, dato che basta una mezza ascoltata al disco per capire quanto Casale sia in questo caso debole, inessenziale, inerte, inutile. Roba da Fondazione Gaber, ovviamente, che non per nulla pone il sigillo su questa ennesima operazione che si rivela speculativa e in sé disonesta. Per essere veramente fedeli a un modello artistico, è necessario tradirlo. Come non notare, infine, che là dove Gaber suonava con un gruppo di musicisti alle spalle, in questa occasione le musiche (originali, elaborate da Franco Battiato e Giusto Pio) sono invece preregistrate? Manco il brivido del live...

E, come in occasione di Marcorè, si pone per l’ennesima volta la stessa questione: a chi sono destinati gli applausi del pubblico festante? Stavolta non c’è dubbio: tutti, tutti, per il Gaber evocato, telefonato e distante, quasi offensivo per chi abbia minimamente presente la potenza dell’originale.

Sarebbe il momento di porre con forza la questione: basta con i tributi, basta coi Festival disonesti e le fondazioni per far girare il contatore di cassa, basta con questi avvoltoi, basta con lo sfruttamento dei morti.
Non per rispetto morale, ma estetico, che è l’unico modo di essere morali.
Chi ha qualcosa da dire, lo dica, chi ne è privo, si dedichi una volta per tutte ad altro.

Visto a Pistoia, Teatro Bolognini, il 24 febbraio 2008.

Spettacolo
Polli d’allevamento
di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
con Giulio Casale
musiche originali arrangiate da Franco Battiato e Giusto Pio
produzione: Teatro Filodrammatici - Fondazione Giorgio Gaber

venerdì 22 febbraio 2008

Pippo Delbono, la ferocia candida e mortale del buio

(da loschermo.it)
PRATO – Presentato al Teatro Metastasio, Questo buio feroce, penultima realizzazione del teatrante ligure, è un viaggio scioccante e coraggioso che affronta il tema della morte attraverso potenti visioni bianche, commistioni sceniche tra letteratura e danza. Per chi è ancora convinto che il teatro possa colpire, emozionare, senza cedere alla banalità del cliché emotivo. Da non perdere.

Non amiamo a priori Delbono. Questione di diffidenza, o banalissimo atteggiamento da bastian contrari. Dinanzi al generale consenso ci si smarca in cerca dell’anello cedevole, s’indaga maligni. Questione (quasi) morale: di fronte a un fenomeno di livello (non solo) europeo, al cospetto d'un teatrante adorato in Francia (ma in questi casi è giusto diffidare del tipico provincialismo italico che onora a prescindere ogni cavallo di ritorno) è giusto e, anzi, il minimo pretendere il meglio. Il fatto è che Delbono stavolta il meglio lo dà. Lo sbatte addirittura in faccia al pubblico, un meglio straziante, intenso e irriducibile.

Si resta basiti, senza parole, senza neppure concetti conchiusi, di fronte al nitore violento di Questo buio feroce, alla sua aggressione, brutale e al contempo misurata, nei confronti della morte, punto focale e dello spettacolo e della vita tout court. In quella che probabilmente è la prima scenografia vera e propria (di Claude Santerre) utilizzata dall’artista in due decenni di carriera, gigantesco spazio completamente bianco di suggestioni fontaniane, privo d’arredo, in cui lo sfondo si apre scorrendo all’ingresso degli attori, Delbono miscela con sapienza elementi eterogenei: maschere tribali e costumi settecenteschi, il bisbiglio faticato di chi, lucido, sta morendo e il ghigno beffardo d’una parodia fiabesca. Fil rouge, un piccolo libro ritrovato per caso nel corso di un viaggio in Birmania: l’autobiografia dello statunitense Harold Brodkey che, colpito dall’AIDS, narra con lancinante lucidità il proprio viaggio verso la morte.

È il silenzio, irreale e imbarazzante, l’elemento primo della messinscena: colpisce al cuore, sin dal lento affiorare delle luci a dissolvere l’oscurità presaga dello spettacolo. La scena dal candore spettrale è opposto espressivo, cassa di risonanza efficace del titolo: buio e bianco, oscurità e barbaglio, morte che postula la vita e viceversa. Nella magrezza scarnificata della prima presenza umana, in quel corpo macilento e allucinato che reca sul volto una maschera d'Africa, si ha l’epifania inspiegabile, tremenda. Avanti che la voce fuoricampo soffiata e baritona di Delbono pronunci le prime parole sfiancate, si percepisce già che non si tratta di uno spettacolo normale. Non ha senso, e non dovrebbe mai averlo, un teatro che non mini la vita dall’interno, che non si renda necessario, che non si presenti sgombro dalla mortificante necessità borghese dell’intrattenimento. L’estetica è malattia volgare, insulto esiziale d’una società corrotta, malata e irrecuperabile, in cui l’arte consola, solletica, sciacqua, senza mai incidere o rendersi ineluttabile. Il minimo che si dovrebbe chiedere a uno spettacolo è di cambiare la vita, modificare chi vi partecipa, attore o spettatore che sia. Di questo assunto artaudiano Delbono è ben consapevole, e il coraggio tragico di questa messinscena dolente e lucida ne è la dimostrazione compiuta. "Milioni di persone muoiono per rendervi liberi e felici… Isolati nei vostri appartamenti con l’aria condizionata voi siete liberi e felici", recita la voce amplificata. Non c’è scampo, né salvezza. Anche se vorremmo chiosare l'affermazione delboniana, avanzando l'ipotesi che la presunta libera felicità cui si allude è, in realtà, rassegnata prigione, gabbia disarmante d'un uomo anch'esso carcerato, tanto più quanto non riesce a rendersene conto.

In una sequenza di quadri sciolti dall’impaccio narrativo, ma ben legati dal disegno unitario, l’artista coniuga il tuffo mortale di Brodkey con frammenti di Emily Dickinson, l’onnipresente Artaud e Pierpaolo Pasolini. Vortice tormentato d’atmosfere che alternano spasmo, sofferenza, a momenti grotteschi, quasi comici, in una polifonia cui si sposa magnificamente la multiforme versatilità del bianco. Dai languidi toni quasi avana al pallore livido, dal raggelante candore letale alla lucentezza che ferisce gli occhi: la scena e le luci (quest'ultime di Robert John Resteghini) sono attori aggiunti, delirio solo in apparenza monocromatico, complici primi d’una compagnia variegata e improbabile (tredici interpreti, con l’inseparabile partner scenico di Delbono, l’argentino Pepe Robledo), tra cui, senza scandalo alcuno, si contano un down, un poliomielitico, un barbone e un sordomuto.

Al silenzio succedono voci e musiche, frutto di selezione eclettica e puntuale, da Joan Baez a un emule di Sinatra, da potenti citazioni almodovàriane alla voce nature dello stesso Delbono. L’atmosfera è densa, soffocante, forse memore del viaggio africano del Céline al termine della notte o del Marlowe di Conrad: si respira malattia e morte, nell’eroica concezione che questa è inevitabile opposto della vita, suo termine e complemento finale. Si vive per la morte, senza mai poterne obliterare, lucidamente, il pensiero. Herr Heidegger ed Emil Cioran occhieggiano dalla dimensione allucinata di Delbono, il quale ha pure l’occasione di ricucire un legame antico con il proprio variegato percorso poetico: seminudo, l’attore danza dimentico, con movenze buffe e bellissime, sequenza che rivela la collaborazione (fine anni Ottanta) con la coreografa Pina Bausch. La pancia tonda è ferale, ipnotica, i passi cadenzano un movimento inspiegabile e urgente, sul quale s’innesta l’ingresso dell’intera compagnia, ora di nero vestita, a ricevere i copiosi e meritatissimi applausi d’un pubblico attonito ed entusiasta. Il bello colpisce, dilania, ferisce, senza bisogno della rassicurante illusione d’aver compreso: sentire basta e avanza.

Si replica sino a domenica (feriali 21.00, festivo 16.00).
Informazioni:tel. 05746084, fax 0574608524, mail info@metastasio.it

Teatro Metastasio di Prato
Questo buio feroce
Ideazione e regia Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti e Pepe Robledo
Scene: Claude Santerre
Direttore Tecnico: Sergio Taddei
Luci: Robert John Resteghini
Produzione: Teatro di Roma, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Thèatre du Rond Point Paris,Thèatre de la Place Liege, Festival delle Colline Torinesi , TNT Thèatre National de Toulose Midi-Pyrénées, Maison de la Culture d' Amiens, Le Merlan Scene National de Marseille, Le Fanal Scène National de Saint Nazaire

venerdì 15 febbraio 2008

L’Eden giocoso di Lucia Poli

(da loschermo.it)
FIRENZE - Al Teatro di Rifredi Lucia Poli è la smagliante protagonista in Il diario di Eva, delizioso pastiche all’insegna dell’umorismo filosofico tra scienza e religione. Angelo Savelli firma questo viaggio paradossale che lega con divertita eleganza le teorie di Charles Darwin e la satira di Mark Twain, in un dibattito tra evoluzionisti e creazionisti tuttora (incredibilmente) in corso

In tempo d’oscurantismi prossimi venturi, in cui tutto si confonde senza requie, in cui chi si dichiara per la vita appoggia guerre e movimenti basati sull’eterna svalutazione della donna, è rinfrancante trovarsi a teatro e ammirare la sorridente lucidità di Lucia Poli in un gustoso pout pourri di matrice filosofica. Il diario di Eva è gioco scenico costruito principalmente sulla direttrice Charles Darwin Mark Twain: da un lato, il biologo inglese a fronteggiare i gretti oppositori della teoria evoluzionistica, dall’altro l’autore di Tom Sawyer che nel 1906 dà alle stampe un piccolo capolavoro di biblica comicità, giacché, nell’infuriare della polemica tuttora inesaurita contro la scienza, s’immagina un ipotetico diario intimo vergato dalla "prima donna" della storia.

In una bucolica scenografia naïf, dominata dal verde di un giardino all’inglese e dal chiarore del cielo, Lucia Poli compare prima nei panni di Emma Darwin: il marito è attaccato da prelati e bigotti che vedono nella sua teoria un pericolosissimo attacco alle certezze della religione. Da un lato stretta nella fedeltà coniugale, dall’altro perplessa di fronte a idee che non comprende del tutto, la donna dà vita a divertenti faccia a faccia, prima con un pastore anglicano, cui ribatte punto per punto le incongruenze di certe superstizioni, poi direttamente col burbero consorte, interpretato da Stefano Gragnani. Fiero avversario d’ogni creduloneria, questi si lancia in un monologo sulla violenza insita nella Natura, contestando il cliché che la vorrebbe quale "pacifica madre": il brano è carico di suggestioni, ben oltre la cinica dimensione scientifica, sfiora corde leopardiane prossime, pur prive dei tratti inebriati, a quel Marquis De Sade ispiratore segreto del Romanticismo quando scrive: "Natura matrigna, più ti si odia più ti si vorrebbe imitare".

Emma propone provocatoriamente d’erigere un monumento a Eva, fiduciosa com’è che, grazie alle teorie evoluzionistiche, ben presto si perderà la memoria della protagonista biblica. Questo lo stratagemma narrativo che, cambio a vista di scenografia con tanto di melo campeggiante in mezzo del palco, muta il british garden in giocoso e fanciullesco Eden: Lucia Poli, di rosa vestita, s’aggira quale novella creatura tratta dalla costola adamitica, alla scoperta del mondo. Inutile dire che la penna di Twain s’intinge volentieri in ogni paradosso possibile, immaginando un’Eva assai più sveglia e intraprendente del pigro e indolente Adamo (l’atletico Simone Faucci) che, peraltro, avrebbe fatto a meno di tale invadente compagnia. Ospite obbligato anche il linguacciuto Satana in verde di Gragnani, architetto principale della disobbedienza della prima coppia umana.

Per l’ottima Lucia, sempre puntuale, voce splendida, padronanza assoluta della scena, nei movimenti talvolta grotteschi e nel giocar di fioretto dialettico quale Emma Darwin, si tratta dell’ennesima incursione nell’adorato pelago della letteratura anglosassone, attrazione costante di tutta una carriera (ricordiamo Dorothy Parker, Karen Blixen, Patricia Highsmith, Oscar Wilde, ma la lista potrebbe essere ben più nutrita).

Lo spettacolo si snoda sull’onda di un misurato humour, con rapide impennate di trascinante comicità: si gioca sulle assurdità, mettendo alla berlina la credulità, l’incongruenza d’ogni mito religioso. Non distanti da certe incursioni bibliche (quanto erano belli i pezzi d’un Benigni ormai rimpianto…), riletture evangeliche (si pensi a Covatta), da sempre alimento primario della comicità occidentale. Si ride di testa, si pensa, senza la stringente banalizzazione dell’attualità, benché sia impossibile non pensare, di fronte alle puntute osservazioni di Twain, a quanto le cose siano ben poco cambiate e come, in termini di ipocrisia e superstizione, l’uomo sia forse sempre uguale a sé stesso. Manca forse un "morso", un sentimento del contrario, che spesso Lucia, in special modo nelle collaborazioni con Chiti, riesce a infliggere. L’allestimento risulta lieve, a voler proprio trovare un difetto, ma ci si alza dalla poltrona sollevati: in fondo, nella metastasi sociale e culturale che ammorba l’Italia, qualcuno riesce a non farci sentire del tutto soli.
Si replica sino a domenica 17 febbraio (ore 21.00 feriali, 16.30 festivi).

Visto il 14 febbraio 2008, a Firenze, Teatro di Rifredi

Spettacolo
Il Diario di Eva o come Darwin ci cacciò dall'Eden
testo e regia Angelo Savelli
liberamente ispirato agli scritti di Mark Twain e Charles Darwin
con Lucia Poli, Stefano Gragnani, Simone Faucci
musiche: Jean Pierre Neelscene
costumi: Mirco Rocchiluci e Alfredo Piras
assistente alla regia: Giacomo Giuntini
produzione: Pupi e Fresedde - Teatro di Rifredi

foto di Alessandro Botticelli, courtesy Pupi e Fresedde - Teatro di Rifredi

mercoledì 13 febbraio 2008

L’ossessivo ‘Compleanno’ di Pinter

(da loschermo.it)
ROSIGNANO SOLVAY (LI) – Visto al Teatro Solvay di Rosignano, nella bella stagione invernale organizzata da Armunia Teatro, Fausto Paravidino, in veste di attore e regista, si confronta con Il Compleanno, uno dei testi più celebri di Harold Pinter, suo autore guida e punto di riferimento. Atmosfere tese, situazioni misteriose e personaggi opachi per una storia ossessiva, absurdista e kafkiana

È una violenza sottile a permeare Il compleanno, seconda pièce di Harold Pinter, stroncata al debutto (1957) per poi divenire uno dei suoi testi campione. Paravidino, attore, autore, regista in teatro e cinema, esponente d’una nuova drammaturgia europea (testi tradotti e rappresentati in oltre quindici lingue), cui per amicizia e stima risparmiamo l’epiteto di giovane, si confronta di nuovo con il Nobel inglese, sua guida, ispirazione e "refurtiva" in dichiarati (e leciti) ladrocini artistici.

Un terribile interno piccoloborghese marrone pastello, tre porte e finestra a filtrare luci e rumori esterni: vi si svolge o, meglio, s'avvolge la storia di Stanley (Giuseppe Battiston), pianista fallito dal passato ignoto, ospite d’una misera pensione. Esigui riferimenti reali (nomi anglofoni, canzonetta anni Novanta alla radio), è la stanza a farsi gabbia cristallizzata di presenze in perenne conflitto: la svaporata Meg (Ariella Reggio), dedita al marito Petey (Beppe Chierici) e all’ospite, unico avventore dell’ostello. La colazione iniziale, rito quotidiano, ben offre il destro ai dialoghi pinteriani, un ciarlar che, fatuo in apparenza, cela tensioni, contraddizioni, crisi indicibili. Personaggi opachi, mai limpidi, innescano comunicazioni frante e ossessive. Turbano il precario equilibrio quasi familiare due inattesi clienti: il guappo e scafato Goldberg (Fausto Paravidino) e McCann (Paolo Zuccari), enigmatico irlandese al suo servizio. L’arrivo non è casuale, legato a Stan, che cerca d’eludere la coppia, senza rendere palesi i motivi della propria reazione. Lo spettatore, tipico in Pinter, è inferiore ai personaggi, non ne carpisce le motivazioni reali e osserva inerme i viscosi effetti delle situazioni. Conseguenti i dialoghi sospesi, col Teatro dell’Assurdo quale primario nutrimento, coagulato in dimensioni forse meno metafisiche rispetto alle declinazioni originarie.

La festa di compleanno allestita da Meg per Stan è al vertice della spirale d’informazioni mancanti: l’uomo vuole evitarla, salvarsi, non si capisce da cosa, ma s’intuisce da chi. Il party inizia. Petey assente, Meg sfiorita belle of the ball, umoristica in senso pirandelliano, Stan paralizzato al centro. Segue inerme il raddoppio di azioni sceniche: l’infida seduzione della giovane Lulu (Valentina Cenni) da parte di Goldberg, la miserabile ubriachezza di Meg in compagnia d’un garrulo McCann. Buio: Stan tenta di strangolare Meg, poi di violentare Lulu, rasoiata a lacerare l’intero spettacolo.

Si riprende con una mesta parodia dell’inizio. Alla logora serenità dell’incipit succede un senso di gramo abbandono. Del party sono evidenti i resti oggettuali, quelli psicologici sembrano rimossi: Meg non ricorda l’aggressione, Lulu rinfaccia a Goldberg l’adescamento, ma non sembra rammentare lo stupro tentato. I due sgherri trascinano un muto e immoto Stan, ripulito e pronto per la partenza. Il protagonista viene condotto via, ignote le reali motivazioni. Di certo egli sembra lobotomizzato, incapace di intendere la raccomandazione di Petey, chiave sia dello spettacolo sia di gran parte dell’opera di Pinter: "non farti mai dire ciò che devi fare".
Lo scacco, esistenziale, politico, emotivo è assoluto, desolato, di suggestione kafkiana.

Un testo difficile: ogni dialogo è un rovesciamento di forze tra personaggi, ogni parola, apparentemente vacua, si rivela pesante, viscosa. La violenza è implicita d’ogni rapporto. Paravidino regista lascia campo agli attori, abili nel districarsi dalle insidie di una partitura tesa, fitta di tranelli e difficoltà, ma ricca di stimoli interpretativi. Spettacolo non banale, di cui s’apprezza il coraggio e la pulizia nelle scelte d'allestimento. Non si capisce, ma questa è tendenza generale, perché s’imponga una bipartizione di tempi rispetto a testi suddivisi in tre parti, minando un ritmo naturale e implicito nella scrittura. Al di là di ciò, Il compleanno è ancora destinato a crescere, nell'intensa interpretazione del corpulento Battiston, nella recitazione scientemente sopra le righe di Paravidino, nei tempi puntuali dell’ottima Reggio. Da vedere e giudicare con calma, riflettendo il giorno seguente. Il che, sia chiaro, è solo un gran bene.

Visto a Rosignano Solvay, Teatro E. Solvay, il 12 febbraio 2008.

Spettacolo
Il Compleanno
di Harold Pinter
traduzione di Fausto Paravidino e Alessandra Serra
regia: Fausto Paravidino
con Beppe Chierici (Petey), Ariella Reggio (Meg), Giuseppe Battiston (Stanley), Valentina Cenni (Lulu), Fausto Paravidino (Goldberg), Paolo Zuccari (McCann)
scene e disegno luci: Laura Benzi
costumi: Sandra Cardini
aiuto regista: Flaminia Caroli
assistente alla regia: Daniele Muratore
assistente ai costumi: Francesca Di Giuliano
direttore di scena - capo macchinista: Giovanni Coppola
capo elettricista: Michele Forni - Erika Cicali
sarta: Sara Costarelli
produzione: Teatro Stabile di Firenze con Roberto Toni
foto di scena: Mario D’Angelo
si ringraziano per la collaborazione il Teatro Guglielmi di Massa e la Fondazione Toscana Spettacolo

Foto di Mario D'Angelo, courtesy Teatro Stabile di Firenze

lunedì 4 febbraio 2008

Anatomia della solitudine per un insolito Fassbinder teatrale

(da loschermo.it)
SCANDICCI (Firenze) - La versione scenica del film di Fassbinder Un anno con 13 lune, allestita da Egumteatro e presentata al Teatro Studio in questi giorni, rappresenta una fedele trasposizione (per quanto la differenza dei mezzi lo possa consentire) dell’opera originale, nel tentativo di esprimere la dimensione di totale abbandono che va ben al di là della condizione liminare di un protagonista dalla sessualità indefinita

Si presta a possibili fraintendimenti il film che Reiner Werner Fassbinder volle dedicare, girandolo in poco più di tre settimane e curandone la fotografia, agli ultimi cinque giorni dell’amico e amante Armin Meyer. Questi era morto suicida nella solitudine d’un abbandono a seguito di una complicata vicenda sentimentale e sessuale. La trasposizione scenica della pellicole curata da Virginio Liberti e Annalisa Bianco rispetta la scansione originale, ponendosi quasi nella condizione di versione in senso etimologico. Pure da sottolineare è come gli allestitori abbiano scelto non un testo drammaturgico, tra i tanti prodotti dall’artista teutonico, ma di dedicarsi al rifacimento di un'opera cinematografica senza corrispettivi teatrali nel percorso fassbinderiano. Certo che tra due forme espressive tanto apparentemente simili quanto, nella realtà, antipodiche quali teatro e cinema, le differenze si fanno sentire eccome, il che, di per sé, non è né male né bene, ma un dato di fatto.

Il cinema è un medium e il teatro no: lo schermo si pone come termine medio tra la realtà selezionata dalla cinepresa (ergo dal regista) e quella dello spettatore, là dove il teatro è la realtà oggettuale dell’opera d’arte scenica. Inoltre, la prospettiva visiva del cinema è legata necessariamente alla macchina da presa (il punto di vista coincide con essa, al di là della posizione in sala dello spettatore), mentre in teatro a ogni spettatore corrisponde un differente punto di vista fisico (è ovvio, infatti, che dal punto di vista della soggettività psicologica del fruitore le situazioni sono, invece, simili). Infine, la dimensione del film è quella del racconto, della narrazione, tant’è che in termini critico-analitici la settima arte è spesso legata al concetto di romanzo, mentre il teatro, in quanto forma che comprende più codici (visivo, sonoro, gestuale, verbale, in ciò simile al cinema) in presenza di più punti di vista (ogni spettatore è una "macchina da presa" a sé stante), rappresenta una disciplina legata all’effimero dello spettacolo che si disfa nel momento stesso in cui ha luogo. Una trasposizione scenica di una pellicola rappresenta sempre, di conseguenza, un’ottima occasione per riflettere sugli aspetti espressivi e gli scarti tra forme artistiche differenti e solo in apparenza similari.

Un anno con 13 lune è uno spettacolo contraddittorio: a fronte di un’ottima prova d’attore da parte di Michele Di Mauro, l’allestimento è invece un continuo chiaroscuro che alterna momenti interessanti ad altri di palpabile debolezza. Passino l’alternanza di tragico e comico, la dimensione melodrammatica perennemente in bilico grottesco che è cifra esemplare della poetica fassbinderiana: niente è definito, non solo sessualmente, ma moralmente, umanamente. A partire da Elvira/Erwin, protagonista evirato divenuto donna per amore dopo aver lasciato, pur consensualmente e senza strappi apparenti, moglie, figlia e precedente impiego da macellaio, lo spettacolo verte sul tema dell’indefinizione, sessuale in primis, ma soprattutto morale, esistenziale. Non è un caso che la città d'ambientazione del dramma, che nella versione scenica si svolge in un ampio e sciatto interno attorniato da appendiabiti, abitato da sedie vuote, armadietti rugginosi, suppellettili malandate e irregolare pavimentazione di pacchiani tappeti da due soldi, sia Francoforte, patria di Arthur Schopenhauer, autore feticcio e ispiratore neppure troppo nascosto della pellicola di Fassbinder.

Nella sequenze che porteranno al suicidio Elvira/Erwin, i personaggi si alternano come in un teatrino grottesco di apparenze ora tiranniche ora desolanti in cui si ripercorre la vicenda dell’ambigua protagonista: prima macellaio, in adorazione della morte e del sangue nell’atto sovrano della mattanza bovina (di cui sono proiettate immagini iperrealistiche nella parte alta della scenografia), poi innamorato pazzo di un corrotto arrampicatore sociale, infine puttana per amore dell’amante attore fallito e che trova nell’amicizia di una sgualdrina una mimina consolazione.
"Il mondo coincide col soggetto" è il refrain implicito che s’impone alla stregua di vettore filosofico dello spettacolo: la rappresentazione come frutto della volontà, l’annullamento come trionfo di quest’ultima e non sua apparente negazione. In tutto ciò, assoli attorici, balletti improbabili (d’effetto quello compiuto con maschere espressioniste calate sui volti degli interpreti), dialoghi che rimarcano la violenza implicita e scarnificante di qualsiasi rapporto umano. Elvira è abbandonata, si sente tale: pur sciorinando un’apparente ragionevolezza, circostanziata nel fronteggiare i rifiuti degli altri, si vota allo scacco estremo, all’annullamento completo, la morte.

È un peccato che a Michele Di Mauro, notevole nella recitazione polifonica che alterna malizia, debolezza, stupidità e complessità psicologica non prive d'inserzioni grottesche, non corrisponda una compagnia in grado di reggere il confronto con una tale interpretazione e di sostenere compiutamente uno spettacolo ad alto coefficiente di difficoltà come la versione di un film peraltro riuscito. A poco valgono le scelte delle videoproiezioni, così come alcune opzioni musicali che, di fatto, risultano neutre rispetto alla riuscita dell’operazione e che ricalcano spesso la pellicola originaria.

L’equivoco potenziale di cui si è detto all'inizio: la triste storia di Elvira non è tale per la condizione di rifiuto, umano o antropologico, rappresentato da un transessuale, bensì la carta di tornasole di ogni rapporto che un uomo, il soggetto, intesse con il mondo, nell’endemica incapacità di frattura della separazione o di possibilità comunicativa. In questo senso, Fassbinder sfrutta un caso estremo, chiamando in causa anche Kafka, per illustrare una dinamica tutt’altro che "estrema", ma, anzi, ordinaria, comune e proprio per questo ancora più terribile e sconsolante.

Visto a Scandicci, Teatro Studio, il 3 febbraio 2008.

Spettacolo
Un anno con 13 lune
di Rainer Werner Fassbinder
un progetto di Michele Di Mauro e Egumteatro
con Michele Di Mauro, Gisella Bein, Tatiana Lepore, Simona Nasi, Pasquale Buonarota, Massimo Giovara, Riccardo Lombardo
regia: Annalisa Bianco e Virginio Liberti
produzione: Fondazione Teatro Piemonte Europa/Egumteatro in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi con il contributo della Regione Toscana - Settore Spettacolo

venerdì 1 febbraio 2008

L'ultima teppista

(da Giudizio Universale, n. 20, febbraio 2007, pubblicata anche online)
Mette in scena i pezzi di sei giornaliste e canta canzonette finto-ingenue. Paolo Poli ha la naturale eleganza e l'aguzza perfidia di sempre. E alla fine anche i papi ballano

Titolo enigmatico: i Sei brillanti cui allude il più grande brillante italiano possono afferire sia al ruolo del teatro boulevardier francese sia ai sei numeri che l'eterno enfant terrible propone in questa sua ennesima tournée. Sospeso tra malizia ed eleganza naturali ecco Paolo Poli, classe 1929 e un patto col diavolo per salute e bellezza, prendere per mano il pubblico in un allestimento che, come d'usanza, ha la struttura del cabaret d'antan: canzoni, scene a quadri, dialoghetti (im)morali con sferzata finale, malefici salassi all'indirizzo del comun sentire. E non si tratta di cose risentite, benché Poli le ripeta da una vita: ai tempi dello "scandaloso" Rita da Cascia, accusato di blasfemia nel '68, assolto e riproposto trionfalmente nel '76, l'attore di Rifredi era già avanti rispetto al nostro bigio contesto odierno.

Bizzarro che nell'Italia delle querelle sui Pacs, sui cessi parlamentari, l'Italia dei Busi, delle Platinette e dei Mastelloni che più non bestemmiano ma vanno ai reality, l'unico fiero ed elegante omosessuale tetragono all'offensiva di papi, preti e santi assortiti, sia lui, l'inafferrabile fantasista fiorentino. L'unico che non starnazza per apparir in video e che persevera nel mestieraccio infame del teatro: caleidoscopico, apocrifo, colto e popolare al contempo, miscela sublime di teppismo culturale e piratesco repêchage.

Sei pezzi di giornalismo al femminile, sei diversi decenni, senza l'urgenza dell'attualità. Le donne attraversano un secolo, trasfigurato in canzonette contornate da dialoghi che vedono sempre un prelato al confronto d'una signora. Si va dalla Mura alla Cederna, sino agli anni Ottanta della Belotti, con un'agiata signora agée a rifiutar l'ospizio. Le canzoni sono affreschi d'epoca, da Cocaina, cavallo di battaglia del nostro, sino a Il cobra non è un serpente, Bello e impossibile, inni camp d'odierni gay pride.

La voce di Poli sposa gli arrangiamenti finto-ingenui della fidata Perrotin: il canto quadrato, elegante e ironico cristallizza l' eterogeneo materiale e rende classici anche i brani recenti. Mai smarrita l'aguzza perfidia, attacco e difesa da un mondo in balia della cristiana morale, dei sensi di colpa, della ripulsa per la donna.

Attorno all'istrione una compagnia picciola d'attori, cloni e doppi, a ballare buffe e indovinate coreografie. Camuffati da animali, dame o chierici, cantano, s'atteggiano e partecipano alla mirabolante kermesse. Poli troneggia, in fogge per lo più femminee: con levità d'odalisca indossa gonnelloni a campana e crini dorati, gioia per gli occhi; meraviglie i tailleur a tubino, sfoggi d'una silhouette invidiabile. Quando calza parrucche muliebri, inevitabile non sbalordirsi per la somiglianza con la bellissima e altrettanto brava sorella Lucia.

Non è allestimento organico: il fil rouge c'è, ma non imboccato. La struttura "a numero" rende il paio d'ore scorrevole, senza inciampi, e replica la scansione del vero, originario cabaret francese e mitteleuropeo che mescidava poesia e satira, canzoni e teatro, letteratura e vaudeville. Non certo la versione italica, con allampanati solisti ostaggio del video e delle venti risate al minuto e poi via, parola allo sponsor, unico finanziatore e terminale del gioco. Non è il miglior Poli di sempre, ma gli applausi a scena aperta sono il minimo.

Si conclude con un irresistibile balletto di papi intorno a lui, prete in completo scuro, James Bond ecclesiale, sulle note di Tropicana ye. Se Dio esistesse, non mancherebbe d'umorismo, apprezzerebbe Paolo Poli e avrebbe l'obbligo morale di conservarcelo in eterno.

Visto a Quarrata, Teatro Comunale Nazionale, 9 ottobre 2006.

Spettacolo
Sei brllanti
Giornaliste Novecento
due tempi di Paolo Poli da Mura, Masino, Brin, Cederna, Aspesi, Belotti
di e con Paolo Poli
e con Luca Altavilla, Alfonso De Filippis, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco
regia: Paolo Poli
scene: Emanuele Luzzati - scenografia: L'Atelier
costumi: Santuzza Calì - sartoria Farani
parrucche: Mario Audello
arrangiamenti musicali: Jacqueline Perrotin - registrazioni: Studio Barzan
luci: Francesco Barbagli - consulenza disegno luci Alessandro D'Antonio
aiuto regia e coreografia: Alfonso De Filippis
collaborazione tecnica: Francesco Barbagli, Fabio Flora, Davide Gabbani, Valentina Mura, Andrea Pusante produzione: Essevuteattro new s.r.l.

Giudizio: 3 soli
Scheda
> Paolo Poli: dagli anni Sessanta propone spettacoli unici e originali, sospesi tra classicità e trovarobato d'avanguardia; è un peccato che l'attività teatrale sia ostacolo alla visibilità di un artista tanto grande, conosciuto o da chi va a teatro o da chi, meno giovane, se lo ricorda in tv (con la Mondaini e con Carosello)
> Epigoni: essendo un caso unico, nessuno; ma come non rivederlo nella sorella Lucia, in certe cose di Marco Messeri e, soprattutto, nel trasformista Arturo Brachetti?
> Brillante: ruolo del teatro francese d'Ottocento; per Poli "quello che entrava al secondo atto a portare le amenità, per tirare in lungo e arrivare di nuovo alla crisi del terzo atto"