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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

giovedì 20 dicembre 2007

Il burattino prigioniero del teatro

(da loschermo.it)
LUCCA - Dopo l’anteprima della scorsa stagione, il
Teatro del Carretto torna al Giglio con Pinocchio, avvincente riflessione sul teatro e sul senso della fiaba italiana più celebre al mondo. Lo spettacolo affronterà un’imminente tournée che porterà la compagnia a esibirsi, nel gennaio venturo, sulle tavole del prestigioso La Mama’s Theatre di New York

Una gradita sorpresa il Pinocchio firmato da Maria Grazia Cipriani: l'anteprima del dicembre 2006 ci aveva lasciata qualche perplessità, sfocata e resa vaga nella memoria dal passare del tempo. Lo spettacolo visto ieri sera sembra invece assai cresciuto, in energia, scorrevolezza e potenza evocatrice, segno che i mesi di prova sono stati proficui dato che, confermano gli stessi attori, nessuna modifica strutturale è stata apportata al lavoro. Si è del tutto persa una certa sensazione di lentezza, quasi d'inerzia, sostituita in modo felice da un ritmo scenico efficace, e nelle sequenze della storia e nei meccanismi degli affiatati interpreti.

Le avventure di questo Pinocchio si dipanano in un unico ambiente, lugubre e polifunzionale, un'arena inferica, subito dominata dalle sonore scudisciate d'un tirannico domatore alle prese con un corpo sottomesso, umiliato. Quest'ultima presenza assume presto le parole collodiane attribuite a Geppetto per poi convertirsi nel protagonista, Pinocchio. La storia non si scrive, non si recita, non s'inscena: essa ci scrive, ci recita, ci mette in scena, attraversandoci, così come accadde più d'un secolo fa a un medio scrittore toscano che, senza quel burattino manifestatosi attraverso la sua penna, sarebbe di certo ignoto ai più.

La struttura scenica, di pareti scure a racchiudere il palco, s'anima partecipe del gioco teatrale, fornendo entrate, uscite, finestre e feritoie da cui spuntano indifferentemente oggetti e attori con sembianze ora d'animale ora di maschera. Lo spazio è prigione, arena, ring, cui i cambi di luce, dai toni lunari del Campo dei Miracoli alle cromature più intense e circensi nel Paese dei Balocchi, conferiscono continui slittamenti semantici.

Il tutto è dominato da Giandomenico Cupaiolo, sorprendente per atletismo attorico: il suo Pinocchio è un ciarliero moto perpetuo, le cui reiterate cantilene acute rappresentano una chiave musicale interna al personaggio. La guittezza fisica s'accompagna a scarti continui nell'uso della voce, che va dal patetico-parodistico (quando intona Ridi pagliaccio...) al buffonesco circense: maschera fuggevole, di retrogusto amaro, che non si sottrae all'ambiguità d'un accennato amplesso con la Fata-Bambina, memore, in certe modulazioni, della lezione di Carmelo Bene, patrimonio ormai acquisito in fatto di messinscene collodiane. Da applausi i perturbanti duetti con Elsa Bossi, fata Turchina, infanta, donna, madre e marionetta, i cui cambi di voce e movenza al mutar di personaggio (pensiamo alla scena in cui il burattino malato viene visitato dai tre dottori) sono prove di maestria interpretativa, distanti da certi manierismi, moneta corrente nella recitazione per lo più psicologica dei nostri teatri.

La storia, si diceva, è rispettata in senso filologico e nella sequenza degli episodi: costanti sono la presenza del protagonista e la scenografia che, ben al di là degli altri bravi attori, rappresenta il reale interlocutore-sparring partner del burattino. I momenti di (apparente) distensione sono franti da violenti cambi di scena, amplificati d'intensità dall'effettistica sonora: le marce di Julius Fucik s'alternano a Puccini e Leoncavallo per annichilirsi e svanire all'irrompere d'un nuovo quadro.

L'evoluzione della vicenda è nota: Collodi condanna la sua migliore creatura a una morte violenta, al macello più feroce, la rinuncia al burattino in favore del bambino, adesione al modello del bravo borghese in cui la scuola è propedeutica del lavoro e della produzione. Non si rese forse conto l'autore del libro italiano più popolare del mondo, Commedia dantesca esclusa, del prodigio che l'ispirazione gli aveva (casualmente?) recato in dote: Pinocchio, benché invenzione tardo ottocentesca, ha la potenza ctonia delle maschere carnevalesche, la loro demonica irriducibilità, quel precipitato di forza che gli Arlecchino e i Pulcinella traggono dal fatto d'esser spiriti inferici stornati al comico dalla cultura popolare. In tal senso, la scena chiave del testo, terribile ed efficace, è la recita alla corte di Mangiafuoco, cortocircuito semantico in cui le maschere riconoscono Pinocchio quale fratello, l'acclamano, mettendolo infine nei guai. È questo sintagma a sancire il legame profondo e irrinunciabile che lega il burattino collodiano al mondo del teatro, al suo rapporto intimo con la morte.

Al termine dell'allestimento, che alterna il grottesco espressionismo plastico di corpi e maschere alle proiezioni oniriche in grado di trasformare di continuo l'angusto spazio scenico, è significativo, quindi, il finale proposto da Maria Grazia Cipriani: in un'atmosfera dimessa, desolata, quella presenza ambigua che fu marionetta impertinente e bugiarda scopre le carni della propria novella figura d'uomo. D'intorno le altre maschere, affrante e atterrite dall'inaccettabile visione. Quel corpo, ormai quotidiano, guadagna mesto, per la prima e unica volta, l'uscita di scena: il teatro, luogo liminare e soglia del mondo ebbro dominato dal dio e dal Gioco, non è spazio che gli uomini possano abitare.
Si replica stasera. Sabato 22 dicembre lo spettacolo sarà al Teatro Niccoli di San Casciano Val di Pesa, a gennaio le repliche al La Mama’s Theatre di New York . In seguito, il 31 gennaio a Grossetto (Teatro degli Industri), dal 6 al 10 febbraio al Metastasio di Prato e il 22 febbraio al Guglielmi di Massa.

Spettacolo
Pinocchio da Carlo Collodi
Adattamento e regia: Maria Grazie Cipriani
Scene e costumi: Graziano Gregori
Suono: Hubert Westkemper
Luci: Angelo Linzalata
con Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Jonathan Bertolai, Carlo Gambaro, Luana Gramegna
Fotografie realizzate da Filippo Brancoli Pantera

lunedì 17 dicembre 2007

"Biondo 901": storia e ossessioni di un uomo ordinario

(da loschermo.it)
LUCCA - Alessandro Bertolucci ha presentato presso il teatro di San Girolamo un monologo noir d’ispirazione fumettistica. Tra fughe e flashback, la confessione intima di un personaggio in bilico tra variabili calcolate e accadimenti imprevedibili.

È con una certa curiosità che abbiamo assistito a Biondo 901, allestimento che Alessandro Bertolucci s’è cucito addosso, da regista e interprete unico, basato sul testo d’ispirazione milleriana di M/Merisi, nome d'arte di Alessandro Zannoni. La curiosità era giustificata sia dal gran parlare circa il "ritorno" a casa dell’attore lucchese sia dalle presentazioni che ne erano conseguite e che hanno contribuito a riempire lo spazio scenico.

Lo spettacolo ha inizio con la voce fuori campo del protagonista, amplificata da un sistema microfonico: le parole, sconnesse, affaticate, frante, narrano di una fuga misteriosa, disperata, cui fanno da supporto una sequenza di diapositive proiettate sullo schermo collocato sul fondo del palscoscenico. Non si sa chi sia a parlare, non si capisce quale sia esattamente la situazione, tutto è avvolto da un alone misterioso, riverberato dalle tonalità chiaroscure della sequenza a cura, come il resto della scenografia, di Beatrice Meoni.

La voce parla in prima persona e, lentamente, affiorano le prime informazioni, distillate in un progressivo svelamento. Il racconto s’interrompe: occorre partire dall’inizio della storia.
Luce. Il flashback. L’attore entra in una scena in cui due sedie da parrucchiere e altri ammennicoli all’uopo suggeriscono l’ambientazione. Giordano, questo il nome del personaggio, parla direttamente al pubblico, celia sui propri inciampi discorsivi, in un rapporto cosciente con quel diaframma superato e insuperabile che è la quarta parete.
Si racconta: uomo ordinario, parrucchiere per signora, single, vita normale cui contribuiscono saltuarie tresche con qualche cliente ben disposta. Sino a che non arriva, nel racconto, lei, la ragazza russa dai capelli Biondo 901 (il nome preciso di una tonalità di colore), misteriosa e affascinante che allaccia col protagonista una storia a metà tra il thriller psicologico moderno e il noir. La situazione, come prevedibile, precipita, riallacciandosi all’inseguimento armato d’inizio spettacolo per poi trovare una conclusione quasi beffarda che, per gli amanti delle trame e delle sorprese, non staremo qui a svelare. Giordano, che dalla vita desume regole ("Primo: non scopare con le clienti"), indicazioni, in una prospettiva scientifica dell’esistenza, viene fregato dal caso, da una delle tante, infinite variabili che, pur avendo considerate, non è possibile scongiurare.

Il lavoro offre però il fianco a numerose osservazioni critiche, a partire da un testo a tratti incoerente, che non mantiene le promesse fumettistiche esplicitate dagli stessi allestitori, restando di molto lontano dalla profondità dark delle storie di Frank Miller. La vicenda di Giordano sembra molto più vicina a certi racconti minimi e minimalisti, senza possedere la stilla perturbante delle short novel di Carver, tanto per intenderci. Il teatro, e l’arte in genere, necessitano di un’urgenza intima, una necessità interna alle opere che, in questo caso, si fatica a trovare nella vicenda di un barbiere viareggino (il problema non riguarda né il barbiere né la sua provenienza…).
Per contro, recitazione e scelte registiche non sembrano risolvere i problemi portati in dote dal testo: Bertolucci pare non aver deciso cosa fare di questo personaggio, sospeso a metà tra un comico accennato e velleità fuori portata. Chiariamo: lo scopo, ci sembra, dovrebbe essere il portare in scena una vicenda veloce e feroce, in linea con certo cinema e certa letteratura contemporanei, sullo stile del Fightclub peraltro citato dallo stesso Giordano. In realtà, il risultato è un altro e, di certo, non quello desiderato, per cui s’assiste a un racconto caratterizzato da tempi talvolta involontariamente cabarettistici che fiaccano non poco la forza intrinseca di un monologo in cui un personaggio si consegna in pasto al pubblico. Inoltre, la tecnologia, lungi dall’essere nemica del teatro, dovrebbe essere però sempre giustificata dalle esigenze della messinscena, appropriata al contesto. Sovrapporre immagini o, peggio, scritte proiettate nel corso del monologo finisce in più d’un caso per essere aggiunta del tutto inutile, sottolineatura che tradisce una certa ingenuità. Se di una soluzione si può far a meno, allora significa che non dev’essere messa in atto.
L’impressione generale risulta sghemba, Biondo 901 sembra uno spettacolo bisognoso d'una profonda riflessione per poter migliorare e crescere, magari aiutato anche da una migliore gestione dell’impianto fonico, giacché la voce amplificata di Bertolucci innescava risonanze indesiderate che compromettevano l’intellegibilità del testo già a metà platea.

Visto a Lucca, teatro San Girolamo, 16 dicembre 2007.

Spettacolo
Biondo 901
dal romanzo omonimo di Alessandro Zannoni
con Alessandro Bertolucci
scene: Beatrice Meoni
luci: Alessandro Bianchi
audio: Stefano Betti
regia: Alessandro Bertolucci
Produzione e organizzazione - Experia associazione culturale

venerdì 14 dicembre 2007

Gomorra: anatomia di uno sfacelo

La stagione teatrale pratese presenta al Fabbricone lo spettacolo tratto dal libro di Roberto Saviano che, nella scorsa stagione, ha fatto luce sulla camorra e i suoi meccanismi. L’allestimento, prodotto dal Teatro Mercadante di Napoli , firmato dal regista Mario Girardi e dallo stesso Saviano, rappresenta il tentativo non banale di mettere in scena un saggio scritto in forma di romanzo

Il teatro è una strana forma d’arte, politica sin nel midollo, giacché riguarda sempre e comunque un insieme di persone che condividono uno spazio e un tempo dati, rivolgendosi sempre a un’idea di comunità. Al contempo, però, anche il teatro, come ogni altra espressione artistica, nutre con il contenuto sociale e politico un rapporto mai scontato: un ideale, per quanto buono e condiviso, non basta a garantire un’opera d’arte e, anzi, se assume le sembianze di un ricatto morale rischia quasi sempre di rovesciare nei fatti le intenzioni più o meno in buonafede del suo autore. Si può dire che i grandi capolavori pongano domande agli spettatori anziché fornire risposte, evitando la presunzione di voler convincere qualcuno appaltandogli un’opinione preconfezionata.

Non è facile immaginare come si possa mettere in scena Gomorra, il libro con cui il trentenne Roberto Saviano ha portato alla luce il fenomeno della camorra contemporanea, vendendo oltre un milione di copie. Non è facile perché già l’opera letteraria ha una strana e avvincente natura: si tratta di un saggio, uno spaccato economico e antropologico dedicato ai meccanismi profondi del fenomeno camorristico, ma nello stesso tempo ha la forza e l’intensità di un racconto intimo, lirico e romanzesco insieme. Per Saviano la camorra è un’ossessione, una malattia: capire i suoi gangli, penetrare nella spaventosa razionalità dei suoi intrecci è una necessità interiore oltre che intellettuale. E così, le pagine del libro assumono toni differenti e contrastanti: trasudano il sangue delle vittime e quello, pulsante e feroce, dell’autore. Gomorra è un corpo a corpo lancinante, di un dolore profondo che riguarda una terra intera, sfasciata dalla mafia e, soprattutto, dalla rassegnazione: per questo ha avuto un incredibile successo. È nella compenetrazione di sofferenza e ragione, di lucida passione per dirla con Pasolini, che il libro rappresenta un piccolo miracolo di letteratura, al di là della lingua talvolta sghemba, sfuggente.

Tradurre in termini teatrali un oggetto simile è un’impresa. Difficilissimo e forse pure rischioso. Non per la ricezione del pubblico, ché certi argomenti possono persino tirare, ma per la grande differenza di modello comunicativo. Un libro come quello di Saviano sarebbe potuto essere pure perfetto per il teatro di narrazione, forma che sulla scena nazionale rappresenta tuttora un filone forte, con fenomeni importanti anche dal punto di vista commerciale.
Girardi e Saviano hanno però preferito l’azione, la drammatizzazione, e di questa scelta bisogna esser loro grati.

S’inizia con una licenza dal libro: la cornice dello spettacolo è costituita da due discorsi di Roberto Saviano, interpretato da Ivan Castiglione. Il primo è quello, ormai famoso, pronunciato nella piazza centrale di Casal di Principe, quello del “Camorristi, non siete uomini!” gridato dallo scrittore proprio nel cuore della potere criminale. Lo spettacolo inizia così, cl’attore di fronte a un microfono: “Si sente?”, chiede, e il pubblico in sala solo dopo qualche secondo percepisce che la domanda era rivolta alla piazza e non alla platea. Di seguito, però, sono scene drammatizzate, teatro vero che traduce il racconto del libro.

I personaggi animano una scenografia che rappresenta un cantiere edilizio, in cui le impalcature di tubi Innocenti hanno funzione di praticabili. Il cemento è il sangue vivo del potere camorristico: i manovali casertani hanno costruito l’Italia e i loro capi hanno presto capito come si vincono gli appalti, come si muovono i soldi nel nostro paese. In questa scena, i personaggi sono terribili e buffi al tempo stesso: strappano risate con il loro napoletano stretto, la guittezza dei movimenti ora scimmieschi ora da furbi pronti a menar mani e puntar pistole. Il violento e spavaldo Pikachu (il bravissimo Francesco Di Leva), il guappo Kit Kat (Adriano Pantaleo) e il rampante laureato Mariano (Antonio Ianniello) rappresentano tre diversi tipi umani di reclutamento nella macchina del clan: tutti, però, aderiscono alla camorra per mancanza di alternative o, meglio, perché non hanno il coraggio di volersi opporre.

Roberto, l’intellettuale, ‘o scrittore, è infatti un interlocutore strano per questi: non è dei loro, anzi, si oppone, li critica, li ascolta e scrive sui giornali ciò che gli confidano. Perché, nonostante tutto, riesce a parlare la loro lingua, ad ascoltarli, guadagnandosene la fiducia. È però Pasquale, lo smagliante Ernesto Mahieux (noto al grande pubblico per il successo cinematografico ne L'imbalsamotore di Matteo Garrone), a rappresentare il caso forse più eclatante: l'anziano e bonario sarto viene sfruttato dai clan sia come mano d’opera sia come istruttore di manovalanza tessile cinese. Quando vede Angelina Jolie indossare un proprio vestito in occasione degli Oscar, lo sconforto di vedere il proprio lavoro non riconosciuto, il dolore di non poter raccontare neppure alla moglie di essere realmente uno dei più grandi sarti al mondo sono talmente grandi da indurlo a cambiare vita, liberarsi dalla camorra e mettersi a fare il camionista. Perché non c’è speranza. Se si nasce in certi luoghi, anche raggiungendo i livelli mondiale in un mestiere, le possibilità di farcela sono meno di zero.A visionare, controllare l’operato di questi disgraziati, il distinto, azzimato Stakeholder (Giuseppe Miale di Mauro), colui che salda la delinquenza con l’alta finanza, i vasci con la Bocconi.
È questo il personaggio chiave per il discorso sociopolitico di Saviano: la camorra vince perché interpreta meglio di chiunque altro il liberismo selvaggio, il capitalismo contemporaneo, il bisogno endemico che il mercato ha di deregulation completa. Ciò che non possono fare i governi, le leggi e le riforme del lavoro, lo fa la camorra, senza neppure incontrare opposizione sociale. Lavoro a cottimo, paghe da fame, sfruttamento deregolamentato: panacea per chi lucra, grandi marche comprese, grandi industrie comprese. Questo Saviano mette in luce con piglio anatomico: la cancrena fatale di un sistema in cui non c'è differenza tra produzione legale e illegale, in cui le grandi aziende appaltano il lavoro sporco alla delinquenza organizzata.Per combattere la camorra è necessario dunque capirla, studiarne i meccanismi, interpretarne gli snodi: si deve seguire il cemento, la droga, le armi, i vestiti e, ovviamente, il sangue.

Lo spettacolo scorre, gli attori sono affiatati, la scenografia suggestiva, alcuni effetti di luci paiono efficaci e lo stesso si può dire per le immagini proiettate su un telo che, all'occorrenza, i riflettori rendono invisibile. Non si può dire che la Gomorra teatrale sia un esperimento fallito. Rispetto al libro, manca di un quid, quel senso d'urgenza, d'ossessione, d'attrazione morbosa per il fenomeno delinquenziale che Saviano riesce a infondere al racconto e che costituisce la cifra più forte dell’opera letteraria. Sul palco questo aspetto passa forse in secondo piano, ed è un peccato perché lo spettacolo potrebbe e può ancora crescere: non ci si pente, però, d’averlo visto, e non è poco.

Si replica al Fabbricone sino a domenica, poi il 17 gennaio lo spettacolo sarà nuovamente nelle vicinanze, al Francesco di Bartolo di Buti .
(da www.loschermo.it)

Spettacolo
Gomorra
di Roberto Saviano e Mario Gelardi
regia Mario Gelardi
scene Roberto Crea
costumi Roberta Nicodemo
musiche Francesco Forni
video Ciro Pellegrino
con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Antonio Ianniello,Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleoe e la partecipazione straordinaria di Ernesto Mahieux
Tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano (Arnoldo Mondadori Editore) e da un’idea di Ivan Castiglione e Mario Gelardi
Produzione: Mercadante Teatro Stabile di Napoli

lunedì 10 dicembre 2007

Marcorè o Gaber: a chi gli applausi?

(da loschermo.it)
LUCCA - Neri Marcorè ha presentato in questi giorni (martedì 4 al Politeama di Viareggio, sabato 8 e domenica 9 al Puccini di Firenze) Un certo Signor G , tratto dalle opere di Giorgo Gaber e Sandro Luporini. Lo spettacolo, diretto da Giorgio Gallione, rappresenta una carrellata quasi antologica di monologhi e canzoni, sondandone la resistente attualità, tra memoria del passato e sguardo sul futuro. Un esperimento, però, riuscito solo in parte

Compiere un tributo, a teatro ancor più che nella musica leggera, significa elevare l'oggetto rappresentato a un rango "universale": Shakespeare viene giustamente messo in scena benché il Bardo sia trapassato da quasi quattro secoli e lo stesso accade con Molière, Pirandello, Ibsen e Sofocle, tanto per pescare qua e là nella nostra storia scenica. La natura stessa del teatro, che non è un medium come cinema e televisione bensì un "oggetto" in sé, rende lo spettacolo, ossia l'opera d'arte vera e propria di questa disciplina, come qualcosa di caduco, fittizio, che s'esaurisce nell'attimo stesso del farsi. Un quadro è un'opera a suo modo "eterna" (fatta salva la manutenzione di tele e tinte), una scultura idem, così gli edifici architettonici (terremoti a parte) e anche i libri: uno spettacolo teatrale, invece, svanisce all'apparire, lasciando solo tracce altre da sé. Foto, testi, commenti, recensioni sono soltanto documenti che mai coincidono con lo spettacolo, ricostruibile soltanto con un procedimento "archeologico", sommando testimonianze e usando l'immaginazione.

Riprendere il repertorio di Giorgio Gaber, dunque, da un lato significa riconoscere in esso una forte natura teatrale, in grado di reggere al tempo e, soprattutto, al cambio d'interprete. Essendo Gaber un attautore, oltre che cantante, cantautore e quant'altro, il dilemma sulla sua opera è sempre stato se essa non fosse strettamente e indissolubilmente legata al suo interprete, al suo volto indimenticabile, ai suoi tempi comici acuti e densi di senso. D'altro canto viviamo un'epoca dalla vocazione industriale e commerciale, e sarebbe da ingenui negare che certi nomi defunti, su tutti proprio Gaber e De André, siano particolarmente appetibili dal mercato, pronto ad accoglierne dischi più o meno inediti e tributi d'ogni sorta a scadenze pressoché fisse.

L'operazione svolta da Neri Marcorè sotto la regia di Gallione, quindi, dev'essere analizzata sotto un duplice profilo: come spettacolo in sé, ossia come allestimento dal titolo Un certo Signor G e al contempo come performance che intesse con il non dimenticato originale tutta una serie di rimandi e inevitabili confronti. Gaber ha lasciato numerosi dischi, svariati filmati, e quindi il minimo che gli stessi Marcorè e Gallione possano aspettarsi è un confronto con il modello principale.

Lo spettacolo, dunque: non è una ripresa testuale d'un particolare allestimento gaberiano, quanto, piuttosto, una sorta d'antologia dell'artista. Se l'incipit coincide con il brano Il Signor G nasce (1970), i pezzi successivi sono tratti liberamente da tutta la produzione Gaber-Luporini. E questa è una prima grande differenza rispetto al modello: con l'eccezione di qualche best of come Il teatro-canzone (a Lucca nel 1992), Gaber e Luporini allestivano spettacoli originali, con strutture "forti", con un inizio e una fine. Polli d'allevamento (1978) era una messa in scena in tutto differente dal precedente Libertà obbligatoria (1976) o da Far finta di essere sani (1973): poteva accadere che qualche brano fosse ripreso, ma il senso era mettere in scena un'opera che potesse reggersi sulle proprie gambe. Spesso gli snodi scenici erano per niene scontati, talvolta controversi, non d'immediata leggibilità: pensiamo, per esempio, a certi passaggi di Anni affollati (1981), ma anche ad alcuni momenti degli spettacoli citati poco sopra.

Un certo signor G sembra invece voler rappresentare una specie di bonaria crestomazia del teatro-canzone: c'è, a cercarla, la storia di quest'uomo, spaesato, dubbioso, cattivo e contraddittorio che rappresenta(va) l'altra faccia di Giorgio Gaber. Un personaggio "piccolo" alle prese con la confusione attuale (come d'allora) di quella "nave" allo sbaraglio che è la nostra società, con le sue mode, i suoi ideali irraggiungibili, le sue chimere. Senza ancore di salvataggio, nel riflusso come nell'impegno, tanto meno nell'amore: il tarlo di Gaber-Luporini mina ogni certezza, ogni conclusione, iniettandovi il dubbio beffardo, l'insinuazione che tutto ciò che noi scambiamo per bontà o altruismo non sia che una forma rovesciata e infida di egoismo spudorato. Questa la costruzione del racconto che Marcorè esplicita recitando e cantando, accompagnato da due pianiste all'interno di una strana casa le cui porte e finestre sono chiuse da deboli membrane di carta stampata destinata a esser ridotta a brandelli. Il finale, con Se ci fosse un uomo (1999), sembra tenere aperta la questione che Gaber aveva posto senza, ovviamente, risolverla. Preso come allestimento a sé, dunque, Un certo signor G mostra qualche debolezza, sebbene l'attore riesca ugualmente a convincere, seppur non pienamente.

La questione si complica non poco al momento d'operare un confronto col modello originale: dato che certe operazioni si fanno anche "cavalcando" il nome dell'artista rappresentato, è inevitabile sottrarsi alla comparazione. Marcorè ha voce pulita, a tratti ben impostata, ma difetta di profondità nell'interpretare quello che Gaber riusciva a rendere polisemantico, densamente contraddittorio. Più a proprio agio con i monologhi che con le canzoni, Marcorè è totalmente privo della maschera di Gaber, quel volto corvino da Pulcinella incorniciato dalle ciglia discendenti, quasi a simulare perennemente un pianto cui il sorriso, bello e beffardo, faceva da ironico contraltare. Marcorè ha invece un'aria pulitina, da impiegato comunale, una specie di mister Bean irresistibile in certi andamenti marionettistici, ma carente di quella profondità da filosofo ignorante che era la cifra arrabbiata e principale del defunto cantautore.

Il confronto, se regge forse sui monologhi, è una Caporetto appena si tocca la musica: Gaber era prima di tutto un cantante, un fior di cantante. Ascoltarlo dal vivo equivaleva a sentire esibizioni perfette, sembravano delle registrazioni. Non per la "freddezza", anzi (abbiamo visto Gaber far cantare in coro "i borghesi son tutti coglioni" persino alla platea del Giglio, nel '92), ma per l'incredibile preparazione vocale. Marcorè, invece, non solo stona (mal di poco) ma non sa accompagnarsi con la chitarra tenendo il tempo con precisione: dagli arpeggi, quindi, passa al plettro, con risultati (specie nel finale) degni di una schitarrata da falò estivo in spiaggia.

E il pubblico, ci si chiederà? Domanda oziosa. Come ormai accade sempre, il pubblico applaude. In questo caso, non si capisce chi, se l'attore vivente in scena o l'artista defunto che gli ha regalato parole e note. Purtroppo, l'assioma odierno pare il seguente: quello che le platee vogliono è entertainment, bramano non conoscere ma riconoscere. Bastano quindi un volto noto e "rispettabile" (Marcorè è attore bravo e certo non inviso al pubblico di sinistra), un repertorio "sacralizzato" e dalla qualità e dal mercato (Gaber e De André, loro malgrado, sono anche questo) e il gioco è fatto. I tributi, quelli veri, studiati, sudati, pensati, sono altri, ma chi se ne accorge più?

Il programma dei Teatri della Versilia prosegue martedì 11 a Pietrasanta con Otello di Shakespeare interpretato da Sebastiano Lo Monaco, mentre per gli amanti di Gaber segnaliamo al Teatro Jenco di Viareggio, il prossimo 17 gennaio, Giorgio Casale che si cimenterà in Polli d'allevamento.
La stagione del Puccini , all'insegna della comicità "intelligente", continua con uno spettacolo davvero imperdibile, Sei brillanti del favoloso Paolo Poli. L'abbiamo visto nella passata stagione e ci sentiamo di raccomandarlo a tutti i costi: dal 12 al 23 dicembre.

Visto a Firenze, Teatro Puccini, 8 dicembre 2007.

Spettacolo
Un certo signor G
dall'opera di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
con Neri Marcorè
al pianoforte: Vicky Schaetzinger e Gloria Clemente
elaborazione musicale: Paolo Silvestri
scene e costumi: Guido Fiorato
luci: Aldo Mantovani
regia: Giorgio Gallione
Produzione: Teatro dell’Archivolto

giovedì 6 dicembre 2007

Nel labirinto verbale di Alessandro Bergonzoni

(da loschermo.it)
PRATO - Al Metastasio in occasione del Prato Festival 2007, l’affabulatore emiliano ha presentato il suo ultimo spettacolo, Nel , debuttato a Bologna dieci giorni fa. Performance in cui la parola avvolge la realtà, trasfigurandola in un fitto gioco di rimandi e slittamenti di senso

È praticamente impossibile dar conto della girandola verbale che Alessandro Bergonzoni applica nei propri spettacoli. Al venticinquesimo anno di carriera questo attore, indistintamente comico, intellettuale, raffinato, amante dei motori e delizia dei linguisti, dimostra di aver sviluppato strumenti tanto perfetti che è proprio la (semi)improvvisazione finale (in teatro, checché si dica, l’improvvisazione o non esiste, in quanto arte combinatoria improvvisa, o è gioco al massacro per sprovveduti) a fornire una vera misura di cosa sia capace.

Il Metastasio pratese, teatro accogliente e da anni fautore di stagioni all’insegna della qualità, attende in modo caloroso il performer alle prese con una delle prime repliche del nuovo allestimento intitolato Nel. Diretto a “quattro mani” dallo stesso attautore con Riccardo Ridolfi, Nel rappresenta l’ennesima immersione totale di Bergonzoni nel pelago viscoso del linguaggio, dei suoi scarti logici, delle sue manques.

Come sempre, l’attore compare in scena da solo: attorno a lui, alcuni suppellettili coperti da panni bianchi; sul pavimento, delle tavole più chiare del legno circostante. Anticipato dalla propria voce fuoricampo che espone una paradossale “dedica” dello spettacolo in perfetto Bergonzoni style, l’attore di bianco vestito si fa strada venendo incontro al primo applauso. Inizia a parlare, a intrecciare proposizioni, frasi, periodi, scivolando da uno spunto all’altro, come fosse un provetto impagliatore alle prese con la costruzione di sedie. Paradossale e magico nel capovolgere il senso, piegando il calembour spingendolo alle sue estreme conseguenze, Bergonzoni dapprima tramortisce il pubblico alla stregua di un pugile aggressivo che nella prima ripresa assesta ganci vincenti in gran copia. L’atmosfera si scalda, e con essa la platea: il ritmo dell’affabulazione è vorticoso, ma si ha la sensazione che il pubblico abbia appreso, col passare dei minuti, il ritmo della danza verbale e che sia in grado di tener dietro al gioco dell’attore.

Bergonzoni è un comico sui generis: potrebbe, e può, far ridere a crepapelle (e il bis finale lo dimostra ampiamente), ma preferisce incalzare gli spettatori, costringerli a seguirlo e a gustare i Witz (motti di spirito) sfornati a ritmi industriali. Difficilmente lascia il tempo di scaricare la tensione in una risata liberatoria: in questo nuovo Nel il riso bergonzioniano si specchia in una dimensione forse platonica, a tratti compiaciuta, di svelamento progressivo delle potenzialità, e delle falle, di cui è intriso il linguaggio. Non v’è una trama ordita, o almeno questo è ciò che appare nel vortice dell’eloquio con cui l’attore ammalia i presenti, ma un Gioco, nel senso alto del termine, che trascina chi vi partecipa in una dimensione alternativa alla realtà “quotidiana”, un piano distinto in cui i significati danzano intorno e all’interno dei significanti. Particolarmente pregevole il passaggio in cui Bergonzoni afferma che “lo scrittore è scritturato, non scrive”, utilizzando un’immagine potente del rapporto che intercorre tra enunciato e sistema linguistico, concetto che già Carmelo Bene (e attualmente Daniele Luttazzi) aveva ben presente nel proprio lavoro: nessuno dice un bel niente, l’idea di dire, o fare, è una panzana bella e buona, là dove è un sistema retorico, linguistico che ci attraversa e ci dice. Da lì, semplifichiamo consciamente il (non) discorso beniano, le mirabili performance in cui il genio salentino irretiva i malcapitati interlocutori affermando di non essere

Paradossalmente, proprio nella parte che ci è sembrata più alta, più raffinata, più innovativa del suo discorso, Bergonzoni ha forse evidenziato i limiti di questo sua pur pregevole prova scenica: limiti che risiedono, da un lato, in una certa ripetitività, e nella performance singola e nella serie dei suoi allestimenti, dall’altro, in una mancanza di coraggio nel trarre le conseguenze estreme circa le insidie ultime del linguaggio, rompendone definitivamente i meccanismi, sabotandone i gangli. Invece di forzare la mano e di provare (magari fallendo) qualcosa di nuovo, diverso, di rottura, Bergonzoni si mantiene sulla linea, intelligente e mai banale, di un sorriso giocoso, sorta di Alice che esita a seguire il Bianconiglio (e Carroll, ci pare, è un’altra delle fonti più o meno evidenti dell’artista): il pubblico apprezza, ma si resta con l’impressione che qualcosa difetti in questa scintillante prova di affabulazione.

Da vedere: tornerà in Toscana, al Puccini di Firenze , il 15 e 16 febbraio 2008.

Spettacolo
Nel
scritto e interpretato da Alessandro Bergonzoni
regia: Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi
scene: Alessandro Bergonzoni
ufficio stampa: Licia Morandi
assistenza e impianti tecnici: Tema Service
organizzazione distribuzione: Progetti Dadaumpa

sabato 1 dicembre 2007

Sorridere da morire

(da loschermo.it)
LUCCA - Il sorriso di Daphne di Vittorio Franceschi per la regia di Alessandro D’Alatri (all’esordio scenico) ha riscosso un discreto successo nelle due repliche tenutesi al Teatro del Giglio. Spettacolo tra le rivelazioni della stagione passata, forte di un testo nuovo che ha ottenuto vari riconoscimenti di livello nazionale (Premio Enrico Maria Salerno 2004, Premio ETI-Gli Olimpici del Teatro 2006 e Premio Ubu Nuovo testo italiano 2006)

Ha un fascino tutto particolare questo Sorriso di Daphne, pièce di Vittorio Franceschi e allestimento prodotto da Nuova Scena – Arena del Sole – Stabile di Bologna: diremmo che il tratto caratteristico sia una delicatezza, una leggerezza di certo encomiabile, nell’affrontare problematiche ad altissimo rischio di frusta e pomposa retorica.

La storia: il vecchio studioso di botanica Vanni, ben interpretato dal medesimo Franceschi, è gravemente malato, d’un male che lo sta, lentamente, divorando. È un paradosso per uno come lui, lepido, d’un umoraccio cinico e diretto, sempre pronto a recitar la parte del Bastian contrario. Vittima del suo bisbetico affetto e dei suoi strali all’indirizzo di Dio, la società e il mondo, è la sorella Rosa, donna semplice, cattolica, che ha sacrificato la vita ai doveri familiari e cui Vanni rinfaccia reiteratamente i fallimenti. Nei panni di questa, Laura Curino, brava nel dare profondità al personaggio, giocando con le sue mancanze, i suoi scarti ingenui, senza mai trasformarlo in macchietta monodimensionale.
Protagonista non parlante della scena è la Daphne del titolo: una pianta sconosciuta che Vanni ha ricuperata da un viaggio nel Borneo e che potrebbe rappresentare un serio attributo per arrivare al Nobel (“tanto ormai, lo danno a cani e porci!”, la venefica osservazione più volte ripetuta dai personaggi).
A turbare il buffo ménage di questa strana coppia arriva Sibilla (Laura Gambarin), giovane studentessa di Vanni, bella, intraprendente e all’inizio della propria carriera di botanica. Lo studioso l’aveva portata con sé in alcuni viaggi precedenti, considerandola qualcosa di più che una semplice erede di studi.

Il rapporto Vanni-Sibilla appare sin da subito come esclusivo in senso etimologico: a fare le spese di questo improbabile triangolo sentimentale è la povera Rosa, che assiste sia alla salute compromessa del fratello sia all’evoluzione ulteriore di un amore impossibile. La relazione professore-ex studentessa è infatti qualcosa di più di quello tra docente e discente: sodalizio intellettuale, certo, che sfocia in un rapporto sentimentale complesso, ben illustrato dalla mano leggera dell’attore-drammaturgo.
Il male è inesorabile, contrappasso feroce a minare le facoltà mentali d’un uomo che ha nell’intelligenza la propria forza principale: un forte senso di morte aleggia per tutto lo spettacolo, trattato però con eleganza, estrema delicatezza, senza cedere alla tentazione d’un tragico impossibile o, peggio ancora, d’un banalizzante patetico.

Vanni è cosciente di non aver futuro, esistenziale (morirà in breve) o tanto meno sentimentale, e convince faticosamente Sibilla a somministrargli una foglia della Daphne: la pianta, infatti, secerne un veleno portentoso e sconosciuto, che la medicina occidentale non può rinvenire. La scena della morte è intensa, con l’ulteriore contrappasso, per l’ateo Vanni, d’un richiamo al sacramento dell’eucarestia. È Sibilla che, per amore, aiuta Vanni a morire.

Lo spettacolo avrebbe potuto arrestarsi qui, e già sarebbe stato un successo: parlare d’eutanasia in modo misurato ed elegante è cosa assai rara di questi tempi, ma Franceschi ha voluto rendere giustizia anche al personaggio forse più difficile del testo, ossia la “sciocca” Rosa.
Questa compare infatti nel finale, indaffarata a disfare l’arredamento della casa condivisa con Vanni (molto bella la scenografia unica realizzata da Matteo Soltanto): entra quindi Sibilla e nell’ultimo dialogo si svela che la sorella ha capito tutto, perché l’amore sa raggiungere ciò che la mente, forse, non potrebbe cogliere.

Lo spettacolo ha un andamento leggero, impreziosito dalla tematica che, lo ribadiamo, Franceschi affronta e sfiora con eleganza.
Gli applausi finali sono convinti, col solo rammarico che, siamo al venerdì, il teatro avrebbe potuto (e dovuto) essere più gremito.

Visto a Lucca, Teatro del Giglio, 30 novembre 2007.

Spettacolo
Il sorriso di Daphne
due tempi di Vittorio Franceschi
Premio "Enrico Maria Salerno" 2004
regia: Alessandro D'Alatri
con Vittorio Franceschi (Giovanni, detto Vanni), Laura Curini (Rosa), Laura Gambarin (Sibilla)
musiche: Germano Mazzocchetti
scene: Matteo Soltanto
costumi: Carolina Olcese
luci: Paolo Mazzi
suono: Federica Giuliano
assistente regista: Gabriele Tesauri
assistente alla regia: Marla Moffa
in collaborazione con La Ribalta - Centro Studi "Enrico Maria Salerno"
produzione: Nuova Scena – Arena del Sole – Stabile di Bologna

lunedì 26 novembre 2007

Ultrà in scena, tra curva e teatro

(da loschermo.it)
MONTECARLO (Lucca) - Edgarluve ha presentato uno spettacolo sul fenomeno del tifo calcistico basandosi sull'esperienza degli ultras livornesi. Lo spettacolo svoltosi presso il Teatro dei Rassicurati di Montecarlo ne ha evidenziato i pregi e, soprattutto, i difetti

Non è agevole il compito di critico quando si tratta di scrivere una stroncatura, a meno che non ci si faccia prendere dal divertito sadismo che è proprio della distruzione. Allo stesso tempo, c'è da intendersi su quale sia il ruolo della critica e delle recensioni e, in questo che potrebbe essere un discorso assai complicato e pure fuori dalla portata di chi scrive, di sicuro si può affermare che il compito di esse sia d'esser motivo di riflessione per tutti coloro che partecipano, in qualche modo, a un evento artistico. Nella fattispecie di uno spettacolo teatrale, quindi, i destinatari del messaggio sono molti, ossia gli autori, i realizzatori tecnici, gli attori e, infine, gli spettatori, e quelli reali (che hanno visto una recita) e quelli potenziali (che la vedranno o che non la vedranno mai).

Purtroppo viviamo in un periodo in cui la critica negativa è vissuta con sospetto, acrimonia, come un attacco scorretto: giudicare (operazione che ogni soggetto pensante compie d'istinto nella propria relazione col mondo) e per di più giudicare negativamente è spesso interpretato come un qualcosa di abominevole, di inaccettabile.
Ebbene, è con questa consapevolezza, cui fa da contraltare la coscienza lucida e incrollabile che sia utile, bello e, se ben fatto, interessante parlare (anche male) di un'opera, che ci apparecchiamo a discutere di Ultrà, spettacolo a firma di Edgarluve, visto qualche giorno fa nel bel teatrino dei Rassicurati di Montecarlo di Lucca.

Si tratta di un allestimento che, da un lato, prende di petto un argomento d’attualità quale il tifo calcistico con le sue propaggini violente e, dall'altro, tenta una reinterpretazione del libro I furiosi di Nanni Balestrini, testo chiave, e artistico, ossia d'artificio (Balestrini è uno scrittore e mai fu un ultrà), nella rappresentazione di questo peculiare fenomeno sociale, non solo italiano.

In scena, un solo attore (Marco Mannucci), alle cui spalle, su una pedana, sta un batterista. Ai lati della scena, due striscioni verticali rossi riportano scritte in cirillico, le stesse che facevano parte dell'armamentario retorico-politico delle Brigate Autonome Livornesi, la frangia più estrema, sotto il profilo politico e pratico (almeno questa era la rappresentazione data dai media) del tifo calcistico labronico. Le BAL, ora sciolte, hanno rappresentato un caso particolare nel panorama delle curve italiane: non solo di sinistra, non solo dichiaratamente comuniste, le Brigate si sono segnalate per l'intransigenza sia rispetto il fascismo dilagante nel tifo nazionale sia rispetto alle supposte debolezze delle altre curve variamente di sinistra e antirazziste, talvolta accusate di essere troppo accondiscendenti o troppo "morbide". Il dato che colpiva maggiormente, però, era l'aperto stalinismo sciorinato dai livornesi, tratto esibito ed evidente, cui s'accompagnava una lucida analisi del senso e della funzione del tifo nella società contemporanea: le BAL, infatti, sostenevano il primato della politica sugli aspetti calcistici, dando spesso vita a sottoscrizioni per cause umanitarie e distinguendosi per un'attività sociale da non sottovalutare. Notevole, in questo senso, che lo spettacolo sia stato scritto con la consulenza della curva Nord livornese.

Torniamo però allo spettacolo: all'ingresso degli spettatori, il sipario è aperto, l'attore sdraiato indossa qualcosa che somiglia a un'armatura, mentre s'aggrappa a un'asta microfonica. In sottofondo, una musica dal sapore epico, a suggerire il presagio d'una battaglia. Entra il batterista: Mannucci inizia a respirare nel microfono, effetto invero piuttosto abusato da almeno trent'anni di teatro d'avanguardia. Si alza e inizia il racconto di una trasferta dei livornesi a Palermo. Ben presto, però, si ha la netta sensazione che lo spettacolo zoppichi, faccia acqua da tutte le parti. Cerchiamo di spiegare perché:

1. L'eloquio di Mannucci non è credibile. Non è questione di dizione: l'italiano standard spesso suona falso, proprio perché siamo un paese di comuni, di città diverse. Allo stesso modo, però, un accento senza cura, senza la giusta riflessione su ciò che si sta pronunciando, comunica solo sciatteria ed equivale a un suicidio, specialmente in un monologo, per sua natura legato alla voce e al discorso dell'attore. Con questa premessa, è impossibile che la recitazione suoni anche lontanamente verosimile. "Non ci credo" è la frase-condanna che Stanislavskij rivolgeva ai suoi attori, nello sforzo di indurli a infondere "verità" nella recitazione. Purtroppo, a Mannucci, non si riesce a credere nemmeno per un attimo.
2. Il testo è scritto male: a fronte di alcuni elementi potenzialmente sfruttabili (certe immagini ripetute, certe allocuzioni), il racconto di Edgarluve è un florilegio di "e poi", "ma", "e lui dice". Difficile da spiegare, ma l'impressione finale è di una narrazione sprecisa, senza centro, linguisticamente insufficiente. Stiamo parlando in termini di efficacia, ben consci che una comunicazione franta possa essere appropriata a teatro (come in letteratura). Il problema è che questo testo è carente di elementi forti e, soprattutto, risulta del tutto privo di una lingua teatrale efficace: si pensa, ascoltando, molto di più all'incespicare dell'attore-personaggio che a ciò che viene detto e dubitiamo che questo sia un effetto cercato dall'autore.
3. La scenografia non partecipa dello spettacolo: la gente (ce ne siamo resi conto personalmente) non la interpreta per quello che è, col risultato che essa risulta del tutto inutile. Meglio un fondale nero, "neutro". Per di più le luci sono elemento accessorio dell'allestimento, con l'eccezione della parte centrale, quando il personaggio subisce una sorta d'interrogatorio, immobilizzato sulla sedia e racconta il proprio approccio con la curva.

Il monologo è articolato in tre distinti momenti: nel primo si narra la trasferta palermitana dei livornesi, con tanto di "ragioni" a favore degli spesso "irragionevoli" ultras; nel secondo, come già detto, si svolge una sorta di confessione "privata" del protagonista che racconta il proprio percorso personale; nel terzo, si sfrutta la parte più importante (e bella) de I furiosi di Nanni Balestrini, ambientandola in chiave livornese e legandola alla diatriba con i tifosi palermitani che costituisce la trama dello spettacolo. Ma anche quest'ultima parte, per quanto "aiutata" da una struttura forte come il testo letterario di Balestrini finisce per zoppicare e risultare inefficace.
Nel libro si narra, in modo espressivo, il clamoroso scontro nelle campagne vicine a Pontecurone (AL) che il 6 giugno 1993 si verifica all'incrocio di due treni carichi di tifosi sampdoriani e milanisti: ne scaturisce uno scontro durato per ore, coinvolgendo quasi un migliaio di persone, forse la "battaglia" più grande mai svolta tra due tifoserie italiane. Lo scrittore riesce a tradurre in modo esemplare l'aspetto epico dell’avvenimento attraverso l'eliminazione totale della punteggiatura, nel tentativo di riprodurre la frenesia e il caos implicito nei fatti narrati.

La traduzione scenica del passo balestriniano soffre, però, degli stessi problemi sopra esposti e in più presenta una vera e propria "caduta", quando, alla fine del racconto, Edgarluve aggiunge un dialogo tra il protagonista e un amico tifoso che sottolinea la "vittoria" della battaglia appena conclusa. È lì che il personaggio, contestando il compagno, afferma di non sentirsi affatto vincitore, di esser convinto d'aver sempre perduto, da tanto tempo, forse da trent'anni.
L'effetto, da un punto di vista scenico, funziona, è uno dei pochi momenti, forse il solo, in cui la recita riesce a essere significativa in senso teatrale: peccato che per un tale risultato si debba utilizzare una retorica, quella della sconfitta esistenziale, malata di morale, pure facile, come se bastasse un dialogo per provocare un passaggio psicologico tanto forte da compiere una metamorfosi totale nel protagonista. Non contestiamo che per qualcuno, nella vita reale, possa essere andata realmente così, ma all'interno di una rappresentazione artistica, spesso la realtà perde completamente di forza. Per questo, a nostro avviso, il fatto che nell'elaborazione dell'allestimento siano intervenuti dei veri tifosi è un elemento trascurabile: Salgari scriveva dell'India dalla propria scrivania, senza aver mai vedute le terre tanto bene illustrate nei propri racconti. Allo stesso modo l'arte è, in gran parte, artificio, e quindi gli attributi reali di un racconto sono certo importanti ma non necessariamente fondamentali.

Chiariamo: il tifo è, potenzialmente, tema teatrale di tutto rispetto. Vi sono insigni studiosi di teatro greco, come Harold C. Baldry, a sostenere non senza ragioni che l'atmosfera degli attuali stadi calcistici è ciò che maggiormente si può avvicinare a quell'incomprensibile (per noi "moderni") clima di delirio collettivo sotteso in occasione degli allestimenti tragici ateniesi. La tragedia spesso tratta della hybris umana, toccando quel lato oscuro, pericoloso e insondabile dell'uomo, nella dimensione di un delirio distruttivo che rappresenta tuttora un tema inesaurito e certo interessantissimo. Vi evitiamo, in tal senso, menate da intellettuali, alludendo "soltanto" a La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche.

Non solo: sono numerose le suggestioni contemporanee legate alla rappresentazione artistica del fenomeno del tifo. Pensiamo, per esempio, allo scozzese Irvin Welsch, già autore celebre di Trainspotting, che ha dedicato vari racconti, divertentissimi, con protagonisti ultrà. Ma anche Arancia Meccanica (sia nella versione filmica sia nell'originale letterario di Anthony L. Burgess) è una rappresentazione potente di un atteggiamento comportamentale non distante da una certa follia violenta.
Diciamocela tutta: i tifosi hanno un fascino innegabile proprio perché violenti e irriducibili rispetto a una mentalità borghese. In ciò, sono inevitabilmente un'attrazione irresistibile per i borghesi stessi: non a caso, molti responsabili di violenze legate al tifo non sono (più) disadattati sociali, ma gente più o meno "per bene", con un lavoro e, in ogni caso, non necessariamente degli "irregolari".

Proprio per queste ragioni, unitamente al moralismo semplicistico del finale, a un sociologismo abbozzato e superficiale e, ciò che è peggio, a un linguaggio teatrale del tutto involuto (nel testo, nella recitazione e nella concezione complessiva dell'allestimento) che Ultrà risulta uno spettacolo da rivedere, ripensare in ogni sua componente. Prima di tutto nella struttura retorica e in ciò che deve esprimere, in seconda istanza nel linguaggio scenico, che ha una propria sintassi precisa, da cui solo i geni possono, forse, prescindere.
L'argomento è troppo interessante e d'attualità per lasciarlo cadere, ma proprio per questo merita un maggior approfondimento, emozionale e intellettuale, in grado di spiegare in termini teatrali sia il fascino, perverso e incontestabile, sia il complesso aspetto sociale del mondo ultras, fenomeno in grado di tenere occupate ogni fine settimana migliaia di persone senza nessuna prospettiva se non quella di trovare un nemico, nella ricerca, disperata e irrisolvibile, di uno straccio d'identità.

Visto a Montecarlo di Lucca, teatro dei Rassicurati, 22 novembre 2007.

Spettacolo
Ultra
tratto da I furiosi di Nanni Balestrini
ideazione e regia: Edgarluve
drammaturgia: Alessio Traversi
con: Marco Mannucci
batteria: Francesco Zerbino
organizzazione: Federico Bernini
con il contributo di alcuni ultrà della Curva Nord di Livorno
Finalista del premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti edizione 2006

giovedì 22 novembre 2007

Il festino terribile di Emma Dante

(da loschermo.it)
BUTI (Pisa) - Debutto stagionale per il Teatro Francesco di Bartolo con l'ultimo allestimento di Emma Dante, regista e drammaturga tra le più apprezzate del momento. Gran prova d'attore per il bravo Gaetano Bruno a fronte di alcune perplessità circa le scelte implicite dell'allestimento. Il pubblico, ha in ogni caso, dimostrato di apprezzare molto lo spettacolo, premiandolo con applausi calorosi e prlungati

In questi ultimi anni la Sicilia (ma il discorso potrebbe estendersi all'intero meridione) ha scoperto una rabbiosa vivacità artistica, in grado d'esprimere, in forme e contesti differenti, una generazione di talenti d'indubbio valore. Se un tratto, non senza forzar la mano, riesce ad accomunare certi fenomeni musicali (si pensi, su tutti, a Carmen Consoli, che salda sicilianità profonda su tessutiture debitrici di un female rock graffiante e ricercato) a contemporanee epifanie sceniche (la rivisitazione del cunto da parte di Davide Enia, gli spettacoli di Vincenzo Pirrotta), questo è certo una magmaticità dolorosa, ribollio sotterraneo e grottesco di pulsioni in grado d'accostare la nostra modernità a quell'aura mitica di cui il Sud, o ciò che comunemente s'intende per tale, sembra essere intriso.

Emma Dante, quarant'anni, è forse la capofila di una drammaturgia arrabbiata e dolente, che nel rapporto complesso con le proprie radici culturali ha trovato una chiave di lettura per i temi principali del proprio teatro, concentrato sui temi del disagio, della comunicazione saltata, dell'insuperabilità del dolore. Del resto, l'attrice-autrice-regista palermitana ha, negli ultimi anni, fatto incetta di premi e riconoscimenti, segnalandosi, non senza merito, tra i più significativi fenomeni del teatro d'oggi. Basti pensare agli spettacoli scritti e diretti, quali mPalermu (2001), Carnezzeria (2002), Vita mia (2004) sino ai recenti Mishelle di Sant'Oliva (2005) e Cani di bancata (2006).

La stagione del Teatro Francesco di Bartolo di Buti ha quindi scelto per il debutto l'ultimo lavoro dell'artista sicula, Il festino, monologo cucito "addosso" al bravo Gaetano Bruno e prodotto dall'interessante sinergia tra la compagnia "storica" della Dante, Sud Costa Occidentale, con Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e il Festival delle Colline Torinesi.

In scena una figura antropomorfa, capo coperto da un panno, si muove a scatti, a singulti, senza far capire se a rivolgersi verso il pubblico siano il busto o le spalle. La luce si diffonde e, lentamente, compare il profilo di Paride, pinocchiesco personaggio a metà tra fanciullo e idiota, "doppio" d'un gemello costretto su una sedia a rotelle. Lo stralunato carattere parla, si rivolge direttamente al pubblico, frangendo reiteratamente la quarta parete, squittendo con modi infantili nel perpetrare il tormentone del suo contorto e buffo eloquio: "Te la posso dire una cosa?"
È solo, a ricuperare la memoria d'un abbandono paterno, della disattenzione materna e dell'accidentale fratricidio: un racconto dolorosamente grottesco, buffo nel continuo interrogar la sala e nel tratteggiare un'umanità abbandonata, calata in una dimensione onirica e inquietante. Pierrot imbevuto d'una Palermo mai nominata, ma evocata dagli scarti linguistici volutamente macchiati d'accenti siciliani, Paride vive proiettando passato e presente in una dimensione quasi giocosa, come quando, nel tentativo di curare l'infermità del fratello, inizia a mettere in equilibrio tutti gli oggetti che trova, stuzzicadenti, sedie e scope... Queste ultime sono le altre protagoniste della scena, proiezioni di persone a amici che animano il festino del trentanovesimo compleanno del personaggio (e del di lui gemello, se solo fosse vivo...), ragione degli scarni addobbi colorati e dei palloncini che adornano la scena.

C'è una macerata desolazione nelle parole smozzicate di Paride, una resa di fronte alla realtà dell'abbandono per rifugiarsi nella dimensione autoreclusiva dell'immaginazione, gioco al massacro non distante dalle orribili (e comiche) famiglie di Kafka e certe tirate satiresche di marca fassbinderiana.
Le musiche sottolineano questa scelta drammaturgica, spaziando dai Blur al finto (?) thrash di Limonata cha cha cha della, non a caso palermitana, Giuni Russo, rafforzando la dimensione grottesca e, al contempo, patetica della storia, soprattutto con il crescendo dei Sigur Ros nel finale.

Gaetano Bruno è senz'altro la nota migliore dell'allestimento, certo per la plasticità corporea, a suo modo aggraziata nella disarmonia del personaggio, in grado però di lanciarsi in balletti quasi Broadway style usando le scope quali compagne di danza.
Non altrettanto si può dire circa le altre scelte registiche: innanzitutto una scenografia che, volendosi povera e desolata, risulta invece sciatta, esageratamente dilettantesca, forse costretta dalle dimensioni esigue del palcoscenico (ma v'è da dubitare, dopotutto, si tratta di un monologo).
Di certo la decisione è ponderata, e proprio perché tale, dunque, la si può mettere in discussione.
Allo stesso modo, discutibile appare la concezione complessiva dello spettacolo, soprattutto nel finale dolceamaro, col protagonista solo e, forse, felice, nel proprio festino di proiezioni fantasmatiche e miccette esplose in scena, con tanto d'invasivo crescendo musicale al servizio del costrutto retorico e, diciamocela tutta, lacrimevole dell'insieme.

C'è del manierismo, in tutto questo: un mettere in scena alla maniera di. Non si discute che il primo scopo d'un artista sia la ricerca d'un proprio stile, ma, Calvino docebat, una volta trovatolo (spesso per accidente), il successivo passo d'un percorso poetico dovrebbe essere lo smarcamento, lo scarto, la sorpresa. A meno che, nel percorso, non subentrino logiche, assolutamente comprensibili, di tipo commerciale: formula che vince non si cambia.
Questa l'impressione che, al di là di Emma Dante, danno gli ultimi "fenomeni" della scena italiana contemporanea: spunti interessanti, a tratti discutibili ma di sicuro merito, cui seguono spesso lavori di minor coraggio, corroborati da un'autoreferenzialità tipica dell'ambiente teatrale, in cui esistono gerarchie ben precise, ancorché avvalorate da patenti di qualità conferite dal "circuito d'intenditori".
Gli applausi del pubblico in sala sono convinti, ai limiti dell'ovazione per Gaetano Bruno che, ripetiamo, è bravo, ma le perplessità appena proposte, francamente, restano tutte.

Visto a Buti, Teatro Francesco di Bartolo, il 21 novembre 2007.

Spettacolo
Il festino
testo e regia: Emma Dante
con Gaetano Bruno
luci: Antonio Zappalà
produzione: Sud Costa Occidentale in collaborazione con Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e Festival delle Colline Torinesi

Foto tratte da http://www.emmadante.it/, http://www.sudcostaoccidentale.com/ e http://www.nuovoteatronuovo.it/

domenica 11 novembre 2007

Il Decamerone leggero ma non troppo di Ugo Chiti

(da teatro.org)
FIRENZE - Decamerone, amori e sghignazzi, nuovo allestimento di Arca Azzurra Teatro , ha iniziato la tournée invernale sul palco del Teatro di Rifredi . In scena sino al 17 novembre

Non è esattamente un debutto quello cui abbiamo assistito al suggestivo Teatro di Rifredi, ormai vero e proprio luogo storico, e vivo, del panorama scenico fiorentino e toscano tout court: Decamerone, amori e sghignazzi, infatti, era già andato in scena d'estate, a Mantova e a Radicondoli (Siena). Nonostante ciò, l’aria respirata a Rifredi è quella dell’esordio, perché lo spettacolo si ripresenta arricchito, rivisto e lo schiudersi del sipario sancisce la vera conclusione del periodo di prove e l’inizio della tournée.

Ugo Chiti è tra i migliori autori di teatro in Italia, in barba alla reiterata lagna sull’assenza di drammaturghi e ai meccanismi kafkiani di finanziamenti, favori e maneggi che imperano e ammorbano il sistema scenico nazionale. Da oltre venticinque anni, infatti, sforna testi e spettacoli con Arca Azzurra Teatro, la compagnia da lui fondata, con l’aiuto dei “suoi”, peraltro eccellenti, attori, oppure con collaborazioni illustri come Alessandro Benvenuti o Lucia Poli. Chiti è anche acuto interprete d’una strada toscana distante dall’uggiosa tendenza alla cartolina o al versaccio, malattia morbosa che attanaglia i “nostri” attori regionali, troppe volte inchiodati a un macchiettismo tanto di successo (ma le cose stanno cambiando) quanto inerte e, diciamocelo, ormai irritante. La Toscana di Chiti è nera, grottesca d’una comicità che sporca la bocca, che ha un retrogusto amaro, irriducibile ma di grandissima emozione. In questo senso, Boccaccio è stella polare per l’autore chiantigiano, giacché il confronto col suo capolavoro novellistico, il Decamerone appunto, rappresenta strada più volte battuta in carriera: Amori e sghignazzi è, infatti, almeno la terza rielaborazione ispirata al libro delle cento novelle, dopo Decameron – Variazioni e il bellissimo Buffi si nasce, compendio di storia della comicità burlesca toscana (da Boccaccio allo stesso Chiti, passando per Machiavelli, Palazzeschi e Augusto Novelli) il cui primo episodio era ispirato alla novella di Calandrino gravido.

Amori e sghignazzi ha una struttura a cornice costituita dalla gustosa vicenda di Masetto da Lamporecchio, contadinello finto mutolo per entrar a servizio in convento e che, in breve, si vede “costretto” a soddisfare le brame sessuali di tutte le monachelle, badessa inclusa. La novella è leggera, distesa e inebriante: la vita, e in questa il sesso, è troppo bella e importante per poter essere ingabbiata da una moralità mortificante ad annichilire corpo e piacere.

In scena, quindi, subito un cicaleccio di suorine, indifferentemente interpretate da attori e attrici: quasi uno spettacolo di Paolo Poli, da tanto il clima carico di licenza e malizia s’impelaga nel mescolar sacro e profano grazie anche all’alternanza di svariati e indovinati costumi. E l’inversione sessuale trova la sua quadratura nel buffo Masetto, vivacemente interpretato da Lucia Socci: interessante la soluzione d'alternare narrazione e dramma, con i personaggi che ora raccontano le vicende come se ne fossero esterni, ora “tornano” nel personaggio della rappresentazione.

La scenografia scarna (una struttura centrale con una porta sghemba dalla quale entrano ed escono i personaggi) è però funzionale alla recita, allorquando, nel corso della storia di Masetto, s’innestano i racconti di altri episodi boccacciani. Ai pochi arredi fanno da contrappasso i già citati costumi, sgargianti o rustici secondo necessità, che moltiplicano gli attori (sette nel complesso) in un ben maggior numero di personaggi. Dopo il primo assalto sessuale subito dal giovane contadino, ecco narrata la paradossale vicenda di Alatiel, principessa orientale destinata a matrimonio d’interesse politico, che prima di giungere in sposa al marito promesso affronta una serie infinita d’esperienze, ovviamente erotiche, per poi riacquisire, con l’artificio, una riparatrice verginità. Massimo Salvianti è un irresistibile Soldano, costantemente affranto dalle peripezie filiali narrategli dal buffo servo con tanto di squillante trombetta. Dopo un primo ritorno alla “cornice” del convento muliebre di Masetto, ecco il secondo innesto, la celebre vicenda dell’aspirante cristiana Alibech che, alla ricerca di un eremita che le apra la via alla santità, finisce per accogliere e placare lo diavolo (ossia il membro virile) del probo Neerbale nel proprio inferno (ossia la di lei vagina), dando vita a un irresistibile misunderstanding di natura morale.

Sino a questo momento lo spettacolo è godibile, leggero, forse anche troppo lieve: bravi gli attori, ma questo Decamerone sembra a tratti edulcorato, eccessivamente levigato, pur nelle indovinate scelte linguistiche d'un Chiti in grado d’essere fedele al toscano boccacciano e, al contempo, moderno nel mettere in scena una lingua a tratti inventata. Ma è proprio il terzo inserimento novellistico a costituire la svolta dell’intero allestimento: le note struggenti di Cinquecento catenelle d’oro, bellissima canzone popolare toscana, aprono la triste storia di Lisabetta da Messina: la ragazza, interpretata dalla bella e brava Teresa Fallai, canta e ricama, subendo senza nemmeno accorgersene, tanto è svagata, le insidie dei suoi stessi fratelli, tre figuri tendenti al bifolco. Sulla continenza della fanciulla, veglia la matrigna Celeste (Giuliana Colzi), sempre a maledir la morte del marito che le ha lasciato un’incombenza tanto improvvida quale l’ostacolar il corso della natura giovanile, ossia l’amore. Lisabetta, infatti, s’innamora d'un servo, con cui nemmen riesce a capirsi parlando. Questi, un notevole Alessio Venturini nel ruolo che un tempo sarebbe stato dell’amoroso, ne diventa amante, finendo per giacere con la fanciulla: viene scorto dai fratelli che, gelosi, decidono di ucciderlo. Dopo l’esecuzione, il ragazzo appare in sogno a Lisabetta, rivelandole i dettagli macabri della propria fine: lei impazzisce e, aiutata dalla comprensiva e ora solidale matrigna, dissotterra il corpo violato dell’amante per conservarne la testa nella terra d’un vaso di basilico. La canzone prima intonata da Lisabetta diventa presagio d’amor folle e doloroso, eppur inscindibile e bellissimo. I fratelli, però, scoprono sia la pianta sia la testa ormai tumefatta e, in una scena grottesca quanto straziante, improvvisano una serie di passaggi calcistici con ciò che resta del corpo amato dalla giovane.

Conclusa questa cupa novella, lo spettacolo torna alla cornice di Masetto, alla sua voce “scoperta” dalle monache e sapientemente camuffata da evento miracoloso, per fare in modo che il lieto ménage conventuale possa protrarsi con soddisfazione e del villano e delle monachelle ormai aduse al sesso. Ma il sapore prevalente che resta impresso nello spettatore è quella amarezza nera, dolorosa e sublime, della vicenda di Lisabetta, in cui si saggia il peculiare senso del grottesco che rappresenta una delle corde principali del teatro di Chiti, in grado di far ridere e allo stesso di emozionare in modo ambivalente e profondo lo spettatore.
Lo spettacolo, che pareva tradire la complessità del dettato boccacciano, acquista invece una dimensione tragica insanabile, senza però rinunciare al gioco comico, al sorriso sino al ghigno, e recuperando una certa consonanza col Pasolini violento e vitale della Trilogia della vita, di cui Il Decameron (1971) rappresenta il primo mirabile episodio. Il Boccaccio di Chiti, quindi, rappresenta bene il paradigma di un incessante lavoro sulla toscanità del drammaturgo e regista chiantigiano, mai sputtanata nella banalità volgarotta di molti colleghi attori o autori e, anzi, affrontata nella sua violenta e profonda complessità: l’unica vera speranza per sfuggire alla prospettiva, inquietante o meno che sia, dell’omologazione.
Applausi meritati, si replica sino a sabato 17.

Visto il 9 novembre 2007, a Firenze, Teatro di Rifredi.

Spettacolo
Decamerone, amori e sghignazzi
dal Decameron di Giovanni Boccaccio
libero adattamento e regia di Ugo Chiti
con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti,Lucia Socci, Teresa Fallai, Alessio Venturini
costumi: Giuliana Colzi
luci: Marco Messeri
musica originale e adattamento: Vanni Cassori, Jonathan Chiti
oggetti di scena: Lucia Socci
Produzione: Arca Azzurra Teatro
Foto: courtesy Teatro di Rifredi e Arca Azzurra Teatro

giovedì 28 giugno 2007

Sicari allo sbaraglio: l’Amleto laterale dei Sacchi di Sabbia

(da loschermo.it)
SERAVEZZA (Lucca) - Grosso guaio in Danimarca - Quando spunta la luna a Elsinore di Giovanni Guerrieri è stato il secondo spettacolo proposto dal Shakespeare Festival and what you will di Seravezza. Un allestimento originale in cui la storia del principe danese viene vissuta da un diverso (e sorprendente) punto di vista

Peccato che, a volte, certe rassegne teatrali estive non riescano a supportare al meglio le proprie offerte: Grosso guaio in Danimarca di Giovanni Guerrieri, allestito dalla compagnia I Sacchi di Sabbia in occasione del Shakespeare Festival and what you will, avrebbe certo meritato ben di più rispetto allo sparuto gruppetto di spettatori visti ieri sera presso il Palazzo Mediceo di Seravezza. E di più avrebbero meritato anche in termini di supporto logistico, giacché l'allestimento, di per sé piuttosto semplice (come è nella tradizione del gruppo, per scelta poetica e, purtroppo, economica), si è dovuto adattare alla sala interna del Palazzo, dove per questioni di sicurezza non è stato possibile allestire nemmeno un minimo di luci sceniche. Tutto sulle spalle degli attori, quindi: il napoletano Enzo Illiano, membro storico dei Sacchi, e il toscano Marco Azzurrini, del Teatro di Sant'Andrea di Pisa, con la regia di Angelo Cacelli.

S'inizia con un interrogatorio: un allampanato Azzurrini risponde impaurito cercando di scagionarsi da un'accusa non meglio precisata. Occhi sgranati, buffa insicurezza, replica a domande che il pubblico non sente. Infatti, coloro che conducono l'interrogatorio sono idealmente collocati nello spazio del pubblico (soluzione che rimanda a Eduardo, e la famosa scena del caffè col professor Santanna in Questi fantasmi!). C'è un delitto di mezzo, trapelato dalle parole stentate del poveraccio, parole smozzicate che rivelano più di quel che vorrebbero celare, nella reiterata questua di cibo, "che so… una minestrina...". Entra in scena Illiano: spavaldo, sicuro di sé, con la simpatica sicumera che è dei napoletani. Anch'egli indagato, complice del primo. Tra le parole di uno e le smentite dell'altro s'innesta un gioco efficace, in cui il risultato è una confessione involontaria, manifesta nella successiva scena in cui vediamo l'affamato Azzurrini sorbirsi l'agognata minestrina.

Chi sono 'sti due disgraziati? Rosencrantz e Guildenstern? No: la trama originale non quadrerebbe, giacché sullo sfondo aleggia la storia di Amleto, l'intrigo internazionale tra le corti di Danimarca e Norvegia, in un buffo rivoltare la trama shakespeariana sondandone significati laterali. Più del principe filosofo, intrappolato nel pelago dell'impossibilità d'azione, Guerrieri s'interessa a Laerte, figlio di Polonio, Fortebraccio e Rinaldo, la cui morte in terra di Parigi è al centro dell'indagine. I due maldestri sicari si rivelano via via protagonisti assoluti, e segreti, della tragedia danese: infiltrati nella compagnia di comici che si presenta a Elsinore, coinvolti nelle apparizioni spettrali del padre di Amleto, veri e propri motori d'una vicenda che non sanno comprendere appieno.

Il testo di Guerrieri quindi propone un rovesciamento comico, parodico, ma non banalizzante.
Non si tratta di sputtanare un classico, bensì di metterlo alla prova, reinterpretarlo, farlo coagulare con altre istanze, in una parola renderlo vivo, pulsante, perché solo interpretando i classici come organismi viventi è possibile tentare di carpirne scampoli di senso. Del resto, la lezione di Guerrieri e del suo gruppo "tosco-napoletano" non è inedita, quantomeno in quella linea di teatranti che è una delle (poche) risorse reali della scena italiana: dai ripetuti Amleti di Carmelo Bene (che usava toglierli di scena) al magistrale esempio di Leo De Berardinis, peraltro fra i primi sostenitori dei Sacchi sul finire degli anni Novanta.

All'idea del rovesciamento, corrisponde, peraltro una partitura scenica cucita alla perfezione addosso ai due bravi attori, in questi personaggi buffi, malmessi ma anche lunari, tragicomici nella loro risibile cialtroneria. Nel conflitto linguistico che ricorda il duetto Benigni-Troisi di Non ci resta che piangere (Azzurrini parla in un italiano sporcato di toscanismi, Illiano non disdegna il napoletano stretto), i due imbastiscono un differente gioco da Commedia dell'Arte: qui il toscano è clown nero, vittima succube dell'aggressivo napoletano, un clown bianco cui Illiano conferisce crudeltà e guapperìa. Da sottolineare i tempi dei due interpreti: rapidi, ben calibrati; le battute di entrambi si susseguono come rasoiate, segno non solo di bravura, ma di buona regia. Alla fine, non si può che solidarizzare con queste due spie pasticcione, protagoniste senza comprenderlo d'una storia più grande di loro, e che in questo ricordano un poco i Gassman e Sordi de La Grande Guerra, vigliacchi e lavativi trasformati in eroi per caso.

Una performance da vedere, quindi, ieri sera impreziosita (e non, forse, penalizzata) dalle difficili condizioni di recitare senza supporto scenico adeguato e di fronte a un pubblico meno che esiguo: è probabilmente in situazioni del genere che si finisce per apprezzare ancor di più l'attore, elemento insostituibile d'ogni teatro e suo anagramma perfetto.

Visto il 27 giugno 2007, a Seravezza (Lucca), Palazzo Mediceo.

Spettacolo
Grosso guaio in Danimarca - Quando spunta la luna a Elsinore
di Giovanni Guerrieri
liberamente ispirato all'Amleto di William Shakespeare
con Marco Azzurrini ed Enzo Illiano
tecnica: Federico Polacci
regia: Angelo Cacelli
Produzione: Sacchi di Sabbia - Santandrea Teatro

venerdì 22 giugno 2007

Amori e morte di un Don Giovanni teatrante

(da loschermo.it)
SERAVEZZA - Don Giovanni della Bambola di Andrea Elodie Moretti ha inaugurato la terza edizione del Shakespeare Festival or what you will, presso il Palazzo Mediceo di Seravezza. Si replica tutte le sere alle 21 sino al 30 giugno (24 e 27 esclusi).

La terza edizione del Shakespeare Festival or what you will apre i battenti nella suggestiva cornice del palazzo mediceo di Seravezza. Giunta alla terza edizione, l'iniziativa patrocinata dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Seravezza in collaborazione con Accademia Policardia, Compagnia Teatro Sottratto e New Artist Drama vede al debutto lo spettacolo Don Giovanni della Bambola di Andrea Elodie Moretti, attore e regista già agli onori delle cronache teatrali e liriche per una decennale collaborazione col Festival Pucciniano e numerose iniziative che lo hanno portato a lavorare in Versilia.

Artista molto attivo e di buone letture, Moretti è autore di una partitura scenica composita costruita intorno alla figura di Don Giovanni: vi si alternano senza sosta lacerti di Byron, di Moliére e, ovviamente, del Bardo inglese, ma il pastiche è arricchito da ulteriori testi, noti e meno noti, che costituiscono il singolare bottino di scorrerie picaresche all'interno della cultura teatrale e letteraria occidentale.

Il Don Giovanni morettiano è un libertino tragico che nella dissipatezza orgiastica dei propri ménage coltiva una terribile e disincantata visione del mondo, visto alla stregua di un insensato agglomerato di esistenze. È il principio d'ogni teatro gorgonico, riecheggiante la risposta che il satiro Sileno sputa in faccia all'umano re Mida: non essere mai nati oppure morire al più presto. Questo il terribile segreto sapienziale che Dioniso, divinità del gioco, del vino e del teatro, cela ai mortali, liberati dal dolore solo attraverso l'estasi del sesso, dell'arte, dell'ebbrezza e della morte.

Giovanni Tenorio è quindi un teatrante, non differente dall’Amleto capocomico, icona irrinunciabile di chi alla vita non può che preferire la scena, giacché in essa tutto è urgente, necessario, decisivo. Parole che riecheggiano le teorie di Artaud, filtrate magari attraverso l’esempio scenico di Carmelo Bene: tutti elementi presenti a vario titolo nel lavoro di Moretti, vero pout-pourri di trovarobato teatrale e filosofico.

Gli spettatori vengono accolti all'esterno del Palazzo Mediceo: un prestante Vincenzo (Davide Moretti) li introduce in quella corte dei miracoli che ruota intorno al suo signore, Don Giovanni, colui che l'ha prima salvato e poi ribattezzato Stosticchiu, in siciliano questa fica. Il portone si apre sul cortile dell'edificio, divenuto spazio teatrale a tutto tondo, dal momento che gli attori entrano in scena sia dal loggiato sia dal portone d’ingresso. Il pubblico si colloca ai lati, ammaliato da una festa che presagisce l'arrivo del protagonista assoluto della storia: sulle parole di John Wilmot (protagonista del libro The Libertine di Stephen Jeffreys, interpretato da Johnny Depp nella pellicola firmata da Laurence Dunmore nel 2004), fa il suo ingresso Don Giovanni Tenorio, sprezzante, debosciato, fiero, re dei bordelli e dei teatri. Perseguitato dalla moglie (Federica Rosi) e dal padre (Stefano Cherubini) in virtù d’un dovere coniugale dalla passione sfiorita, Giovanni ha però perso la testa per l’arte scenica, unica risorsa in grado di rendergli la vita tollerabile. Protegge, presso il Regio di Agrigento amministrato dalla signora Dumas (Natalia Bianchini), la giovane attrice Eleonora Oscià (Giulia Benetti), con la promessa di aiutarla a divenire una grande interprete shakespeariana: occasione buona per allestire, col vecchio stratagemma del teatro nel teatro, il dialogo tra Riccardo III e Lady Anna, una delle più celebri pagine del Bardo.

Lo spettacolo si sposta al primo piano del palazzo ove gli spettatori sono condotti da uno zannesco Stosticchiu, a metà tra un carontesco imbonitore e un ammiccante Pulcinella. Al centro della stanza, su un ampio velo bianco, Don Giovanni s'intrattiene con la bella Greta delle Arance (Elena Vichi) in un'atmosfera che rimanda a La philosophie dans le boudoir, mirabile testo del Divin Marchese de Sade. La prostituta comunica a Giovanni che la sua favorita, Bambola, è morta di sifilide, cerca di consolare il signore, ma s’arrende di fronte agli struggimenti del libertino che pensa soltanto all'attrice conosciuta poco innanzi.

Dopo un serrato confronto tra il protagonista e la moglie, si torna “a teatro” (il cortile del palazzo mediceo) per assistere alla recita della pazzia di Ofelia, prova del fuoco per Eleonora Oscià e per il suo novello mecenate Giovanni che, alla fine della rappresentazione, avrà l'ultimo e fatale confronto col padre, cui rinfaccerà un'infanzia d'indifferenza e dolore.
Si chiude con la morte dell'eroe, tragico epilogo che riprende nuovamente le parole del libertino di Jeffreys. Giovanni si rivolge al pubblico, prima affrontato con sprezzo e superbia, chiedendo malinconicamente: «e ora, vi piaccio?»

Difficile esprimere un giudizio univoco sullo spettacolo: convince la costruzione scenica, per quanto non brilli d’originalità, giacché avvicinare storie decadenti all'immaginario pop e glam è operazione già ampiamente sperimentata nel teatro novecentesco, vale a dire del secolo scorso. Interessante è comunque la costruzione del personaggio di Don Giovanni, sospeso tra mitologia romantica e dimensione rock (da notare le lenti diversamente colorate indossate da Moretti, che rimandano, tra gli altri, al controverso Marylin Manson), in special modo nel rapporto, conflittuale e complice, col servo Stosticchiu, relazione simboleggiata dal continuo passaggio della livrea a coprir alternativamente il torace di uno e dell’altro.
I problemi dell’allestimento emergono se però se ne confrontano gli obiettivi poetici (altissimi) e la loro concretizzazione scenica. Non si vuol parlare dell'imperfetta recitazione degli attori che affiancano il protagonista: sono per lo più giovanissimi, nel pieno degli studi e dunque meritevoli d'incoraggiamento, sperando magari di poterli rivedere in futuro più bravi e precisi.

Il difetto di questo Don Giovanni della Bambola sta, a nostro avviso, in una mancanza di verità (in senso teatrale) che dovrebbe condurre un allestimento di questo tipo allo scandalo e non allo scroscio d'applausi di un tranquillo pubblico estivo: sarebbe preferibile veder gli spettatori indignarsi di fronte a uno spettacolo fatto male, ma coraggioso e osceno, piuttosto che ricondurre Giovanni e la sua corte a un'atmosfera di borghese accettabilità.

Don Giovanni muore per il teatro e spregia la vita: esempio altissimo di scelta definitiva, che male s'adatta a essere imbrigliata in una messa in scena che, svanita l'eco dell'ultimo battimani, lascia pubblico e attori uguali a sé stessi.

Il teatro, lo diceva Artaud, dev'essere peste necessaria, urgente, malattia che, una volta sopraggiunta, niente lascia d'intatto. L'augurio è che Don Giovanni sappia col tempo ammorbare i suoi giovani attori, rendendoli bugiardi, sboccati, osceni e perciò veri: solo dopo sarà possibile diffondere il germe convincendo veramente (o scandalizzando, che è un'alta forma di convinzione) pubblico e critica.

Visto a Seravezza, Palazzo Mediceo, il 21 giugno 2007.

Spettacolo
Don Giovanni della Bambola
da Molière, Shakespeare e Byron
di e con Andrea Elodie Moretti
con Davide Moretti, Giulia Benetti, Natalia Bianchini, Federica Rosi, Stefano Cherubini, Elena Vichi e altri