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a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 9 giugno 2008

Sandokan e Yanez tra gli ortaggi di Mompracem

(da loschermo.it)
CASCINA (Pisa) – I Sacchi di Sabbia hanno presentato, in occasione di Frontiere in Metamorfosi presso La Città del Teatro, il nuovo spettacolo ispirato alla saga malese di Emilio Salgari resa ancor più celebre dalla versione televisiva di Sergio Sollima (1974, protagonista Kabir Bedi). L’avventurosa vicenda della Tigre di Mompracem si svolge attorno a un tavolino colmo di… verdura: abbiamo assistito alla filata, la prova generale dello spettacolo

C’è qualcosa di imprendibile e geniale nel teatro dei Sacchi di Sabbia, nella loro capacità poetica (là dove poesia deriva dal greco poiesis, relativo ai concetti di creazione demiurgica, produzione e inventiva) di ricreare la realtà, proponendo in modi sempre sorprendenti una riflessione profonda sul senso dell’agire e del teatro. L’aspetto chiave del lavoro di Giovanni Guerrieri e compagnia è il tipo di lavoro scenico–linguistico, basato su sintagmi rapidi, sottrazioni di senso, veri e propri agguati alla logica, sia dei testi assunti sia degli spettatori che assistono ai loro spettacoli.

Dopo l’eccellente 1939, ambientato in una Pisa fascista in attesa di visita ministeriale con tanto di gruppuscolo terroristico in fregola per un tentativo d’attentato senza costrutto, i Sacchi solo apparentemente sembrano cambiare strada, buttandosi su qualcosa di classico. Che poi, troppo classico non è, dato che riprendere Salgari e Sandokan, il suo eroe più popolare grazie alla serie tv, rappresenta comunque un confronto con un’icona forte dell’immaginario popolare collettivo degli ultimi decenni.

Attorno a un tavolo casalingo, ordinario e anonimo, compare Giulia Gallo. Non vi sono arredi scenici peculiari. Arriva Gabriele Carli con sacchetti colmi di verdura: sembra la classica spesa compiuta dall’ortolano sotto casa. Iniziano a stendere alcuni ortaggi sul tavolo, impugnando i coltelli e apparecchiandosi al taglio. Parlano compunti, serissimi, esaminando di volta in volta le verdure lestamente affettate. Le parole, però, sono in evidente conflitto con ciò che accade: navi inglesi, occupazione, Tigre di Mompracem e Perla di Labuan. L’effetto è dapprima straniante, per poi progredire verso una comicità assurda, surreale, ma sempre avvolgente. Entra Enzo Illiano, allampanato, con l’aria di chi si trova lì per puro errore: ma le parole, anche in questo caso, sono quelle di Salgari (nella riscrittura di Guerrieri). L’effetto cresce, si carica di un senso inesplicabile. Il pubblico è pian piano trascinato nel gioco in questione: si partecipa dell’intreccio esotico, dando credito e consistenza alla reinvenzione applicata dagli improbabili personaggi in scena. Patate infilzate con stuzzicadenti divengono soldati al servizio, le carote sono combattenti dal bellissimo profilo, in una ridda interminabili di attribuzioni sospese tra il folle e il grottesco.

Entra, alfine, Sandokan, Giovanni Guerrieri, serissimo, baffo dalinien d’ordinanza, bello, ma anch'egli come gli altri dimesso nella quotidianità del (non) costume scenico. È lui la Tigre della Malesia e il Grand Jeu dell’allestimento si spinge al suo limite estremo: la trama salgariana si dipana in tutta la sua compresenza d'avventura e sentimento, azione guerresca e intreccio amoroso. I personaggi, per altro, rimbalzano su e nei corpi attorici: l’attribuzione interprete–carattere non è fissa, tutt'altro, soprattutto per Illiano e Giulia Gallo. D’efficacia assoluta i contrasti evidenti e ridicolosi tra espressione facciale e parola, maschera e verbo, ora intriso di sangue ora di passione. Guerrieri, pur bello nella sciatteria del controverso personaggio (re)interpretato, rende ottimamente la comica dissonanza tra voce e presenza, alla stregua di certe immagini di Peppino De Filippo, o dell’Eduardo nell’improbabile divisa militare di Napoli milionaria.

Potrebbero fare tv, i Sacchi, se solo volessero o potessero. Se solo l’Italia non fosse un paese dagli ambienti impermeabili, a tenuta stagna e, tendenzialmente, paralizzati. In scena funzionano, eccome: la recitazione, non è una novità, è ottima, limata, precisa, impreziosita da un perfetto senso del tempo. Le idee non mancano, anzi: sono sempre impasti fecondi e stimolanti d’absurdismo mai banale. Sono bravi, forse troppo perché, alla fine, risultano inclassificabili, come trent’anni fa i Giancattivi di Alessandro Benvenuti, rispetto ai quali sono diversi, pur con alcuni significativi punti di contatto: il trio fiorentino al nord era considerato carne da cabaret, a Roma comicità toscana, al sud teatro di ricerca. Era, ed è, questa, la condanna di chi non solo è bravo, ma anche originale. Peccato, però, a esser tali in un paese che ragiona per etichette, quando va bene, e sponsor più o meno occulti.

Con i Sacchi di Sabbia il terrore del critico è avanzare un’ipotesi circa la chiave interpretativa, vero e proprio mistero delle loro messinscene. Ci si alza sempre dalla poltroncina col dubbio tarlato di cosa si sia realmente visto. Il che, sia chiaro, è un gran bene, anzi, una rarità assoluta nel mondo spettacolare contemporaneo: si deve aggiungere, per completezza, che i loro allestimenti son sempre stimolanti, rapidi, divertenti e mai banali. Il senso, però, è un enigma, spesso anche per gli stessi artisti, che propongono opere d’arte senza la presunzione di governarle in toto, chiamando quindi il pubblico a svolgere, una volta tanto, il proprio ruolo autentico, quello di collaboratore irrinunciabile all’evento estetico. Non è poco.
Questo Sandokan non fa eccezione: chi sono queste quattro presenze (sei in realtà, ricordando l’intervento metateatrale di Giulia Solano a sfondare la quarta parete, e lo svelto passaggio marziale di Federico Polacci), buffe e ben poco adatte (dal punto di vista dell’avventura), che animano la scena per la durata dello spettacolo? Sono questi i protagonisti della storia, precipitati nel contrappasso surreale di un’improbabile e metafisica cucina di un non ben definito au-delà, oppure siamo di fronte al sogno impossibile di quattro guitti disgraziati e sognatori? Il dubbio è per fortuna irrisolto, consegnato al pubblico quale regalo prezioso che uno spettacolo teatrale (e qualsiasi opera d’arte degna di tal nome) può tributare alla pazienza e all’attenzione dello spettatore. Applausi convinti, che sottoscriviamo con soddisfazione.

Visto il 31 maggio, a Pisa, Teatro di Sant'Andrea (prove generali dell'allestimento).

Spettacolo
Sandokan
liberamente tratto da Le Tigri di Mompracem di Emilio Salgari
scrittura scenica Giovanni Guerrieri con la collaborazione di Giulia Gallo e Giulia Solano
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri,Enzo Illiano, Giulia Solano
tecnica: Federico Polacci
costumi: Luisa Pucci
Produzione: I Sacchi di Sabbia/Compagnia Lombardi-Tiezzi, in collaborazione con Teatro Sant’Andrea di Pisa, La Città del Teatro, Armunia Festival Costa degli Etruschi e con il sostegno della Regione Toscana

domenica 8 giugno 2008

La parola, oggetto misterioso tra madrigali contemporanei e personaggi-marionette

(da loschermo.it)
CASCINA (Pisa) – Con Frontiere in Metamorfosi, La Città del Teatro propone spettacoli assai diversi tra loro, uniti nel tentativo di sondare problemi e questioni della teatralità contemporanea. Nella stessa sera, ecco quindi Madrigale appena narrabile, concerto vocale e rumoristico della Societas Raffaello Sanzio e il "duetto" tragicomico Mamur di e con Isabella Ragonese

I festival sono momenti interessanti per testare-tastare il polso e accertarsi circa lo stato di salute delle discipline artistiche interessate: tanti spettacoli, altrettanti incontri, numerose possibilità d’incontrare artisti e addetti ai lavori. Non sempre è facile districarsi, orientarsi nella pluralità delle proposte e, spesso, si sceglie quasi casualmente, su suggestioni esterne. Certo, il lavoro de La Città del Teatro in occasione di queste Frontiere in Metamorfosi è senz’altro encomiabile, non fosse altro che per la capacità di riunire istanze spettacolari eterogenee, di esperienze ed estrazioni differenti, pur unite da sottili legacci espressivi, non apertamente in evidenza ma certo presenti.

È così che ci siamo apparecchiati a seguire, nella medesima serata, il Madrigale appena narrabile della Societas, in una parola la maggior compagnia di teatro sperimentale in Italia (e non da ieri), e, subito dopo, la pièce Mamur di Isabella Ragonese, attrice e autrice dalla carriera in netta ascesa. Due spettacoli diversi, nei presupposti teorici e nel risultato estetico (non stiamo parlando di segno, bensì di matrice espressiva), ma che in qualche maniera pongono questioni intorno alla comunicazione tout court e a proposito della funzione che la scena può nutrire con essa.

Un palco già attrezzato si offre agli occhi dello spettatore del Madrigale della Societas: larghe spalle di figure maschili occupano il proscenio, scarsamente illuminato. Si notano numerose aste microfoniche svettare quali moderne antenne nel mezzo di quello che sembra un gruppo raccolto intorno a un centro inaccessibile al pubblico. Più di dieci (sedici per l’esattezza) le figure che partecipano a questa insondabile riunione, alla quale lo spettatore assiste in apparenza da esterno. Le luci sfiocano in dissolvenza incrociata con un brusio crescente, ronzio che da appena percettibile si fa crescente, quasi un’onda sonora che presto investirà l’udito. Si penetra in uno strano universo di voci sibilate ed effetti polifonici ottenuti dalla mescidanza di registrazioni (soprattutto per ciò che concerne percussioni e apparati rumoristici) e vocalità corporea.

L’ensemble guidato da Scott Gibbons e Chiara Guidi, compagno di strada della Societas da qualche anno, affronta i lacerti di testo di Claudia Castellucci declinandoli e destrutturando la debole tessitura logica del costrutto verbale in una partitura sonora che alterna potenti crescendo a repentini cali di volume. L’amplificazione gioca un ruolo fondamentale, nella quasi perfezione tecnica dei diffusori acustici e della microfonazione, ricuperando la protesi sonora al suo vero ruolo teatrale in senso espressivo e non banalmente naturalistico: sin dai tempi della tragedia attica, la tecnologia fonica (all’epoca la maschera calzata dall’attore in scena, strumento d’amplificazione quanto e più rispetto alla modificazione-caratterizzazione del personaggio) è stata utilizzata per snaturare la voce e non per aiutarla. Questo Carmelo Bene l’aveva ben compreso, giungendo a utilizzare le risorse della tecnologia in senso veramente creativo e non di semplice supporto. La Societas è cosciente di tutto questo e, infatti, il complesso alternarsi di voci flautate a grida ultrasoniche sembra avviluppato senza soluzione di continuità nel confronto con la nuova acustica della modificazione tecnica. Frasi mozze di un racconto altrettanto mutilo: l’incontro tra una presenza umana e un cane (dopo il capro di The Cryonic Chant, allestimento e collaborazione precedente tra Gibbons e la Societas) svolto nell’attraversamento di una strada.
L’occasione, minima nella sua ordinarietà, si apre alle infinite declinazioni rumoristiche dell’insieme, nei trattenimenti gutturali, nei singulti ora violenti ora appena percettibili, nelle accelerazioni smodate cui s’accompagnano scoppi d’inusitata violenza sonora. Difficile dire se il risultato sia esattamente quello fissato dalla compagnia, ossia il raggiungimento della "completezza della frase nella sua verità", giacché l’effetto dell’allestimento, che presenta senza dubbio momenti di grande intensità scenica ed evocativa, rischia spesso, da un lato, di lasciare lo spettatore "da solo", dall’altro, di porsi quale avanguardia autoreferenziale e, tendenzialmente, tetragona alla comunicazione teatrale (il corsivo è d’obbligo a proporre un inevitabile intendere latu senso). Infine, trattandosi di ricerca, e di uno dei gruppi migliori in questo ambito, viene da chiedersi quanto di realmente nuovo vi sia in questo pur interessante capitolo che segue The Cryonic Chant e la complessa saga della Tragedia Endogonidia. Di certo, non ci si pente d’aver assistito al Madrigale e, se tra gli scopi di uno spettacolo vi è anche quello di porre problemi allo spettatore, in tal senso, il risultato è centrato, più o meno parzialmente.

Si cambia di spazio e dalla Sala Grande della Città del Teatro si passa al Ridotto dove è in programma Mamur. In assenza di sipario, due figure attendono in scena che il pubblico trovi il suo posto sulla tribuna inclinata di fronte. Inizia lo spettacolo e Pietro Pizzuto (Giuseppe Sangiorgi), strambo, brevilineo, goffo, simula un improbabile scontro a fuoco con un nemico invisibile. Riproduce gli effetti sonori con la bocca, come un bambino. Si getta a terra, rotola, caricando le armi immaginarie che aziona con bizzarra convinzione. Si siede su l’unica sedia alla sinistra della scena. Entra una figura femminile, Isabella Ragonese (autrice del testo): è bella, formosa, fasciata da un vestito aderente che scopre le gambe. Nel frattempo indossa una pelliccia. Inizia un dialogo tra lui, che parla in modo buffo, voce artificiale e profonda, labbra perennemente protese verso l’esterno, e lei, timbro argentino, tono da fanciulla vitale e sbarazzina. Pietro non la guarda, si rivolge verso il pubblico, parlando con seriosità risibile, quasi commovente. Sembra la vittima di un ritardo psichico, non è dato sapere se reale o simulato, come ben presto insinuerà la giovane.

È un dialogo, absurdista e infantile, tra una sorta di prostituta e un cliente che la riceve in casa, ma non è esattamente il sesso il centro del mercimonio: lui la obbliga a (re)interpretare il ruolo di Romina, innamorata dei tempi scolastici e fonte di una cocente e mai superata delusione sentimentale. È Romina che deve schivare i colpi e le pallottole della battaglia contro un bislacco esercito composto da cinesi, americani, negri e quant’altro. Ed è Romina il bersaglio di un odio antico e covato in solitudine che non è altro che il rovescio di un amore frustrato. È solo, Pietro, come se avesse eretto una barriera insuperabile tra sé e il mondo, una barriera fatta di finzioni puerili, regole arbitrarie e risibili, a delimitare un proprio spazio d’esistenza, penosa a e solitaria.

Mamur è la storia, dolce e controversa, di una comunicazione forzata e necessaria tra due personaggi che sono il rovescio di una stessa medaglia di solitudine, perché anche la pseudoRomina è sola e ha bisogno di Pietro, di assicurarsi di non averlo ferito a morte con la propria avventatezza. È la storia di un amore sghembo, come sghembi son tutti gli amori, dove si è sempre vittime e carnefici, in un dominio totale di paura e incomprensione, ora dolci e tremanti ora amare e dolorose. E questi due allampanati personaggi, buffi, improbabili, buoni e cattivi al contempo, si prendono, scontrano, incontrano, dando vita a un allucinato duetto carico di rimandi: un po’ Vladimir ed Estragon, un po’ macchiette dolorose, con tracce d’un sentimentalismo complicato che fa pensare a certi amori impossibili di Almodovar.

La scrittura di Isabella Ragonese, talentuosa interprete sia a teatro sia sul grande schermo (protagonista del recente film di Virzì Tutta la vita davanti e, nella stagione passata, nel cast di Mondo Nuovo di Crialese), appare scorrevole, seppur non convincano certi snodi imperniati su un’emotività che non sembra brillare di assoluta originalità. Buona invece l’interpretazione di entrambi gli attori, abili a tradurre in fisicità contratta e ridicola gli inciampi tutti psicologici di queste due maschere-personaggi incapaci di vivere.

Due spettacoli diversi, si diceva: nelle strategie, nei risultati, nelle intenzioni. Eppure in grado di porre in entrambi i casi alcuni problemi scenici. Al di là di una valutazione meramente qualitativa (ma siamo sicuri che la critica debba dare voti?), si può comunque rimarcare come i festival servano soprattutto a questo: far incontrare ipotesi artistiche differenti e che non rinuncino, con i rispettivi mezzi, a tracciare percorsi, intersezioni e pratiche intorno a quell’universo del possibile che è il teatro.

Visti il 7 giugno 2008, a Cascina, La Città del Teatro.

Spettacolo
Madrigale appena narrabile per voce e violoncello
di Chiara Guidi e Scott Gibbons
su testi di Claudia Castellucci
la collaborazione musicale di Lavinia Bertotti,Eugenio Resta
voci di Marco Andreetti, Angela Burico, Alessandro Cafiso, Mara Cassiani, Margareth Kammerer,Maria Costantini, Rascia Darwish, Maria GabriellaGasparri, Simona Generali, Diego Invernizzi, Sabina Laghi, Sandro Mabellini, Sara Masotti, Caterina Moroni, Alessandra Pasi, Eleonora Ribis
cura del suono: Marco Canali
sartoria: Carmen Castellucci
organizzazione: Gilda Biasini, Silvia Bottiroli, Benedetta Briglia, Cosetta Nicolini
amministrazione: Elisa Bruno, Michela Medri
consulenza amministrativa: Massimiliano Coli
un particolare ringraziamento a Stefano Amaducci, Teodora Castellucci, Stephan Duve, Monica Demuru, Giovanni Lindo Ferretti, Roberta Ioli,Dalmazio Masini, Francesco Raffaelli, Giancarlo Schirru, Oriano Spazzoli
Produzione Socìetas Raffaello Sanzio - Emilia Romagna Teatro Fondazione

Spettacolo
Mamur
di Isabella Ragonese
opera finalista al Premio Scenario 2007
con Isabella Ragonese e Giuseppe Sangiorgi
scene e costumi: Rosanna Monti
luci: Maurizio Coroni
assistente alla realizzazione, scene e costumi: Elena Gianpaoli
collaborazione artistica: Alessandro Garzella
produzione: Sipario Toscana/La Città del Teatro