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mercoledì 4 novembre 2009

Della bufala toscana. Microstoria di una comicità (molto) moderna

Da Montagnani a Benigni, fino alla "Generazione Cecchi Gori"

Della bufala toscana Microstoria di una comicità (molto) moderna

di Igor Vazzaz
(da Possibilia. Periodico online per curiosi)

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Se è vero che la Toscana, regione connotata più di altre da identità e Storia unitarie, vanta numerose qualità quanto a patrimonio artistico e culturale, è altrettanto vero che alcune caratteristiche attribuite alla sua popolazione - la naturale simpatia e la verve comica - sono una mistificazione contemporanea. Non si tratta di bollare i toscani come antipatici, quanto di sfuggire al malinteso che fa della gorgia (la c aspirata, probabile retaggio fonetico etrusco) segno d'indiscussa comicità, abbinata a bucoliche immagini collinari e sommarie reminiscenze dantesche. A livello mediatico, il comico toscano è un dato dei nostri tempi, ignoto prima degli anni Settanta. Il fatto che oggi sia percepito alla stregua d'una tradizione spettacolare sedimentata (come quella napoletana, l'umorismo ebraico o quello anglosassone) è un'occasione per riflettere su quanto la comunicazione di massa riesca ad amplificare o creare ex novo fenomeni a proprio uso e consumo.

Storicamente, i toscani non sono affatto considerati simpatici, ma altezzosi, superbi, forti d'un umorismo malizioso, cinico e cattivo. Curzio Malaparte, penna pregiata del nostro Novecento, ne dà sintesi mirabile affermando che la loro ironia può mutar un matrimonio in funerale e un funerale in farsa: «Quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra». È il 1956 e nonostante Ginettaccio Bartali, prima icona della toscanità moderna («gli è tutto sbagliaho, gli è tutto da rifare!» il suo refrain), i Maledetti toscani sono ancora “antipatici” o, comunque, distanti dall'avere un'immagine univocamente legata al riso, specie in relazione a teatro, cinema o spettacolo in generale.

I primi film e un grande attore
È la comunicazione di massa e non la secolare tradizione letteraria (peraltro non aliena dalla comicità) a sdoganare la Toscana quale terra comica: prima col Pinocchio di Comencini (1971), poi con Amici miei (1975), film fondamentale per il nostro cinema, al tramonto della commedia all'italiana. Il soggetto originale di Germi è ambientato a Bologna: sarà Monicelli a trasferire le zingarate oltre Appennino, realizzando il primo trionfo comico in salsa tosca. Notevole che tra i cinque protagonisti di questo capolavoro politicamente scorretto non vi siano toscani: nel primo capitolo Renzo Montagnani (nato per caso ad Alessandria, ma di storica famiglia fiorentina) è doppiatore di Philippe Noiret e solo a partire dall'Atto secondo interpreta il barista Necchi, ruolo in precedenza affidato al piemontese Duilio Del Prete.
Montagnani è peraltro una “cartina di tornasole” della nascente vague comica: interprete di prim'ordine in scena e sugli schermi, linguisticamente versatilissimo, nei numerosi film realizzati negli anni Settanta recita in bergamasco, napoletano, veneto, romano (è lui la voce di Romeo er mejo del Colosseo negli Aristogatti di Disney) e solo in pochi casi in toscano, segno d'una tendenza in rapida affermazione, ma non certo diffusa nei primi anni di carriera.

Benigni uomo-immagine
Lo spirito toscano moderno trova il suo profeta in Roberto Benigni: è lui a consacrare, dal 1976, un umorismo (che era) sporco, livoroso e grottesco, nutrito di terra e liquami.
Cioni Mario, primo alter ego dell'artista in scena, tv e cinema, ancorché oggetto di meditata rimozione, è un Pinocchio moderno (ben più della sciapa pellicola datata 2002), declinazione novecentesca d'uno Zanni medievale, mostruoso ed eccessivo. Il monologo del debutto (Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, dicembre '75), è un florilegio di poetiche sconcezze, invettive ferocissime (contro il padre, le donne e Almirante, segretario dell'Msi) in un trionfo di turpiloquio e bestemmie “alla contadina”. Non si tratta di volgarità gratuita, tutt'altro: il linguaggio genitale, caratteristica principale dell'attore, è un'urgenza espressiva mutuata dalla cultura di provenienza, dalla sua letteratura, dal Dante dell'Inferno ai poeti giocosi sino alla tradizione medievale dell'enueg, la forma poetica in cui si elencano le cose spiacevoli dell'oggetto cantato. Quando, nello “scandaloso” monologo (traslato prima in tv e poi, nel '77, sul grande schermo in Berlinguer ti voglio bene) l'attore attacca “Almirante... Maledetta l'ora il giorno e l'annata in cui la tu' mamma ti diede la prima poppata…” l'effetto è devastante e il riso del pubblico una sorta di orgasmo crescente man mano che le espressioni usate divengono più estreme. Benigni fonde insieme elementi tipici dell'oralità e stilemi colti (l'aggressione rituale, l'iperbole oscena, il gusto per il rovesciamento carnevalesco), il contado toscano con Dante, Dostoevskij, Shakespeare. Questa fusione grottesca lo rende unico,alieno del panorama comico nazionale: la “sua” risata è grassa, ambivalente, il basso corporeo, la materia escrementizia non sono solo segni di morte, ma elementi di rinascita, trionfo. Si pensi alla sua hit più celebre, L'inno del corpo sciolto, canzone peraltro scaturita dalla lettura del Gargantua e Pantagruel di François Rabelais.
Se da un lato le radici fanno di Benigni il primo e massimo esponente della toscanità moderna, egli è, per paradosso, attore romano: la formazione artistica avviene nelle miticantine della capitale, quelle dell'Avanguardia teatrale degli anni Settanta. E al già citato Cioni per veder la luce farà da ostetrica Giuseppe Bertolucci (figlio del poeta Attilio e fratello di Bernardo), prima spalla, maestro e amico del futuro Oscar. Non solo: se le anteprime fiorentine del monologo indignano il pubblico “popolare”, saranno le repliche romane, con spettatori intellettuali ed esperti, ad avviare il talentaccio di Vergaio al successo di massa.
Dai palchi off dei Seventies all'Academy hollywoodiana i cambiamenti sono stati cospicui: Benigni si è col tempo addolcito, ha smussato gli eroici furori, cambiato collaboratori (fondamentale il passaggio da Bertolucci a Vincenzo Cerami) e assunto atteggiamenti più concilianti, specie rispetto alla Chiesa. Tuttavia, il legame con la propria terra, la povertà, un passato contadino che è biografia reale e non vezzo costruito, si respirano ancora in certe gag come nelle dichiarazioni. Il buffone di ieri è divenuto figura istituzionale dell'oggi, ma, se la Toscana s'è inventata patria di comici, gran parte del merito è da ascrivere a questo diavoletto imprendibile e imprevedibile, alla sua natura terragna e a un retaggio culturale che affonda le radici nella secolare miseria del contado d'una regione dotata di un'identità univoca e complessa.

Giancattivi, gli altri pionieri
La prima ondata toscana sarebbe monca senza i Giancattivi, nella formazione 1978 (Alessandro Benvenuti, Athina Cenci e Francesco Nuti), che debuttano in tv sostituendo i napoletani La Smorfia per la seconda edizione di No Stop, laboratorio di sperimentazione comica assai più del celebrato (e poppettaro) Drive In di qualche anno dopo.
Il trio, attivo dal 1971, si converte alla calata fiorentina più per necessità che per convinzione: la dizione italiana di Nuti all'epoca non è credibile. Portatori d'una comicità aggressiva e absurdista, i tre vengono recepiti dai media come esponenti del filone che, complice Benigni, si sta affermando. Le loro scene, basate su un'improvvisazione spinta all'estremo, sono cattive, abilmente costruite intorno a Benvenuti che tiranneggia il “povero” Nuti, con Athina Cenci pronta a inserirsi, talvolta come spalla, talvolta come ulteriore carnefice: il tutto, utilizzando un italiano sporco di toscano, con battute e figure del linguaggio popolare. Ben presto pubblico e critica connettono queste cattiverie all'immagine del toscano corroborata dall'iracondo Cioni benignesco. L'effetto è quello di una linea, d'un movimento, che di fatto non esiste. Il percorso di Benigni è del tutto diverso da quello dei Giancattivi: se il primo emigra a Roma, gli altri stanziano a Firenze dove, oltre a realizzare spettacoli tra cabaret e teatro, svolgono una vera attività di promozione e organizzazione culturale. Anche per Benvenuti, autore e leader del gruppo, i riferimenti culturali non sono affatto regionali, tutt'altro: il teatro vernacolo fiorentino, che pure conta alcuni grandi autori e svariati ottimi interpreti, è visto come qualcosa di inerte e vecchio. Per capire bene i Giancattivi si deve guardare al Teatro dell'Assurdo francese, a Frank Zappa, a Orson Welles, a Jacques Tati e persino a Carmelo Bene, influenze che il gruppo rielabora in termini comici e personalissimi.
La reale novità rappresentata dai primi toscani, se vogliamo, è proprio questa: rivolgersi al mondo usando la propria cultura come trampolino, senza esaurirsi in essa, forse pure “ignorandola”, dandola per scontata, come dato di fatto.
Esemplare la battuta di Benvenuti a un giornalista, nel 1981, a proposito della toscanità: «Woody Allen secondo voi è un attore dialettale di Manhattan, New York?».

Il decennio pop
Gli anni Ottanta sono il consolidamento della neonata scuola comica: grazie al cinema, con i successi di Benigni (Tuttobenigni, ma soprattutto Il piccolo diavolo) e di Nuti, all'epoca il più fortunato in chiave popolare. Le pellicole del pratese non brillano per originalità, le atmosfere risentono molto della lezione surreale di Benvenuti (da cui Nuti si separa nell'81 dopo l'ottimo Ad ovest di Paperino) e ben presto scadono con trucchi di bassa lega (schiaffoni, banalità en travesti), a fronte di un'ottima tenuta di pubblico. Caruso Pascoski di padre polacco (1988) è il momento migliore di una carriera destinata, causa problemi personali, a declinare nell'arco di un decennio.
Benvenuti prosegue un'ottima carriera d'attore e autore teatrale, senza disdegnare il cinema, specie nella traslazione del suo capolavoro in sceBenvenuti in casa Gori. A fianco dei tre “alfieri”, una generazione di attori, autori e caratteristi, spesso compagni d'esordi dei primi, alimenta e corrobora il novello filone: Carlo Monni, Paolo Hendel, David Riondino, ma anche il drammaturgo Ugo Chiti e altre figure minori, celebri per qualche stagione e poi ripiombate nell'anonimato.

Il bischeraccio e la banalizzazione
La vera svolta per la comicità toscana avviene però grazie a un altro personaggio, non attore in prima persona, ma centrale e innegabilmente comico: Vittorio Cecchi Gori. Alla fine degli anni Ottanta, l'azienda di famiglia, nata e prosperata sotto l'attenta guida del padre Mario, attraversa un periodo di grandi successi. Vittorio (detto bischeraccio dallo stesso genitore) rileva l'attività e, complice la moglie Rita Rusic (si maligna che sia lei a fiutare il business), investe coraggiosamente su una generazione di nuovi talenti, divenuti celebri grazie ad alcune riuscite trasmissioni del circuito televisivo regionale. Si tratta di figure non troppo dotate, ma che, approfittando della situazione, beneficiano di copiosi finanziamenti e riscuotono ottimi consensi a livello nazionale. È infatti con Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, Massimo Ceccherini e altri ancora che la Toscana diviene genere, marchio vincente, in modo tanto efficace quanto deteriore.
I film di Pieraccioni si basano su una Toscana da cartolina, decontestualizzata, sono alimentati da storie d'amore ben oltre il limite della banalità e in cui la lingua è un fiorentino standard che coincide esattamente con l'idea che l'italiano medio ha del toscano. La volgarità, mai eccessiva, è esibita ma non urgente, macchiettistica e, dunque, realmente volgare. La radice culturale è enfatizzata, quasi fosse un marchio d'origine, rovesciando completamente la prospettiva dei predecessori. Lo stesso vale per Panariello, attore televisivo che punta tutto sul tormentone dei personaggi e non sulla loro profondità comica: millanta una parentela artistica col Verdone degli esordi, ma è anni luce lontano dallo sguardo balzachiano del romano, restando sempre sulla superficie dei caratteri, in cui la realtà contemporanea è sfottuta ma, sotto sotto, ammirata. Ceccherini è, potenzialmente, l'unico vero artista della covata, ma una vita personale un po' troppo spericolata gli impedisce di far valere il proprio talento: eppure nei suoi film, quasi volutamente di serie B, si rintracciano idee e gag potenti, cariche d'una violenza comica fuori dal comune.
In nessuno di questi ultimi toscani, ormai neanche più nuovi o giovani, si rintraccia un'eco lontana della necessità espressiva dei predecessori: il rapporto con la terra d'origine si è capovolto in modo perverso e la Toscana, da naturale trampolino di lancio, è divenuta un connotato tanto esibito, inerte e, alla fine, irritante.

Stabilità, rilancio o declino?
La responsabilità della covata cecchigoriana sta tutta nell'affermazione d'un modello mediatico che, se coi “padri” aveva trovato profondità d'ispirazione e connessioni non banali con le proprie radici (Benigni è, o era, più Cecco Angiolieri che Dante), adesso vive di elementi esteriori, di coloriture, di cartolinismo. Una Toscana tanto simile al Chiantishire degli inglesi che stanno comperando la provincia senese, buona per gli spot delle merendine, ma oltremodo distante dalla realtà contemporanea o da un'epoca aurea citata quasi sempre a sproposito.
È vero che, a tutt'oggi, l'accento fiorentino è affermato segno comico, ma sembrerebbe da registrare un comprensibile calo d'interesse verso il prodotto, a seguito delle inevitabili oscillazioni del mercato. Se la Toscana pare avere qualche sparuta freccia al proprio arco dal punto di vista della comicità, lo si deve alla “meno tosca” delle sue città, quella Livorno meticcia e aliena (unico centro urbano estraneo al passato medievale ed escluso da un processo identitario plurisecolare), sboccata e irriverente: da qui sono partiti il regista Paolo Virzì, il comico Paolo Migone, numerosi autori satirici formatisi sulle pagine del glorioso Vernacoliere, mensile di satira integra e cattiva che, di tanto in tanto, assurge alle cronache nazionali grazie ai suoi titoli irresistibili (“Era meglio un papa pisano”, in occasione dell'elezione di Ratzinger). Livorno, però, è una Toscana altra, diversa, che solo l'occhio inesperto del forestiero riesce a collegare, con errore, alle regionali consorelle: le sorti del “nostro” filone non possono, probabilmente, dipendere dai suoi artisti.
I movimenti nascono, vivono e muoiono: sorta con le tiratacce d'un Benigni incazzato col mondo e le imprese degli zingari di Monicelli, cresciuta con Benvenuti e Nuti, la moderna comicità toscana, nel momento di affermata riconoscibilità sembra però destinata al declino d'una contraffazione beffarda, come il risibile episodio accaduto a Cecchi Gori il quale, sorpreso in piena notte dalla Guardia di Finanza con nove grammi di cocaina nella cassaforte di casa (inchiesta poi archiviata - uso personale), sosteneva con ostinazione che fosse zafferano.