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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

sabato 20 dicembre 2008

La governante e lo scarafaggio

(da teatro.org)
La variazione su partitura classica è pane consueto nel laboratorio drammaturgico di Ugo Chiti, penna e regia, non ci stancheremo mai di ripeterlo, tra le migliori del panorama teatrale italiano. L’interpolazione laterale della Metamorfosi kafkiana (testo vincitore del Premio Riccione per il Teatro) si colloca quindi su una direttrice di lungo periodo dell’autore chiantigiano, la stessa de Il fantasma di Canterville secondo la signora Umney con Lucia Poli, il falstaffiano Nero Cardinale e altre numerose sperimentazioni ricavate da un repertorio letterario eletto secondo criteri di prossimità geografica o umorale: Boccaccio, Machiavelli, Shakespeare, Augusto Novelli, Palazzeschi, ma la lista potrebbe continuare.
Kafka è, in qualche modo, autore chitiano per eccellenza, in grado di sposare polarità grottesca, comicità nera e un’irresistibile attrazione verso la vischiosità dei rapporti umani, la loro dannata e dolorosa complessità. In tutto ciò, s’inserisce la mano felice di Chiti nello scrivere parti femminili, nel rendere carne pulsante una drammaturgia che penetra nell’animo muliebre con delicatezza, precisione e crudezza: il pensiero corre sia ai monologhi redatti per Lucia Poli sia all'Adele Gori coprotagonista della trilogia allestita per e con Alessandro Benvenuti.
Il celebre racconto lungo di Franz Kafka viene dunque rivoltato dalla lettura di Chiti, che assume il punto di vista della signora Anna, ciarliera governante a servizio presso i Samsa, nucleo familiare tanto allucinante quanto ordinario che fa da coro a Gregor il mutante.

In un interno borghese di freddi colori pastello dotato di pareti semoventi per ricreare i vari spazi domestici, si consuma il paradossale dramma della trasformazione in scarafaggio da parte del primogenito: modificazione che coglie del tutto impreparati genitori e Greta, la sorella. Questa, interpretata da Lucia Socci, per prima prende a cuore la situazione del fratello, al contrario del dramma materno (cui dà vita Giuliana Colzi) e dell’ondivago atteggiamento del padre (Massimo Salvianti).
Anna, una Giuliana Lojodice cui Chiti ha cucito addosso il personaggio, assiste alla vicenda, prima come occhio esterno, trattata con malcelata sufficienza da parte dei datori di lavoro, per poi assumere un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’infausta e imprevedibile circostanza. Col tempo, diviene l’unica a entrare nella stanza dello scarafaggio, tentando di instaurare un rapporto con quello che, si presume, una volta fosse un ordinario ragazzo perbene.
La vita è un processo violento, senza cuore o pietà, alla stessa stregua della specie umana, in grado di far l’abitudine a qualsivoglia supplizio. Ed è così che, tutto scorre, tutto continua, a casa Samsa: il padre, ritrovata forza e autorità (doti che la maturità d’un figlio finiscono inevitabilmente per fiaccare, in senso psicanalitico e non solo), torna al lavoro recuperando aspetto virile e dignità, la madre continua a dolersi del poco coraggio nel non voler affrontare la vista del ragazzo, la sorella, com’è ovvio, continua la propria vita, per quanto sembri la più toccata dall’inusuale accadimento (ne è testimone il rapporto col timido spasimante interpretato da Alessio Venturini).
È Anna, invece, l’unica che parla con Gregor, l’unica che stabilisce, o tenta di stabilire, un contatto reale, umano, per quanto il termine possa risultare improprio.

È una parabola sugli outsider questo Kafka chitiano, confronto e guerra contro una solitudine inenarrabile, una dimensione umana ossessiva e lancinante cui nessuno può scientemente sfuggire. Anna, ruvida, brusca, a tratti comica, scopre nel rapporto con Gregor una via di fuga, illusoria, perché il diverso tale è e tale rimane. Poco importa il cicaleggiare dei pensionanti (Andrea Costagli e Dimitri Frosali) che scopriranno la vergognosa presenza, decretando un palpabile scacco economico per i Samsa: il tentativo di contatto da parte di Anna si risolve in un fallimento, forse previsto, forse inevitabile.

Gregor, o quello in cui egli s’è tramutato, muore, nel silenzio. Le spoglie vengono raccolte in sacchetto dell’immondizia: non c’è rapporto, non c’è dialogo, non c’è speranza.
Anche Anna fallisce, nonostante la paradossale umanità, quella sintonia materna che la colloca una spanna sopra la madre naturale del protagonista mai visibile direttamente in scena. La differenza, quella differenza, è cosmica, esistenziale, metaforica, non meramente fisica: forse un ascolto reale, vero, potrebbe colmarla, un ascolto santo, senza la pretesa d'un ritorno, di risposta, che non s’aspetta niente in cambio.

Le note lugubri del dettato kafkiano sono ben rese nel cambiamento prospettico adottato da Chiti, che fornisce una mise en abîme del celebre racconto. La recitazione degli attori di Arca Azzurra Teatro, unitamente alla brava Lojodice, è ottima, come sempre, diversa rispetto ai canoni consueti del teatro italiano, benché in questa difficile partitura sembri pagare dazio, per quanto parziale.
Del resto, la Metamorfosi, in quanto capolavoro universale, si presta a infinite letture, tanto diverse quanto plausibili: sorprende, conoscendo le corde di Chiti, l’assenza di un piano comico più pronunciato, a limiti del fou, tratto innegabile dell’originale, ma si tratta di interpretazioni e di punti di vista.
Lo spettacolo funziona e rappresenta l’ennesima scommessa vinta da un insieme che vede un ottimo drammaturgo e regista, supportato da una compagnia sempre alla sua altezza.
Visto a Prato, teatro Metastasio, il 19 dicembre 2008.

Spettacolo
Le conversazioni di Anna K.
liberamente ispirato a La metamorfosi di Franz Kafka
testo e regia di Ugo Chiti
scene: Daniele Spisa
costumi: Giuliana Colzi
luci: Marco Messeri
musica originale e adattamento: Vanni Cassori e Jonathan Chiti
con Giuliana Lojodice
e con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali,
Massimo Salvianti, Lucia Socci, Alessio Venturini
Produzione: Teatro Eliseo / Arca Azzurra Teatro

giovedì 18 dicembre 2008

Decameron, o della (vera) satira

(da teatro.org)
Qual è il ruolo della satira, la vera satira, in un periodo difficilissimo per questo peculiare genere espressivo? Sovresposta, bruciata dal grillismo (che ha recentemente registrato alcune significative battute d’arresto), fraintesa ed equivocata in televisione (quella di Crozza è satira in parte, idem per la Cortellesi; quella della pur brava Littizetto non la è proprio; quanto a Zelig e Striscia, sopravvoliamo…), sfruttata in modi talvolta discutibili (la stizzosetta Guzzanti, l’ambiguo mélange col giornalismo di Travaglio), fiaccata dal diffuso clima d’intimidazione produttiva, dalla crisi, dalla mancanza di veri spazi promozionali: questo il poco edificante quadretto che ci conduce al cospetto di Daniele Luttazzi, attualmente il miglior satirico (l’unico?) del panorama nazionale.
La sala del Politeama pratese non è piena quanto avremmo pensato e la totale scomparsa dai teleschermi dell’artista romagnolo gioca di certo il suo ruolo in certe dinamiche d’afflusso: a quanto pare, molti teatri solitamente frequentati dal “dottore”, fiutata l’aria, hanno smesso di ingaggiarlo come un tempo. In Italia si può dar noia a una chiesa, non a tutte contemporaneamente…

Esaurita la necessaria premessa, lo spettacolo. Nuovo, ispirato nel titolo e nei temi al programma bandito dall’emittente LaSette nell’autunno 2007, Decameron (completo del sottotitolo originale, ossia Politica, sesso, religione e morte) torna sulle tavole del palcoscenico. La struttura apparente è la medesima degli ultimi one man show del comico: in realtà a cambiare sono i contenuti, anzi, la forma in cui i contenuti (press’a poco gli stessi che la satira tratta da qualche millennio…) vengono presentati, sezionati, analizzati. S’inizia subito con la politica, come da programma e Luttazzi misura subito la “pressione” al pubblico, con un’ardita metafora tra il popolo italiano e una donzella coinvolta in un rapporto sodomitico: niente di nuovo, si dirà… In realtà, tutto di nuovo, giacché il nostro più caustico raisonneur scenico arriva al punto di evidenziare le tre fasi distinte della sodomizzazione, riconducendole puntualmente, con un irresistibile paragone politico, al rapporto tra Berlusconi e l’intero elettorato. Inizio col botto. Niente male: in più, la similitudine sessuale offre il destro per reiterazioni, riprese, all’insegna dell’estremo: del resto, “Se la satira non è estrema”, lo dice Mel Brooks e lo ricorda spesso Luttazzi, “non fa ridere”.

Al di là dell’iperbolismo scatologico (funzionale e ottimamente pensato), il monologo evidenzia alcune perle assolute, a testimoniare una continua evoluzione del modus satirico dell’artista. Splendida la disanima del panorama politico nazionale secondo schemi desunti dall’analisi narratologica: la scomposizione cui Luttazzi sottopone i protagonisti dell’attualità, sottolineandone la capacità, o meno, di “rappresentare una storia”, è illuminante. La chiave permette di leggere con estrema chiarezza sia il successo berlusconide sia la disfatta, ultraventennale, d’una sinistra incapace di proporre modelli nuovi e alternativi, ancorata alla suicida gestione dell’esistente.

Satira ultrapolitica, anfibia per vocazione: sesso e morte occhieggiano continuamente. Per la religione si deve aspettare la seconda parte dello spettacolo: una sequenza di osservazioni al vetriolo sull’assurdità di ogni confessione e sulle ingiustizie del cattolicesimo, quali il differente statuto (e trattamento economico) dei docenti di religione rispetto agli altri o la gestione scientemente ondivaga di vicende eticamente complesse, confrontando il caso di papa Wojtyla con gli altri che hanno animato i recenti dibattiti inerenti alla gestione delle volontà dei pazienti terminali. Degna d’un cattedratico, infine, la prolusione sulla radice antropologica del cristianesimo, i recuperi da altre tradizioni precedenti, nonché la riconduzione della simbologia crociata ai cicli cosmici.
Il tutto, sia chiaro, facendo ridere, in situazione per di più del tutto disagevole: è, infatti, un gran peccato che l’acustica del Politeama sia tanto deficitaria da impedire a gran parte del pubblico di carpire in modo definito le parole pronunciate dal comico. Luttazzi, più di ogni altro collega, è una macchinetta verbale: fa dell’eloquio rapido, serrato, una delle sue peculiari strategie comiche, in cui le rapide impennate locutorie fanno da trampolino per le battute, autentiche rasoiate che sorprendono l’ascoltatore. Se l’acustica viene meno, lo spettatore è costretto a porre eccessiva attenzione sulla fonetica delle parole, compromettendo del tutto il meccanismo comico: si sorride, al massimo, perché si capisce in ritardo, là dove l’effetto sorpresa è il fondamento primo della scarica emotiva costituita dal riso.
La cosa è per nulla secondaria, perché a restar penalizzate sono le parti più raffinate del dettato luttazziano, quelle in cui primeggia un esprit de finesse impareggiabile, tra le migliori armi dell’arsenale umoristico del nostro. Del tutto perduta, per esempio, la parte in cui l’attore, conscio del pericolo “unanimistico” implicito nel successo delle performance, si sottrae al pernicioso meccanismo dell’autosantificazione, fenomeno che coglie impreparati altri suoi colleghi, incapaci di gestire opportunamente tale rischio. Non si tratta di “bontà”: certo, di intelligenza, cultura e coscienza. La satira è contro il potere e, per essere autentica, deve ben guardarsi anche (e soprattutto) dal potere della satira medesima.

Applausi, convinti, anche sulla fiducia, per ciò che non siamo stati in grado di sentire distintamente.
Spettacolo da vedere, dunque.
Anzi, da rivedere (alla Città del Teatro di Cascina il 17 gennaio, a Firenze, Saschall, 27-28 febbraio), e non certo per colpa del suo protagonista.
Ancora una volta: grazie, Dottor Luttazzi.

Visto a Prato, Teatro Politeama, il 18 dicembre 2008.

Spettacolo
Decameron
di e con Daniele Luttazzi
produzione: Krassner

lunedì 15 dicembre 2008

Michelina, dalla risaia all’amore, tra canzonette e risate

(da teatro.org)
È lieve e zuccherata, la storia di questa Michelina, scritta da Edoardo Erba, allestita dalla compagnia Teatro Stabile di Firenze e affidata alla regia di Alessandro Benvenuti.
In scena, Maria Amelia Monti nei panni della protagonista, affiancata dal cardinal Dorigo di Amerigo Fontani e da Arturo Bonavia, cantante sentimentale in perenne cerca di riscatto nell’interpretazione guittesca di Giampiero Ingrassia. Il cast è completato da Mauro Marino, Gianni Pellegrino e Anna Lisa Amodio, rispettivamente nelle parti di un altro cardinale vaticano, di padre Tomaino e di Suor Ercolina, buffa presenza onirica in odor di santità.

La scena, firmata da Tiziano Fario, è divisa in due parti, alla stregua di altrettanti spazi d’azione: il richiamo al teatro nel teatro è continuo, sia nelle esibizioni del cantantucolo di Ingrassia sia nel sipario utilizzato a metà palco, utile per i cambi di fondale.
Si va dalla risaia lombarda, anno 1948, luogo di fortuito incontro tra Bonavia e la squinternata Michelina, una rozza contadina dalle belle gambe e i modi sgraziati: una serie di richiami vegetali suggeriscono la collocazione en plein air dell’azione, ben presto cangiante in un interno pontificio, con scene spostate a vista da due tecnici vestiti in blu scuro e richiami pittorici a raffigurazioni sacre. La scena è una “scatola”, sembra suggerire l’allestimento, con differenti “piani” e punti di vista, analogamente alle gustose “lezioni di teatro” che Bonavia impartisce progressivamente all’imbranata Michelina, troppo rozza per penetrare a fondo il concetto di finzione scenica, ma non stupida al punto d’essere totalmente sottomessa all’improbabile “salvatore”.

Maria Amelia Monti è brava nel conferire i caratteri del “proprio” personaggio classico (una donna clownesca sospesa tra ingenuità e furbesca malizia) a questa ragazza, protagonista di una storia che non riesce completamente a cogliere. Sì, perché oltre all’intreccio di tema teatrale (la ricerca della fortuna da parte di un artista velleitario e illuso), Michelina è protagonista di un’altra storia, ben più improbabile, a mescolar sacro e profano: due cardinali (Fontani e Marino), coadiuvati dal servo non troppo sciocco di Pellegrino, devono provvedere a riscattare la fiducia dei credenti e sono incaricati di provvedere a un processo di beatificazione. Da un lato, hanno l'obbligo d'assicurarsi che la cosa sia svolta seriamente, senza ciarlatani e finzioni, dall’altra, il momento storico “richiede” assolutamente nuovi santi da proporre ai fedeli, per rinsaldarne la fiducia nell’istituzione ecclesiastica. Gli accertamenti canonici all’indirizzo di Suor Ercolina da Afragola, colei che viene scelta e reputata in odor di santità dai prelati, portano il pio e severo cardinal Dorigo a incontrare Michelina e l’evento è destinato a cambiare la vita di entrambi.

La storia prosegue sulla falsariga d’una pochade musicale, tra brevi scene e canzoni, in cui i due improbabili amanti vengono allontanati forzatamente, ma alla fine si riuniscono nel “trionfo” d’un sentimentalismo surreale e incline al paradosso. Con usuali trovate farsesche, la situazione viene “aggiustata”, Dorigo abbandona la tonaca, non prima di sciogliere i voti che avrebbero impedito a Michelina di amarlo, Suor Ercolina viene beatificata (divertente l'apparizione alla protagonista, col conseguente dialogo) e Bonavia ottiene d’esibirsi al desiderato (e temutissimo) Ambra Jovinelli di Roma, quel teatro dal pubblico temibile, che scaglia gatti morti contro gli artisti non all’altezza. Si chiude con una canzone che vede tutti i personaggi in scena: cantano una strofa a testa e ballano insieme, offrendo al pubblico uno scampolo di quel mondo del varietà, oggi andato perduto.

L’allestimento è leggero, forse troppo, ma non è pretenzioso e il richiamo al mondo dei guitti, degli artisti sfigati, delle luci colorate alla bell’e meglio di certi teatranti simili al Sik Sik eduardiano, non manca d’intenerire un poco il cuore. Dato il cast si potrebbe pretendere di più, ma è il testo a non lasciare troppi margini d’intervento.

Visto il 14 dicembre 2008, a Carrara, Teatro degli Animosi.

Spettacolo
Michelina
di Edoardo Erba
regia: Alessandro Benvenuti
con Maria Amelia Monti, Amerigo Fontana, Giampiero Ingrassia, Mauro Marino, Gianni Pellegrino e Anna Lisa Amodio
musiche: Edoardo Erba
scene: Tiziano Fario
costumi: Massimo Poli
disegno luci: Laura De Bernardis

La danza e il mistero delle cose

(da teatro.org)
Virgilio Sieni affronta Lucrezio e quel capolavoro assoluto di letteratura, filosofia e scienza che è De Rerum Natura, per trarne uno spettacolo abbacinante, profondo e ambiguo.
In uno spazio ricavato da una serie di teli trasparenti a formare un gigantesco parallelepipedo (alto almeno una decina di metri il doppio di lunghezza), la prima apparizione è una testa animale, nella penombra: con tutta probabilità un cavallo.

La musica, creazione originale firmata da Francesco Giomi, compositore e direttore del Centro Tempo Reale di Firenze, cala il pubblico in un’atmosfera sospesa e lattiginosa, effetto amplificato dal fumo diffuso all’interno di questo immenso big box di velami.
Si visualizza panno alla stregua di un sipario, mantello e nascondiglio per la comparsa dell’equino; il telo cade d’un tratto, precipitando lo sguardo dello spettatore nell’abisso vertiginoso dello spazio vuoto.

Una voce femminile, suadente e soffiata (è di Nada, l’affascinante cantante e cantautrice d’origine labronica) ripete, in italiano, alcuni lacerti del testo lucreziano, mentre, dal fondo della scena, compaiono alcune figure umane: un corpo, forse di bambola, a grandezza naturale, è portato, alla stregua di flessuosa presenza androide, da quattro ballerini, vestiti casual, con ordinarie tshirt e calzoni neri. I piedi sono scalzi e disegnano traiettorie sinuose, nel continuo gioco di piegamenti e plastiche figure cui le braccia dei danzatori applicano all’inerte corpo femminile: non è una bambola, bensì Ramona Caia, parrucca bionda, body rosso. La ragazza rappresenta una Venere di magrezza estrema ed elegante, fuscello leggiadro privo di propria volontà, giocato nelle figure che i quattro (Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna, Csaba Molnar e Daniele Ninarello) creano senza sosta, percorrendo in lungo e in largo lo spazio scenico.

La dialettica del dettato di Lucrezio, eterna e incrollabile, tra letizia e orrore, delizia e amarezza, assume la dimensione di mantra che la voce di Nada replica come figura ritornante, risacca logica galleggiante sulle note rumoristiche della colonna sonora.
Le figure umane sfruttano completamente la scena, spesso occupando i corridoi laterali, dietro i veli, che fasci di luce opportunamente direzionati evidenziano in qualità di spazio altro.
I ballerini entrano ed escono, sul flusso ossessivo, allucinatorio di musica e fonica vocale: i costumi mutano, ora Venere è un’apparizione bambina, ora indossa un vistoso costume di paillettes rubine, ora l’apparizione è quella d’una testa di cervo, inquietante e silenziosa. La partitura coreografica allestita da Sieni si alimenta di soluzioni sottili, armonizzando in modo sapiente i corpi degli attori nel giocare coi concetti di vuoto, trasfigurazione, mistero.
La sospensione del fantoccio divino che catalizza l’incipit dello spettacolo, discende progressivamente verso la terra, verso quella coscienza, gioisa e dolorosa al contempo, della natura delle cose, la loro inevitabile vischiosità, l’impasto ineluttabile e materialistico di positivo e negativo.

Le visioni, denudate, inquietanti, e sempre sorprendentemente delicate che Sieni consegna agli sguardi del pubblico sono silenti e profonde, a comunicare un che d’insondabile e muto, quasi offrendo sostanza corporea e, allo stesso tempo, materialisticamente spirituale al discorso di Lucrezio. Una natura delle cose misteriosa, ma impossibile da eludere per la mente dell’uomo, sia costui un autore del I secolo avanti Cristo o uno spettatore contemporaneo.

Visto il 12 dicembre 2008, a Prato, Teatro Fabbricone.

Spettacolo
La natura delle cose
ispirato all'omonima opera di Lucrezio
Regia: Virgilio Sieni
con Ramona Caia, Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna, Daniele Ninarello, Csaba Molnar, Virgilio Sieni
musiche: Francesco Giomi
voce narrante: Nada
Produzione: Teatro Metastasio Stabile della Toscana /Torinodanza/Compagnia Virgilio Sieni/Comune di Siena

mercoledì 3 dicembre 2008

Sillabari per un dizionario emozionale

(da teatro.org)
È sempre il solito, eppure è come se non si ripetesse mai. Paolo Poli porta a Firenze il suo nuovo allestimento, Sillabari da Goffredo Parise, serie di numeri intervallati da fintofrivole coreografie e rocamboleschi cambi di costumi. L’architettura della messinscena è collaudata, puntuale nella sua apparente semplicità: le fogge dei travestimenti firmati da Santuzza Calì risaltano il camaleonte che vive in questo “quasi centenario” (dice lui) istrione nostrano; le tele di Emanuele Luzzati sono piccoli capolavori di scenografia sovrapposti l’uno sull’altro, rinnovando rapidamente l’impatto visivo e rimandando costantemente a celebri immagini della pittura novecentesca. La scena si completa con un praticabile a scalini e tre ingressi laterali che costeggia i dipinti cangianti.

La struttura della performance è consueta nella peculiare declinazione poliana del cabaret: numeri brevi, canzoni rétro, balletti, ammiccamenti e allusioni che strappano sorrisi e applausi da parte di un pubblico che ama a priori questo vero grande del teatro italiano. La novità è, semmai, rappresentata dal rinnovato equilibrio tra i pezzi recitati in prima persona e quelli (siano danze o monologhi) affidati al bravo Alfonso De Filippis (aiutoregista e autore delle coreografie) e agli altri tre compagni di palco, Luca Altavilla, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco. Se sino a qualche tempo fa (si pensi a Sei brillanti, ultimo allestimento in ordine di tempo) gli attori della compagnia di Poli svolgevano la funzione di cloni scenici del capocomico, in Sillabari si nota una considerevole autonomia da parte di questi talentuosi attori: ovvio che il timbro stilistico sia quello del maestro e che il ventaglio espressivo vari dal grottesco alla malizia en travesti, ma i quattro si segnalano tutti per qualità e personalità, ognuno con lievi e differenziate sfaccettature, che vanno dal cubismo di certe espressioni (acuite ridicolmente dal trucco) alla minima caricata di certe canzonette intonate e ballate nelle buffe reinterpretazioni sonore di Jacqueline Perrotin.

I Sillabari sono minuti quadretti d’umanità, saggi di minimalismo emotivo, apologhi dalla morale indecifrabile: nelle storie di queste donne turbate e bovariane (e quanto è grandioso Poli alle prese con le parti muliebri), di questi incontri e racconti di vita, sta l’attrazione, forte e irresistibile, che l’artista prova nei confronti dei sentimenti. Figurine di un’Italia trascolorata nel ricordo, memorie sospese tra ingenuità simulata e malcelata malizia, canzoncine frutto del répechage teppista del miglior brillante che il nostro teatro recente annoveri. Afferma lo stesso Poli: «gli uomini d'oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie», ed ecco che Parise offre l’occasione per un divertente quanto enigmatico dizionario emotivo, che solletica intelletto e cuore del pubblico in sala. E se il “quasi centenario” (in realtà non ha “neppure” ottant’anni, dato che è del 1929) vorrà ancora regalarci altre perle come questa, non c’è che da starne allegri. Applausi convinti, e non tributati al solo nome.

Visto a Firenze, Teatro Puccini, il 28 novembre 2008.

Spettacolo
Sillabari
due tempi di Paolo Poli, da Goffredo Parise
con Paolo Poli, Luca Altavilla, Alfonso De Filippis, Alberto Gamberoni, Giovanni Siniscalco
scene: Emanuele Luzzati
costumi: Santuzza Calì
musiche: Jacqueline Perrotin
regia: Paolo Poli
Produzioni Teatrali Paolo Poli

lunedì 1 dicembre 2008

Le vacanze, antica ossessione

(da Giudizio Universale, n.29, dicembre 2007-gennaio 2008, ripubblicato nel n. 37, novembre-dicembre 2008)
Nel trecentenario della nascita di Carlo Goldoni, torna in scena la Trilogia della villeggiatura in versione integrale. Toni Servillo firma una regia briosa e un’interpretazione insolitamente loquace

A trecento anni dalla nascita di Goldoni, Teatri Uniti e Piccolo di Milano producono una Trilogia della villeggiatura molto attesa, e per l’importanza del testo (anzi, dei testi), e per quella di Toni Servillo, attore e regista il cui nome è ormai garanzia di qualità nel teatro e nel cinema di casa nostra. Presentare in un solo allestimento l’intero trittico è un’impresa, non foss’altro che per i precedenti illustri (Strehler nel ’54, Missiroli nell’80, Castri nel ’95), e perché Goldoni è autore feticcio del tempio scenico meneghino.

Dalle briose Smanie a Le avventure sino al Ritorno, la storia si snoda rappresentando una borghesia scriteriata sulla quale Goldoni ha smesso di porre le speranze: se ne La locandiera il commediografo veneziano è ancora convinto dai valori positivi della propria classe sociale, con la Trilogia affiora un disincanto amaro, la rassegnata constatazione del dilagare di parvenu insoffribili sempre più omologati a vizi e mode nobiliari.
La villeggiatura è mania tra le più perniciose, irragionevole scialacquìo da parte di famiglie “per bene” costrette ai debiti per non mancar la pugna del sociale apparire.

Servillo affronta i testi con mano lieve, guidando un’eterogenea e ottima compagnia: dai “vecchi” Paolo Graziosi e Gigio Morra a un nutrito gruppo di trentenni, passando per
alcuni fedeli compagni di scena. Spettacolo dall’incipit avvolgente, in cui l’ariosa vivacità goldoniana è resa con brio dalle smanie dei caratteri: Leonardo (Andrea Renzi) soffre
d’amore e gelosia per la volubile e volitiva Giacinta (Anna Della Rosa, da applausi), insidiata da Guglielmo (Tommaso Ragno) e desiderosa di partire per l’agognato carnevale vacanziero. Vittoria (Eva Cambiale), sorella di Leonardo, gareggia con la bella protagonista in fatto di moda (tema forte del primo testo) nell’equivoco intreccio destinato alla pur precaria ricomposizione finale. Servillo riserva per sé la parte minore di Ferdinando, lo scrocco: spettatore disincantato e cinico della vicenda, ciarliera pittima alla costante cerca di desco e patrimonio da mungere. Ruolo
“esterno”, a replicare in qualche modo la posizione del regista, che osserva, vivendo “alle spalle degli interpreti”: è dunque curioso vedere un attore dei silenzi quale il campano alle prese con un personaggio tanto loquace e fatuo cui fa da vittima (e spalla) la Sabina d’una smagliante Betti Pedrazzi.

Peccato che, nel secondo tempo, si smarrisca il ritmo, tradendo le aspettative iniziali: intaccata la puntuale tripartizione originaria, il meccanismo complessivo soffre, registra un calo di tensione riverberato pure nell’interpretazione.
Dinanzi a tre ore e oltre di recita (che, va detto, non pesano), due pause gioverebbero, mantenendo fedele la scansione dei testi.

La chiave di Servillo risparmia un’appuntita satira sociale e predilige i meccanismi teatrali dell’intreccio: il finale è però vibrante, non consolatorio, dominato da Giacinta, ennesima
eroina goldoniana, unico personaggio a prendere coscienza e cambiare, anteponendo il dovere al cuore.
Lo spettacolo potrebbe osare di più, ma non ci si pente d’averlo visto.

Visto a Milano, Teatro Grassi, 10 novembre 2007.

Spettacolo
La Trilogia della villeggiatura
di Carlo Goldoni
regia di Toni Servillo
con Anna Della Rosa, Gigio Morra, Paolo Graziosi, Andrea Renzi, Eva Cambiale, Tommaso Ragno, Toni Servillo, Betti Pedrazzi, Rocco Giordano, Salvatore Cantalupo, Chiara Baffi, Giulia Pica, Marco D’Amore
e Mariella Lo Sardo
scene: Carlo Sala
costumi: Ortensia De Francesco
luci: Pasquale Mari
produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa e Teatri Uniti

Giudizio: 2 soli
Scheda:
>Pregio:
gli attori
>Difetto: il ritmo nel secondo tempo
>Perplessità: a che pro l’uscita in platea dopo una scena? Dimostrare che a’mo fatto l’Avanguardia?
>Un Teatro Piccolo piccolo: la metropolitana che romba, una salabugigattolo e l’addetta stampa che tratta da pezzente chi chiede un accredito. Teatro d’Europa?