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a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 18 maggio 2009

Turandot e la fine del melodramma: sogno orientale o quotidianità novecentesca?

È un costante interrogativo del teatro, quello del rapporto tra messinscena e testo, tra fedeltà letterale, filologica, e un atteggiamento più libero, smaliziato, spesso animato dalla ricerca di altri livelli (non per questo gerarchicamente meno rilevanti) di fedeltà, in grado di mirare allo spirito di un’opera, al suo senso nel complessivo corpus d’un autore e al significato che può avere questa la sua messinscena nel qui e ora del palco. La questione è ancor più delicata quando viene affrontata in ambito lirico, dato che il melodramma, per sua stessa natura, prevede un rigido rispetto del dettato verbale e musicale, da cui è praticamente impossibile liberarsi. È quindi la regia il campo d’invenzione libera più aperto nell’allestimento di un’opera di teatro musicale, l’ambito in cui l’interpretazione diviene più evidente e, talvolta, dissonante da un “polveroso” rispetto dell’originale. Anzi: di quello che si pensa essere l’originale.

È per i motivi sopra elencati che abbiamo dunque assai apprezzato la Turandot data al teatro Goldoni di Livorno, in cui la regia di Henning Brockhaus si segnala per una profondità per niente paludata, un buon gusto coloristico e una vivacità dei movimenti tali da rendere piacevolissimo lo scorrere dei tre atti pucciniani. Le scelte, specie all’inizio, sono piuttosto radicali: ad “attutire il colpo”, ci pensa una breve ma puntuale, prolusione, da parte del consulente musicale della Fondazione Goldoni Daniele Salvini a collocare, sotto il profilo tematico e musicale, l’ultima fatica di Giacomo Puccini.

Turandot è, infatti, un testo chiave nel lavoro del compositore lucchese, l’ultimo indiscusso grande autore del melodramma che, proprio con questo capolavoro, sancisce di fatto la fine di una storia lunga di oltre tre secoli, quella dell’opera lirica. Ed è con Turandot, in pieno Novecento (vi lavora dal ’19 al ’24), che Puccini compie uno sforzo inedito, dal punto di vista sia della concezione scenica sia della composizione sonora. Contraddicendo la sua supposta vena realistica, nutrita di sentimenti, di storie profondamente umane, per il soggetto egli si rivolge al mondo favolistico orientale, filtrato dal settecentesco veneziano Carlo Gozzi: sceglie dunque una favola, una storia in cui i personaggi sono sì portatori di sentimenti, ma talmente assoluti e titanici, da sospettare che ci si trovi di fronte a presenze simboliche più che a caratteri in senso tradizionale. La storia dell’amore di Calaf per la crudele principessa e del sacrificio supremo che Liù compie per il proprio amato e desiderato sovrano travalicano i meccanismi “meramente” psicologici dei precedenti capolavori pucciniani, senza però contraddirli del tutto. È come se ci trovassimo in una nuova e altra dimensione del comportamento: Calaf è un innamorato ma anche qualcosa di più, un quid ulteriore, e così gli altri principali attanti del dramma, la stessa Turandot e, ovviamente, la vera eroina della storia, Liù. E non è, forse, un caso, che sia la morte di Liù a segnare definitivamente la conclusione della scrittura pucciniana: terminata la scena in cui la donna si sacrifica per amore e per un altro amore, il Maestro non scrive più niente. Non possiamo certo dire se per scelta o per la criticità delle condizioni fisiche, ma sta di fatto che oltre non andò, che l’opera fu terminata da Franco Alfano e che alla prima del 1927, Arturo Toscanini si fermò in quel punto e, rivolgendosi al pubblico, dichiarò, non senza sorpresa degli spettatori: “L'opera finisce qui perché a questo punto Puccini è morto”, senza più proseguire.

La partitura musicale di Turandot, al di là della più celebre aria divenuta, purtroppo, carne da best of, testimonia inoltre un’incredibile modernità, tutta pucciniana, pur nel rispetto della propria natura “italiana”: soluzioni melodiche e armoniche sorprendenti, talvolta per dissonanza talvolta per quella morbidezza plastica, quella sinuosità potente e mai scontata che è matrice principale della scrittura del Maestro.

Di fronte alla densità d’un simile capolavoro, è quindi da encomiare lo sforzo registico di Brockhaus, quell’incipit svolto su una marina versiliese, con tanto di gelataio e di passeggio di primo Novecento: l’irruzione dei clown, che suonano un gong, prima e non ultima chinoiserie di un’opera basata sul gusto per l’orientale all’epoca in voga da vari decenni, che distribuiscono maschere, costumi (firmati da Stefania Tosi) e ruoli, sembra ricuperare Puccini alla sua dimensione vera e più intima: la scrittura per il teatro, com’egli stesso aveva confidato all’amico Adami. Puccini è infatti indissolubile dalla scena, dalle invenzioni visive e dai movimenti, è teatrale, assai più (e meglio) di molti illustrissimi suoi precedessori: per questo l’inizio di Brockhaus, pur forse troppo lungo, è bello, indovinato e, conditio sine qua non d’ogni “invenzione” registica, non gratuito.

Da qui, si dipana un dramma vivido, ricco di movimenti, con un carrozzone centrale che diviene simbolo dell’intrattenimento circense e palazzo regale, alle cui spalle campeggia un nuvoloso cielo marittimo che sembra uscito dal pennello d’un macchiaiolo, frutto del lavoro scenografico di Ezio Toffolutti di concerto con la già citata Stefania Tosi.

Il clown, l’ottimo Jean Méning, distribuite le maschere, diviene “coreografo in scena”, accompagnando i movimenti, interagendo coi cori, i danzatori, i cantanti stessi. A questo proposito, ottima prova di Giovanna Casolla, Turandot potente e spietata, indomabile, così come quella del coreano Francesco Hong che rende un Calaf forse troppo statico ma sicuro nelle impennate d’una partitura assai impegnativa. In tema di clownerie, sono irresistibili le soluzioni studiate per Ping, Pong e Pang (rispettivamente l’ottimo baritono Walter Franceschini, assieme ai due timbri tenorili di Max-René Cosotti e Cristiano Olivieri), veri e propri mattatori, al pari di Méning, della messinscena, mentre Rachele Stanisci, cui è affidata la complessa parte di Liù, è assai brava nella resa sentimentale del carattere, ma forse un poco sottotono dal punto di vista della forza vocale. Non sembra convincere, purtroppo, Elia Todisco in un Timur cui avrebbe giovato una maggior pulizia, a fronte d’una notevole ed encomiabile presenza scenica.

La direzione dello slovacco Oliver von Dohànnyi è ordinata, i passaggi fluidi e potenti, così come ottimo l’apporto, sia musicale sia scenografico, del Coro del Teatro Sociale di Rovigo diretto da Giorgio Mazzuccato. Qualche perplessità, invece, destano le coreografie firmate da Maria Cristina Madau, con qualche indulgenza sincretica in eccesso e non sempre un’adeguata sicurezza d’esecuzione.

La storia giunge alla morte di Liù, ultima grande eroina pucciniana, ultima pagina vergata dal Maestro: d’incanto, i personaggi, smettono i luccicanti panni d’una fiaba orientale, riacquistando la propria dimensione quotidiana delle mise d’inizio Novecento. Le note di Alfano conducono i protagonisti al matrimonio civile, come a dire: Puccini è morto, e con lui le mirabilie del grande teatro operistico, nato a Firenze nel Seicento e morto, non distante dal capoluogo toscano, tre secoli dopo.

Visto a Livorno, Teatro Goldoni, il 15 maggio 2009.

Spettacolo - Opera lirica
Turandot
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
musica di Giacomo Puccini, testo di Giuseppe Adami e Renato Simoni; musiche terminate da Franco Alfano
con Giovanna Casolla (Turandot), Francesco Hong (Calaf), Rachele Stanisci (Liù), Ping (Walter Franceschini), Pong (Max-René Cosotti) e Pang (Cristiano Olivieri), Elia Todisco (Timur), Jean Méning (clown)
orchestra: Filarmonica Veneta G. F. Malipiero
direzione orchestrale: Oliver von Dohánnyi
coro: Coro del Teatro Sociale di Rovigo diretto da Giorgio Mazzucato
scenografia: Ezio Toffolutti
costumi: Stefania Tosi
coreografie: Maria Cristina Madau
regia: Henning Brockhaus
produzione: Opera di Roma - Teatro Sociale di Rovigo; in coproduzione con Fondazione Teatro Goldoni, Teatro dell’Opera Giocosa di Savona,
Teatro Sociale di Trento, Teatro Comunale di Bolzano, Teatro Comunale di Vicenza

sabato 9 maggio 2009

Frankestein, o la mostruosità dell'esistenza

Il Novecento ha variamente sfruttato Frankenstein, al cinema, in tv, a teatro, spesso banalizzandone la portata, calandolo in fuorvianti atmosfere orrorifiche, facendo leva sulla mostruosità più accessibile ed evidente. Di rado si è toccata la questione più delicata, e tuttora irrisolta, della creazione artificiale di un essere vivente e delle conseguenze del caso. In questo senso, l’operazione di Stefano Massini, autore cui l’attributo giovane può suonar del tutto riduttivo (è un complimento), ha certo una sua validità, ribadita pure dalle note di regia che accompagnano la prima assoluta dell’allestimento.

Un grande schermo sul fondo della scena si staglia d’un barlume lentissimo, offrendo il profilo sfocato d’un volto non si sa se umano o deforme. La peculiare voce di Sandro Lombardi, non bella in sé, ma avvolgente, un poco flautata e oltremodo magnetica, azzarda un racconto franto, un discorso sulla nascita coatta e la tragicità dell’esistenza in quanto tale. Le parole smozzicate, non del tutto comprensibili, lasciano percepire il dolore d’un venire al mondo non solo forzato, ma gratuito, non richiesto. Le asserzioni di questo Frankestein dolente sono parole buone non solo per un essere aberrante della sua risma: parlano a tutti noi, riecheggiando in qualche modo il satiro Sileno catturato da Re Mida, in un mito greco riportato da Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia: il segreto dell’esistenza umana è non essere nati o, una volta venuti al mondo, morire il prima possibile.

La bella scena polivalente creata da Laura Benzi accoglie quindi da una botola pavimentale l’ingresso dei personaggi: quadretto di famiglia con partoriente, assistita dal marito e coadiuvata da un’ostetrica ciarliera. La storia di Victor (interpretato da Daniele Buonaiuti) viene dunque ripercorsa, stravolgendo, di conseguenza, la narrazione del romanzo: è il futuro dottor Frankestein, cocciuto Dedalo alla ricerca degli ultimi segreti per sconfiggere la morte, al centro della vicenda, in un percorso diretto alla terribile creazione. Sorta di Stationendrama, questo Frankestein massiniano offre stralci salienti della vita di Victor intervallati dai monologhi della bestia, della creatura, a rinfacciare al padre la mostruosità ultima e irreversibile: avergli dato la vita.

La partitura drammaturgica, ricca di spunti e riferimenti mitologici o religiosi (gustosa la parodia del giardino dell’Eden rappresentata dalla biblioteca paterna, con una e una sola sezione di libri "proibiti") ha il merito innegabile di non semplificare la questione frankensteiniana, ma, da questo punto di vista, l’obiettivo polemico, se così è concesso di dire, non è certo l’originale letterario, capolavoro assoluto in un secolo così vivido e strabiliante per la letteratura inglese, quanto la sua ricezione novecentesca. Non si vuol certo deprezzare uno spettacolo ben condotto, con qualche pecca risolvibile nell’interpretazione attorica, quanto però ravvisare, eventualmente, alcuni margini (ancora) inespressi del testo e dell’allestimento. Rapportarsi ai classici, tale è da considerare il romanzo della Shelley, è operazione da incoraggiare e che Massini pratica spesso (il Van Gogh de Il rumore assordante del bianco è, del resto, anch’egli un classico, latu senso, della nostra cultura), ma oltre al coraggio di interrogarli e/o stravolgerli, il risultato dovrebbe essere di aggiungere, evidenziare, portare alla luce degli aspetti se non originali, almeno ignoti dell’opera o dell’artista preso come riferimento. Pensiamo, a titolo d’esempio, all’inesauribile serie d’Amleti beniani, alle operazioni scespiriane di Leo, alle (de)costruzioni testuali e teatrali che abbondano nell’ambito scenico del miglior teatro italiano degli ultimi cinquant’anni. Di fronte a questi confronti, del tutto giustificati poiché Massini è, lo crediamo, teatrante di razza, questo Prometeo moderno rischia d’impallidire, pur nell’evidenza dei suoi meriti: non riesce nell’impresa di graffiare l’anima dello spettatore, imprimendo nel ricordo un’impronta di dolore, che l’accompagni anche fuori dal teatro, e nei giorni successivi.

Questo Frankestein, dalla realizzazione visiva godibile, dalla scrittura intensa e ben calibrata, dall’interpretazione discreta, ma ancora forse in fieri (da citare in positivo, l’energico padre di Amerigo Fontani, forte e ben deciso nell’arginare, senza successo, gli ambiziosi progetti del figlio), rischia purtroppo di mancare di sangue, finendo per assimilarsi ad altre visioni, altri spettacoli non male ma, alla fine, neppure troppo bene e sappiamo che questo è un risultato ben distante dalle giustissime intenzioni dei suoi realizzatori.

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, 8 maggio 2009.

Spettacolo
Frankestein ossia il Prometeo moderno
ispirato liberamente all'omonimo romanzo di Mary Shelley
con Luisa Cattaneo, Silvia Frasson, Amerigo Fontani, Alessio Nieddu, Simone Martini,Antonio Fazzini, Roberto Posse e Sandro Lombardi (in video)
testo e regia: Stefano Massini
produzione:
Teatro Metastasio Stabile della Toscana