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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

giovedì 20 dicembre 2007

Il burattino prigioniero del teatro

(da loschermo.it)
LUCCA - Dopo l’anteprima della scorsa stagione, il
Teatro del Carretto torna al Giglio con Pinocchio, avvincente riflessione sul teatro e sul senso della fiaba italiana più celebre al mondo. Lo spettacolo affronterà un’imminente tournée che porterà la compagnia a esibirsi, nel gennaio venturo, sulle tavole del prestigioso La Mama’s Theatre di New York

Una gradita sorpresa il Pinocchio firmato da Maria Grazia Cipriani: l'anteprima del dicembre 2006 ci aveva lasciata qualche perplessità, sfocata e resa vaga nella memoria dal passare del tempo. Lo spettacolo visto ieri sera sembra invece assai cresciuto, in energia, scorrevolezza e potenza evocatrice, segno che i mesi di prova sono stati proficui dato che, confermano gli stessi attori, nessuna modifica strutturale è stata apportata al lavoro. Si è del tutto persa una certa sensazione di lentezza, quasi d'inerzia, sostituita in modo felice da un ritmo scenico efficace, e nelle sequenze della storia e nei meccanismi degli affiatati interpreti.

Le avventure di questo Pinocchio si dipanano in un unico ambiente, lugubre e polifunzionale, un'arena inferica, subito dominata dalle sonore scudisciate d'un tirannico domatore alle prese con un corpo sottomesso, umiliato. Quest'ultima presenza assume presto le parole collodiane attribuite a Geppetto per poi convertirsi nel protagonista, Pinocchio. La storia non si scrive, non si recita, non s'inscena: essa ci scrive, ci recita, ci mette in scena, attraversandoci, così come accadde più d'un secolo fa a un medio scrittore toscano che, senza quel burattino manifestatosi attraverso la sua penna, sarebbe di certo ignoto ai più.

La struttura scenica, di pareti scure a racchiudere il palco, s'anima partecipe del gioco teatrale, fornendo entrate, uscite, finestre e feritoie da cui spuntano indifferentemente oggetti e attori con sembianze ora d'animale ora di maschera. Lo spazio è prigione, arena, ring, cui i cambi di luce, dai toni lunari del Campo dei Miracoli alle cromature più intense e circensi nel Paese dei Balocchi, conferiscono continui slittamenti semantici.

Il tutto è dominato da Giandomenico Cupaiolo, sorprendente per atletismo attorico: il suo Pinocchio è un ciarliero moto perpetuo, le cui reiterate cantilene acute rappresentano una chiave musicale interna al personaggio. La guittezza fisica s'accompagna a scarti continui nell'uso della voce, che va dal patetico-parodistico (quando intona Ridi pagliaccio...) al buffonesco circense: maschera fuggevole, di retrogusto amaro, che non si sottrae all'ambiguità d'un accennato amplesso con la Fata-Bambina, memore, in certe modulazioni, della lezione di Carmelo Bene, patrimonio ormai acquisito in fatto di messinscene collodiane. Da applausi i perturbanti duetti con Elsa Bossi, fata Turchina, infanta, donna, madre e marionetta, i cui cambi di voce e movenza al mutar di personaggio (pensiamo alla scena in cui il burattino malato viene visitato dai tre dottori) sono prove di maestria interpretativa, distanti da certi manierismi, moneta corrente nella recitazione per lo più psicologica dei nostri teatri.

La storia, si diceva, è rispettata in senso filologico e nella sequenza degli episodi: costanti sono la presenza del protagonista e la scenografia che, ben al di là degli altri bravi attori, rappresenta il reale interlocutore-sparring partner del burattino. I momenti di (apparente) distensione sono franti da violenti cambi di scena, amplificati d'intensità dall'effettistica sonora: le marce di Julius Fucik s'alternano a Puccini e Leoncavallo per annichilirsi e svanire all'irrompere d'un nuovo quadro.

L'evoluzione della vicenda è nota: Collodi condanna la sua migliore creatura a una morte violenta, al macello più feroce, la rinuncia al burattino in favore del bambino, adesione al modello del bravo borghese in cui la scuola è propedeutica del lavoro e della produzione. Non si rese forse conto l'autore del libro italiano più popolare del mondo, Commedia dantesca esclusa, del prodigio che l'ispirazione gli aveva (casualmente?) recato in dote: Pinocchio, benché invenzione tardo ottocentesca, ha la potenza ctonia delle maschere carnevalesche, la loro demonica irriducibilità, quel precipitato di forza che gli Arlecchino e i Pulcinella traggono dal fatto d'esser spiriti inferici stornati al comico dalla cultura popolare. In tal senso, la scena chiave del testo, terribile ed efficace, è la recita alla corte di Mangiafuoco, cortocircuito semantico in cui le maschere riconoscono Pinocchio quale fratello, l'acclamano, mettendolo infine nei guai. È questo sintagma a sancire il legame profondo e irrinunciabile che lega il burattino collodiano al mondo del teatro, al suo rapporto intimo con la morte.

Al termine dell'allestimento, che alterna il grottesco espressionismo plastico di corpi e maschere alle proiezioni oniriche in grado di trasformare di continuo l'angusto spazio scenico, è significativo, quindi, il finale proposto da Maria Grazia Cipriani: in un'atmosfera dimessa, desolata, quella presenza ambigua che fu marionetta impertinente e bugiarda scopre le carni della propria novella figura d'uomo. D'intorno le altre maschere, affrante e atterrite dall'inaccettabile visione. Quel corpo, ormai quotidiano, guadagna mesto, per la prima e unica volta, l'uscita di scena: il teatro, luogo liminare e soglia del mondo ebbro dominato dal dio e dal Gioco, non è spazio che gli uomini possano abitare.
Si replica stasera. Sabato 22 dicembre lo spettacolo sarà al Teatro Niccoli di San Casciano Val di Pesa, a gennaio le repliche al La Mama’s Theatre di New York . In seguito, il 31 gennaio a Grossetto (Teatro degli Industri), dal 6 al 10 febbraio al Metastasio di Prato e il 22 febbraio al Guglielmi di Massa.

Spettacolo
Pinocchio da Carlo Collodi
Adattamento e regia: Maria Grazie Cipriani
Scene e costumi: Graziano Gregori
Suono: Hubert Westkemper
Luci: Angelo Linzalata
con Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Jonathan Bertolai, Carlo Gambaro, Luana Gramegna
Fotografie realizzate da Filippo Brancoli Pantera

lunedì 17 dicembre 2007

"Biondo 901": storia e ossessioni di un uomo ordinario

(da loschermo.it)
LUCCA - Alessandro Bertolucci ha presentato presso il teatro di San Girolamo un monologo noir d’ispirazione fumettistica. Tra fughe e flashback, la confessione intima di un personaggio in bilico tra variabili calcolate e accadimenti imprevedibili.

È con una certa curiosità che abbiamo assistito a Biondo 901, allestimento che Alessandro Bertolucci s’è cucito addosso, da regista e interprete unico, basato sul testo d’ispirazione milleriana di M/Merisi, nome d'arte di Alessandro Zannoni. La curiosità era giustificata sia dal gran parlare circa il "ritorno" a casa dell’attore lucchese sia dalle presentazioni che ne erano conseguite e che hanno contribuito a riempire lo spazio scenico.

Lo spettacolo ha inizio con la voce fuori campo del protagonista, amplificata da un sistema microfonico: le parole, sconnesse, affaticate, frante, narrano di una fuga misteriosa, disperata, cui fanno da supporto una sequenza di diapositive proiettate sullo schermo collocato sul fondo del palscoscenico. Non si sa chi sia a parlare, non si capisce quale sia esattamente la situazione, tutto è avvolto da un alone misterioso, riverberato dalle tonalità chiaroscure della sequenza a cura, come il resto della scenografia, di Beatrice Meoni.

La voce parla in prima persona e, lentamente, affiorano le prime informazioni, distillate in un progressivo svelamento. Il racconto s’interrompe: occorre partire dall’inizio della storia.
Luce. Il flashback. L’attore entra in una scena in cui due sedie da parrucchiere e altri ammennicoli all’uopo suggeriscono l’ambientazione. Giordano, questo il nome del personaggio, parla direttamente al pubblico, celia sui propri inciampi discorsivi, in un rapporto cosciente con quel diaframma superato e insuperabile che è la quarta parete.
Si racconta: uomo ordinario, parrucchiere per signora, single, vita normale cui contribuiscono saltuarie tresche con qualche cliente ben disposta. Sino a che non arriva, nel racconto, lei, la ragazza russa dai capelli Biondo 901 (il nome preciso di una tonalità di colore), misteriosa e affascinante che allaccia col protagonista una storia a metà tra il thriller psicologico moderno e il noir. La situazione, come prevedibile, precipita, riallacciandosi all’inseguimento armato d’inizio spettacolo per poi trovare una conclusione quasi beffarda che, per gli amanti delle trame e delle sorprese, non staremo qui a svelare. Giordano, che dalla vita desume regole ("Primo: non scopare con le clienti"), indicazioni, in una prospettiva scientifica dell’esistenza, viene fregato dal caso, da una delle tante, infinite variabili che, pur avendo considerate, non è possibile scongiurare.

Il lavoro offre però il fianco a numerose osservazioni critiche, a partire da un testo a tratti incoerente, che non mantiene le promesse fumettistiche esplicitate dagli stessi allestitori, restando di molto lontano dalla profondità dark delle storie di Frank Miller. La vicenda di Giordano sembra molto più vicina a certi racconti minimi e minimalisti, senza possedere la stilla perturbante delle short novel di Carver, tanto per intenderci. Il teatro, e l’arte in genere, necessitano di un’urgenza intima, una necessità interna alle opere che, in questo caso, si fatica a trovare nella vicenda di un barbiere viareggino (il problema non riguarda né il barbiere né la sua provenienza…).
Per contro, recitazione e scelte registiche non sembrano risolvere i problemi portati in dote dal testo: Bertolucci pare non aver deciso cosa fare di questo personaggio, sospeso a metà tra un comico accennato e velleità fuori portata. Chiariamo: lo scopo, ci sembra, dovrebbe essere il portare in scena una vicenda veloce e feroce, in linea con certo cinema e certa letteratura contemporanei, sullo stile del Fightclub peraltro citato dallo stesso Giordano. In realtà, il risultato è un altro e, di certo, non quello desiderato, per cui s’assiste a un racconto caratterizzato da tempi talvolta involontariamente cabarettistici che fiaccano non poco la forza intrinseca di un monologo in cui un personaggio si consegna in pasto al pubblico. Inoltre, la tecnologia, lungi dall’essere nemica del teatro, dovrebbe essere però sempre giustificata dalle esigenze della messinscena, appropriata al contesto. Sovrapporre immagini o, peggio, scritte proiettate nel corso del monologo finisce in più d’un caso per essere aggiunta del tutto inutile, sottolineatura che tradisce una certa ingenuità. Se di una soluzione si può far a meno, allora significa che non dev’essere messa in atto.
L’impressione generale risulta sghemba, Biondo 901 sembra uno spettacolo bisognoso d'una profonda riflessione per poter migliorare e crescere, magari aiutato anche da una migliore gestione dell’impianto fonico, giacché la voce amplificata di Bertolucci innescava risonanze indesiderate che compromettevano l’intellegibilità del testo già a metà platea.

Visto a Lucca, teatro San Girolamo, 16 dicembre 2007.

Spettacolo
Biondo 901
dal romanzo omonimo di Alessandro Zannoni
con Alessandro Bertolucci
scene: Beatrice Meoni
luci: Alessandro Bianchi
audio: Stefano Betti
regia: Alessandro Bertolucci
Produzione e organizzazione - Experia associazione culturale

venerdì 14 dicembre 2007

Gomorra: anatomia di uno sfacelo

La stagione teatrale pratese presenta al Fabbricone lo spettacolo tratto dal libro di Roberto Saviano che, nella scorsa stagione, ha fatto luce sulla camorra e i suoi meccanismi. L’allestimento, prodotto dal Teatro Mercadante di Napoli , firmato dal regista Mario Girardi e dallo stesso Saviano, rappresenta il tentativo non banale di mettere in scena un saggio scritto in forma di romanzo

Il teatro è una strana forma d’arte, politica sin nel midollo, giacché riguarda sempre e comunque un insieme di persone che condividono uno spazio e un tempo dati, rivolgendosi sempre a un’idea di comunità. Al contempo, però, anche il teatro, come ogni altra espressione artistica, nutre con il contenuto sociale e politico un rapporto mai scontato: un ideale, per quanto buono e condiviso, non basta a garantire un’opera d’arte e, anzi, se assume le sembianze di un ricatto morale rischia quasi sempre di rovesciare nei fatti le intenzioni più o meno in buonafede del suo autore. Si può dire che i grandi capolavori pongano domande agli spettatori anziché fornire risposte, evitando la presunzione di voler convincere qualcuno appaltandogli un’opinione preconfezionata.

Non è facile immaginare come si possa mettere in scena Gomorra, il libro con cui il trentenne Roberto Saviano ha portato alla luce il fenomeno della camorra contemporanea, vendendo oltre un milione di copie. Non è facile perché già l’opera letteraria ha una strana e avvincente natura: si tratta di un saggio, uno spaccato economico e antropologico dedicato ai meccanismi profondi del fenomeno camorristico, ma nello stesso tempo ha la forza e l’intensità di un racconto intimo, lirico e romanzesco insieme. Per Saviano la camorra è un’ossessione, una malattia: capire i suoi gangli, penetrare nella spaventosa razionalità dei suoi intrecci è una necessità interiore oltre che intellettuale. E così, le pagine del libro assumono toni differenti e contrastanti: trasudano il sangue delle vittime e quello, pulsante e feroce, dell’autore. Gomorra è un corpo a corpo lancinante, di un dolore profondo che riguarda una terra intera, sfasciata dalla mafia e, soprattutto, dalla rassegnazione: per questo ha avuto un incredibile successo. È nella compenetrazione di sofferenza e ragione, di lucida passione per dirla con Pasolini, che il libro rappresenta un piccolo miracolo di letteratura, al di là della lingua talvolta sghemba, sfuggente.

Tradurre in termini teatrali un oggetto simile è un’impresa. Difficilissimo e forse pure rischioso. Non per la ricezione del pubblico, ché certi argomenti possono persino tirare, ma per la grande differenza di modello comunicativo. Un libro come quello di Saviano sarebbe potuto essere pure perfetto per il teatro di narrazione, forma che sulla scena nazionale rappresenta tuttora un filone forte, con fenomeni importanti anche dal punto di vista commerciale.
Girardi e Saviano hanno però preferito l’azione, la drammatizzazione, e di questa scelta bisogna esser loro grati.

S’inizia con una licenza dal libro: la cornice dello spettacolo è costituita da due discorsi di Roberto Saviano, interpretato da Ivan Castiglione. Il primo è quello, ormai famoso, pronunciato nella piazza centrale di Casal di Principe, quello del “Camorristi, non siete uomini!” gridato dallo scrittore proprio nel cuore della potere criminale. Lo spettacolo inizia così, cl’attore di fronte a un microfono: “Si sente?”, chiede, e il pubblico in sala solo dopo qualche secondo percepisce che la domanda era rivolta alla piazza e non alla platea. Di seguito, però, sono scene drammatizzate, teatro vero che traduce il racconto del libro.

I personaggi animano una scenografia che rappresenta un cantiere edilizio, in cui le impalcature di tubi Innocenti hanno funzione di praticabili. Il cemento è il sangue vivo del potere camorristico: i manovali casertani hanno costruito l’Italia e i loro capi hanno presto capito come si vincono gli appalti, come si muovono i soldi nel nostro paese. In questa scena, i personaggi sono terribili e buffi al tempo stesso: strappano risate con il loro napoletano stretto, la guittezza dei movimenti ora scimmieschi ora da furbi pronti a menar mani e puntar pistole. Il violento e spavaldo Pikachu (il bravissimo Francesco Di Leva), il guappo Kit Kat (Adriano Pantaleo) e il rampante laureato Mariano (Antonio Ianniello) rappresentano tre diversi tipi umani di reclutamento nella macchina del clan: tutti, però, aderiscono alla camorra per mancanza di alternative o, meglio, perché non hanno il coraggio di volersi opporre.

Roberto, l’intellettuale, ‘o scrittore, è infatti un interlocutore strano per questi: non è dei loro, anzi, si oppone, li critica, li ascolta e scrive sui giornali ciò che gli confidano. Perché, nonostante tutto, riesce a parlare la loro lingua, ad ascoltarli, guadagnandosene la fiducia. È però Pasquale, lo smagliante Ernesto Mahieux (noto al grande pubblico per il successo cinematografico ne L'imbalsamotore di Matteo Garrone), a rappresentare il caso forse più eclatante: l'anziano e bonario sarto viene sfruttato dai clan sia come mano d’opera sia come istruttore di manovalanza tessile cinese. Quando vede Angelina Jolie indossare un proprio vestito in occasione degli Oscar, lo sconforto di vedere il proprio lavoro non riconosciuto, il dolore di non poter raccontare neppure alla moglie di essere realmente uno dei più grandi sarti al mondo sono talmente grandi da indurlo a cambiare vita, liberarsi dalla camorra e mettersi a fare il camionista. Perché non c’è speranza. Se si nasce in certi luoghi, anche raggiungendo i livelli mondiale in un mestiere, le possibilità di farcela sono meno di zero.A visionare, controllare l’operato di questi disgraziati, il distinto, azzimato Stakeholder (Giuseppe Miale di Mauro), colui che salda la delinquenza con l’alta finanza, i vasci con la Bocconi.
È questo il personaggio chiave per il discorso sociopolitico di Saviano: la camorra vince perché interpreta meglio di chiunque altro il liberismo selvaggio, il capitalismo contemporaneo, il bisogno endemico che il mercato ha di deregulation completa. Ciò che non possono fare i governi, le leggi e le riforme del lavoro, lo fa la camorra, senza neppure incontrare opposizione sociale. Lavoro a cottimo, paghe da fame, sfruttamento deregolamentato: panacea per chi lucra, grandi marche comprese, grandi industrie comprese. Questo Saviano mette in luce con piglio anatomico: la cancrena fatale di un sistema in cui non c'è differenza tra produzione legale e illegale, in cui le grandi aziende appaltano il lavoro sporco alla delinquenza organizzata.Per combattere la camorra è necessario dunque capirla, studiarne i meccanismi, interpretarne gli snodi: si deve seguire il cemento, la droga, le armi, i vestiti e, ovviamente, il sangue.

Lo spettacolo scorre, gli attori sono affiatati, la scenografia suggestiva, alcuni effetti di luci paiono efficaci e lo stesso si può dire per le immagini proiettate su un telo che, all'occorrenza, i riflettori rendono invisibile. Non si può dire che la Gomorra teatrale sia un esperimento fallito. Rispetto al libro, manca di un quid, quel senso d'urgenza, d'ossessione, d'attrazione morbosa per il fenomeno delinquenziale che Saviano riesce a infondere al racconto e che costituisce la cifra più forte dell’opera letteraria. Sul palco questo aspetto passa forse in secondo piano, ed è un peccato perché lo spettacolo potrebbe e può ancora crescere: non ci si pente, però, d’averlo visto, e non è poco.

Si replica al Fabbricone sino a domenica, poi il 17 gennaio lo spettacolo sarà nuovamente nelle vicinanze, al Francesco di Bartolo di Buti .
(da www.loschermo.it)

Spettacolo
Gomorra
di Roberto Saviano e Mario Gelardi
regia Mario Gelardi
scene Roberto Crea
costumi Roberta Nicodemo
musiche Francesco Forni
video Ciro Pellegrino
con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Antonio Ianniello,Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleoe e la partecipazione straordinaria di Ernesto Mahieux
Tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano (Arnoldo Mondadori Editore) e da un’idea di Ivan Castiglione e Mario Gelardi
Produzione: Mercadante Teatro Stabile di Napoli

lunedì 10 dicembre 2007

Marcorè o Gaber: a chi gli applausi?

(da loschermo.it)
LUCCA - Neri Marcorè ha presentato in questi giorni (martedì 4 al Politeama di Viareggio, sabato 8 e domenica 9 al Puccini di Firenze) Un certo Signor G , tratto dalle opere di Giorgo Gaber e Sandro Luporini. Lo spettacolo, diretto da Giorgio Gallione, rappresenta una carrellata quasi antologica di monologhi e canzoni, sondandone la resistente attualità, tra memoria del passato e sguardo sul futuro. Un esperimento, però, riuscito solo in parte

Compiere un tributo, a teatro ancor più che nella musica leggera, significa elevare l'oggetto rappresentato a un rango "universale": Shakespeare viene giustamente messo in scena benché il Bardo sia trapassato da quasi quattro secoli e lo stesso accade con Molière, Pirandello, Ibsen e Sofocle, tanto per pescare qua e là nella nostra storia scenica. La natura stessa del teatro, che non è un medium come cinema e televisione bensì un "oggetto" in sé, rende lo spettacolo, ossia l'opera d'arte vera e propria di questa disciplina, come qualcosa di caduco, fittizio, che s'esaurisce nell'attimo stesso del farsi. Un quadro è un'opera a suo modo "eterna" (fatta salva la manutenzione di tele e tinte), una scultura idem, così gli edifici architettonici (terremoti a parte) e anche i libri: uno spettacolo teatrale, invece, svanisce all'apparire, lasciando solo tracce altre da sé. Foto, testi, commenti, recensioni sono soltanto documenti che mai coincidono con lo spettacolo, ricostruibile soltanto con un procedimento "archeologico", sommando testimonianze e usando l'immaginazione.

Riprendere il repertorio di Giorgio Gaber, dunque, da un lato significa riconoscere in esso una forte natura teatrale, in grado di reggere al tempo e, soprattutto, al cambio d'interprete. Essendo Gaber un attautore, oltre che cantante, cantautore e quant'altro, il dilemma sulla sua opera è sempre stato se essa non fosse strettamente e indissolubilmente legata al suo interprete, al suo volto indimenticabile, ai suoi tempi comici acuti e densi di senso. D'altro canto viviamo un'epoca dalla vocazione industriale e commerciale, e sarebbe da ingenui negare che certi nomi defunti, su tutti proprio Gaber e De André, siano particolarmente appetibili dal mercato, pronto ad accoglierne dischi più o meno inediti e tributi d'ogni sorta a scadenze pressoché fisse.

L'operazione svolta da Neri Marcorè sotto la regia di Gallione, quindi, dev'essere analizzata sotto un duplice profilo: come spettacolo in sé, ossia come allestimento dal titolo Un certo Signor G e al contempo come performance che intesse con il non dimenticato originale tutta una serie di rimandi e inevitabili confronti. Gaber ha lasciato numerosi dischi, svariati filmati, e quindi il minimo che gli stessi Marcorè e Gallione possano aspettarsi è un confronto con il modello principale.

Lo spettacolo, dunque: non è una ripresa testuale d'un particolare allestimento gaberiano, quanto, piuttosto, una sorta d'antologia dell'artista. Se l'incipit coincide con il brano Il Signor G nasce (1970), i pezzi successivi sono tratti liberamente da tutta la produzione Gaber-Luporini. E questa è una prima grande differenza rispetto al modello: con l'eccezione di qualche best of come Il teatro-canzone (a Lucca nel 1992), Gaber e Luporini allestivano spettacoli originali, con strutture "forti", con un inizio e una fine. Polli d'allevamento (1978) era una messa in scena in tutto differente dal precedente Libertà obbligatoria (1976) o da Far finta di essere sani (1973): poteva accadere che qualche brano fosse ripreso, ma il senso era mettere in scena un'opera che potesse reggersi sulle proprie gambe. Spesso gli snodi scenici erano per niene scontati, talvolta controversi, non d'immediata leggibilità: pensiamo, per esempio, a certi passaggi di Anni affollati (1981), ma anche ad alcuni momenti degli spettacoli citati poco sopra.

Un certo signor G sembra invece voler rappresentare una specie di bonaria crestomazia del teatro-canzone: c'è, a cercarla, la storia di quest'uomo, spaesato, dubbioso, cattivo e contraddittorio che rappresenta(va) l'altra faccia di Giorgio Gaber. Un personaggio "piccolo" alle prese con la confusione attuale (come d'allora) di quella "nave" allo sbaraglio che è la nostra società, con le sue mode, i suoi ideali irraggiungibili, le sue chimere. Senza ancore di salvataggio, nel riflusso come nell'impegno, tanto meno nell'amore: il tarlo di Gaber-Luporini mina ogni certezza, ogni conclusione, iniettandovi il dubbio beffardo, l'insinuazione che tutto ciò che noi scambiamo per bontà o altruismo non sia che una forma rovesciata e infida di egoismo spudorato. Questa la costruzione del racconto che Marcorè esplicita recitando e cantando, accompagnato da due pianiste all'interno di una strana casa le cui porte e finestre sono chiuse da deboli membrane di carta stampata destinata a esser ridotta a brandelli. Il finale, con Se ci fosse un uomo (1999), sembra tenere aperta la questione che Gaber aveva posto senza, ovviamente, risolverla. Preso come allestimento a sé, dunque, Un certo signor G mostra qualche debolezza, sebbene l'attore riesca ugualmente a convincere, seppur non pienamente.

La questione si complica non poco al momento d'operare un confronto col modello originale: dato che certe operazioni si fanno anche "cavalcando" il nome dell'artista rappresentato, è inevitabile sottrarsi alla comparazione. Marcorè ha voce pulita, a tratti ben impostata, ma difetta di profondità nell'interpretare quello che Gaber riusciva a rendere polisemantico, densamente contraddittorio. Più a proprio agio con i monologhi che con le canzoni, Marcorè è totalmente privo della maschera di Gaber, quel volto corvino da Pulcinella incorniciato dalle ciglia discendenti, quasi a simulare perennemente un pianto cui il sorriso, bello e beffardo, faceva da ironico contraltare. Marcorè ha invece un'aria pulitina, da impiegato comunale, una specie di mister Bean irresistibile in certi andamenti marionettistici, ma carente di quella profondità da filosofo ignorante che era la cifra arrabbiata e principale del defunto cantautore.

Il confronto, se regge forse sui monologhi, è una Caporetto appena si tocca la musica: Gaber era prima di tutto un cantante, un fior di cantante. Ascoltarlo dal vivo equivaleva a sentire esibizioni perfette, sembravano delle registrazioni. Non per la "freddezza", anzi (abbiamo visto Gaber far cantare in coro "i borghesi son tutti coglioni" persino alla platea del Giglio, nel '92), ma per l'incredibile preparazione vocale. Marcorè, invece, non solo stona (mal di poco) ma non sa accompagnarsi con la chitarra tenendo il tempo con precisione: dagli arpeggi, quindi, passa al plettro, con risultati (specie nel finale) degni di una schitarrata da falò estivo in spiaggia.

E il pubblico, ci si chiederà? Domanda oziosa. Come ormai accade sempre, il pubblico applaude. In questo caso, non si capisce chi, se l'attore vivente in scena o l'artista defunto che gli ha regalato parole e note. Purtroppo, l'assioma odierno pare il seguente: quello che le platee vogliono è entertainment, bramano non conoscere ma riconoscere. Bastano quindi un volto noto e "rispettabile" (Marcorè è attore bravo e certo non inviso al pubblico di sinistra), un repertorio "sacralizzato" e dalla qualità e dal mercato (Gaber e De André, loro malgrado, sono anche questo) e il gioco è fatto. I tributi, quelli veri, studiati, sudati, pensati, sono altri, ma chi se ne accorge più?

Il programma dei Teatri della Versilia prosegue martedì 11 a Pietrasanta con Otello di Shakespeare interpretato da Sebastiano Lo Monaco, mentre per gli amanti di Gaber segnaliamo al Teatro Jenco di Viareggio, il prossimo 17 gennaio, Giorgio Casale che si cimenterà in Polli d'allevamento.
La stagione del Puccini , all'insegna della comicità "intelligente", continua con uno spettacolo davvero imperdibile, Sei brillanti del favoloso Paolo Poli. L'abbiamo visto nella passata stagione e ci sentiamo di raccomandarlo a tutti i costi: dal 12 al 23 dicembre.

Visto a Firenze, Teatro Puccini, 8 dicembre 2007.

Spettacolo
Un certo signor G
dall'opera di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
con Neri Marcorè
al pianoforte: Vicky Schaetzinger e Gloria Clemente
elaborazione musicale: Paolo Silvestri
scene e costumi: Guido Fiorato
luci: Aldo Mantovani
regia: Giorgio Gallione
Produzione: Teatro dell’Archivolto

giovedì 6 dicembre 2007

Nel labirinto verbale di Alessandro Bergonzoni

(da loschermo.it)
PRATO - Al Metastasio in occasione del Prato Festival 2007, l’affabulatore emiliano ha presentato il suo ultimo spettacolo, Nel , debuttato a Bologna dieci giorni fa. Performance in cui la parola avvolge la realtà, trasfigurandola in un fitto gioco di rimandi e slittamenti di senso

È praticamente impossibile dar conto della girandola verbale che Alessandro Bergonzoni applica nei propri spettacoli. Al venticinquesimo anno di carriera questo attore, indistintamente comico, intellettuale, raffinato, amante dei motori e delizia dei linguisti, dimostra di aver sviluppato strumenti tanto perfetti che è proprio la (semi)improvvisazione finale (in teatro, checché si dica, l’improvvisazione o non esiste, in quanto arte combinatoria improvvisa, o è gioco al massacro per sprovveduti) a fornire una vera misura di cosa sia capace.

Il Metastasio pratese, teatro accogliente e da anni fautore di stagioni all’insegna della qualità, attende in modo caloroso il performer alle prese con una delle prime repliche del nuovo allestimento intitolato Nel. Diretto a “quattro mani” dallo stesso attautore con Riccardo Ridolfi, Nel rappresenta l’ennesima immersione totale di Bergonzoni nel pelago viscoso del linguaggio, dei suoi scarti logici, delle sue manques.

Come sempre, l’attore compare in scena da solo: attorno a lui, alcuni suppellettili coperti da panni bianchi; sul pavimento, delle tavole più chiare del legno circostante. Anticipato dalla propria voce fuoricampo che espone una paradossale “dedica” dello spettacolo in perfetto Bergonzoni style, l’attore di bianco vestito si fa strada venendo incontro al primo applauso. Inizia a parlare, a intrecciare proposizioni, frasi, periodi, scivolando da uno spunto all’altro, come fosse un provetto impagliatore alle prese con la costruzione di sedie. Paradossale e magico nel capovolgere il senso, piegando il calembour spingendolo alle sue estreme conseguenze, Bergonzoni dapprima tramortisce il pubblico alla stregua di un pugile aggressivo che nella prima ripresa assesta ganci vincenti in gran copia. L’atmosfera si scalda, e con essa la platea: il ritmo dell’affabulazione è vorticoso, ma si ha la sensazione che il pubblico abbia appreso, col passare dei minuti, il ritmo della danza verbale e che sia in grado di tener dietro al gioco dell’attore.

Bergonzoni è un comico sui generis: potrebbe, e può, far ridere a crepapelle (e il bis finale lo dimostra ampiamente), ma preferisce incalzare gli spettatori, costringerli a seguirlo e a gustare i Witz (motti di spirito) sfornati a ritmi industriali. Difficilmente lascia il tempo di scaricare la tensione in una risata liberatoria: in questo nuovo Nel il riso bergonzioniano si specchia in una dimensione forse platonica, a tratti compiaciuta, di svelamento progressivo delle potenzialità, e delle falle, di cui è intriso il linguaggio. Non v’è una trama ordita, o almeno questo è ciò che appare nel vortice dell’eloquio con cui l’attore ammalia i presenti, ma un Gioco, nel senso alto del termine, che trascina chi vi partecipa in una dimensione alternativa alla realtà “quotidiana”, un piano distinto in cui i significati danzano intorno e all’interno dei significanti. Particolarmente pregevole il passaggio in cui Bergonzoni afferma che “lo scrittore è scritturato, non scrive”, utilizzando un’immagine potente del rapporto che intercorre tra enunciato e sistema linguistico, concetto che già Carmelo Bene (e attualmente Daniele Luttazzi) aveva ben presente nel proprio lavoro: nessuno dice un bel niente, l’idea di dire, o fare, è una panzana bella e buona, là dove è un sistema retorico, linguistico che ci attraversa e ci dice. Da lì, semplifichiamo consciamente il (non) discorso beniano, le mirabili performance in cui il genio salentino irretiva i malcapitati interlocutori affermando di non essere

Paradossalmente, proprio nella parte che ci è sembrata più alta, più raffinata, più innovativa del suo discorso, Bergonzoni ha forse evidenziato i limiti di questo sua pur pregevole prova scenica: limiti che risiedono, da un lato, in una certa ripetitività, e nella performance singola e nella serie dei suoi allestimenti, dall’altro, in una mancanza di coraggio nel trarre le conseguenze estreme circa le insidie ultime del linguaggio, rompendone definitivamente i meccanismi, sabotandone i gangli. Invece di forzare la mano e di provare (magari fallendo) qualcosa di nuovo, diverso, di rottura, Bergonzoni si mantiene sulla linea, intelligente e mai banale, di un sorriso giocoso, sorta di Alice che esita a seguire il Bianconiglio (e Carroll, ci pare, è un’altra delle fonti più o meno evidenti dell’artista): il pubblico apprezza, ma si resta con l’impressione che qualcosa difetti in questa scintillante prova di affabulazione.

Da vedere: tornerà in Toscana, al Puccini di Firenze , il 15 e 16 febbraio 2008.

Spettacolo
Nel
scritto e interpretato da Alessandro Bergonzoni
regia: Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi
scene: Alessandro Bergonzoni
ufficio stampa: Licia Morandi
assistenza e impianti tecnici: Tema Service
organizzazione distribuzione: Progetti Dadaumpa

sabato 1 dicembre 2007

Sorridere da morire

(da loschermo.it)
LUCCA - Il sorriso di Daphne di Vittorio Franceschi per la regia di Alessandro D’Alatri (all’esordio scenico) ha riscosso un discreto successo nelle due repliche tenutesi al Teatro del Giglio. Spettacolo tra le rivelazioni della stagione passata, forte di un testo nuovo che ha ottenuto vari riconoscimenti di livello nazionale (Premio Enrico Maria Salerno 2004, Premio ETI-Gli Olimpici del Teatro 2006 e Premio Ubu Nuovo testo italiano 2006)

Ha un fascino tutto particolare questo Sorriso di Daphne, pièce di Vittorio Franceschi e allestimento prodotto da Nuova Scena – Arena del Sole – Stabile di Bologna: diremmo che il tratto caratteristico sia una delicatezza, una leggerezza di certo encomiabile, nell’affrontare problematiche ad altissimo rischio di frusta e pomposa retorica.

La storia: il vecchio studioso di botanica Vanni, ben interpretato dal medesimo Franceschi, è gravemente malato, d’un male che lo sta, lentamente, divorando. È un paradosso per uno come lui, lepido, d’un umoraccio cinico e diretto, sempre pronto a recitar la parte del Bastian contrario. Vittima del suo bisbetico affetto e dei suoi strali all’indirizzo di Dio, la società e il mondo, è la sorella Rosa, donna semplice, cattolica, che ha sacrificato la vita ai doveri familiari e cui Vanni rinfaccia reiteratamente i fallimenti. Nei panni di questa, Laura Curino, brava nel dare profondità al personaggio, giocando con le sue mancanze, i suoi scarti ingenui, senza mai trasformarlo in macchietta monodimensionale.
Protagonista non parlante della scena è la Daphne del titolo: una pianta sconosciuta che Vanni ha ricuperata da un viaggio nel Borneo e che potrebbe rappresentare un serio attributo per arrivare al Nobel (“tanto ormai, lo danno a cani e porci!”, la venefica osservazione più volte ripetuta dai personaggi).
A turbare il buffo ménage di questa strana coppia arriva Sibilla (Laura Gambarin), giovane studentessa di Vanni, bella, intraprendente e all’inizio della propria carriera di botanica. Lo studioso l’aveva portata con sé in alcuni viaggi precedenti, considerandola qualcosa di più che una semplice erede di studi.

Il rapporto Vanni-Sibilla appare sin da subito come esclusivo in senso etimologico: a fare le spese di questo improbabile triangolo sentimentale è la povera Rosa, che assiste sia alla salute compromessa del fratello sia all’evoluzione ulteriore di un amore impossibile. La relazione professore-ex studentessa è infatti qualcosa di più di quello tra docente e discente: sodalizio intellettuale, certo, che sfocia in un rapporto sentimentale complesso, ben illustrato dalla mano leggera dell’attore-drammaturgo.
Il male è inesorabile, contrappasso feroce a minare le facoltà mentali d’un uomo che ha nell’intelligenza la propria forza principale: un forte senso di morte aleggia per tutto lo spettacolo, trattato però con eleganza, estrema delicatezza, senza cedere alla tentazione d’un tragico impossibile o, peggio ancora, d’un banalizzante patetico.

Vanni è cosciente di non aver futuro, esistenziale (morirà in breve) o tanto meno sentimentale, e convince faticosamente Sibilla a somministrargli una foglia della Daphne: la pianta, infatti, secerne un veleno portentoso e sconosciuto, che la medicina occidentale non può rinvenire. La scena della morte è intensa, con l’ulteriore contrappasso, per l’ateo Vanni, d’un richiamo al sacramento dell’eucarestia. È Sibilla che, per amore, aiuta Vanni a morire.

Lo spettacolo avrebbe potuto arrestarsi qui, e già sarebbe stato un successo: parlare d’eutanasia in modo misurato ed elegante è cosa assai rara di questi tempi, ma Franceschi ha voluto rendere giustizia anche al personaggio forse più difficile del testo, ossia la “sciocca” Rosa.
Questa compare infatti nel finale, indaffarata a disfare l’arredamento della casa condivisa con Vanni (molto bella la scenografia unica realizzata da Matteo Soltanto): entra quindi Sibilla e nell’ultimo dialogo si svela che la sorella ha capito tutto, perché l’amore sa raggiungere ciò che la mente, forse, non potrebbe cogliere.

Lo spettacolo ha un andamento leggero, impreziosito dalla tematica che, lo ribadiamo, Franceschi affronta e sfiora con eleganza.
Gli applausi finali sono convinti, col solo rammarico che, siamo al venerdì, il teatro avrebbe potuto (e dovuto) essere più gremito.

Visto a Lucca, Teatro del Giglio, 30 novembre 2007.

Spettacolo
Il sorriso di Daphne
due tempi di Vittorio Franceschi
Premio "Enrico Maria Salerno" 2004
regia: Alessandro D'Alatri
con Vittorio Franceschi (Giovanni, detto Vanni), Laura Curini (Rosa), Laura Gambarin (Sibilla)
musiche: Germano Mazzocchetti
scene: Matteo Soltanto
costumi: Carolina Olcese
luci: Paolo Mazzi
suono: Federica Giuliano
assistente regista: Gabriele Tesauri
assistente alla regia: Marla Moffa
in collaborazione con La Ribalta - Centro Studi "Enrico Maria Salerno"
produzione: Nuova Scena – Arena del Sole – Stabile di Bologna