(da Giudizio Universale)
Maurizio Di Giovanni porta in scena Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, che rievoca la mitica partita del 1987, rivincita di un'intera città. Il monologo di Antonio Damasco ruota tutto intorno a Maradona, ma senza mai nominarlo
Maurizio Di Giovanni porta in scena Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, che rievoca la mitica partita del 1987, rivincita di un'intera città. Il monologo di Antonio Damasco ruota tutto intorno a Maradona, ma senza mai nominarlo
Da tempo il calcio è tema sdoganato in scena, non senza motivo: lo sport in genere, specie se a vocazione popolare, è tra le poche attività che riescano a evocare un vero e proprio orizzonte mitico moderno. Se il riferimento si perde poi nel passato, in trascorsi per qualche ragione aurei, l’effetto è ancor più travolgente: non solo giacché giovinezza e infanzia lasciano solchi indelebili nella memoria, ma anche perché, più prosaicamente, il calcio italiano, in particolare negli anni Ottanta, ha registrato la più grande concentrazione di classe (e danari) disponibile all’epoca e, altro dato non secondario, una delle più avvincenti alternanze di vertice mai viste nella pelota domestica. Ovvio che prima o poi qualcuno attingesse al miracolo napoletano del 1987, primo riscatto per un Meridione fornitore storico di talenti, ma privo di rappresentanza nel palmarès nazionale: sono i torinesi del Teatro delle Forme, con un monologo di Maurizio De Giovanni, a proporre un allestimento su quella magica, e ripetuta, esperienza.
Una voce registrata spezza il buio silenzio in platea: la luce rossastra scontorna una figura umana dondolante da una poltrona; alle spalle, una stesa di bianco bucato, icona d’una Napoli popolana, sulla cui cima occhieggia la casacca azzurra della squadra del ciuccio. È un discorso, non facile, articolato, presupposto e cornice all’azione scenica vera e propria che poi, più che azione, sarà racconto, anch’essa discorso, nell’interpretazione in corpore dell’attore. La leva è il ricordo, tra sport e dimensione domestica, a riallacciare fili, rapporti forse sfibrati dalla troppa vicinanza, da quella dimensione, benedetta e maledetta, della famigliarità.
Antonio Damasco s’erge al centro della scena: bel guaglione, tuta blu (divisa esemplare dell’altra urbe evocata nel titolo), postura in lieve disequilibrio, curva in avanti, fare conciliante, un filo pretesco. Rievoca una mitica trasferta pallonara, la prima dei tifosi azzurri a Torino da primi in classifica, pur in coabitazione: una sorpresa, non fosse per Lui, innominata divinità argentina, india e pagana, deus ex machina dello spettacolo, di quella squadra, di un’intera antropologia plebea.
Al dialogo intimo, accennato, tra figlio e padre, con lo sfondo di una storia d’emigrazione e mala accoglienza in quella città odiata/amata dai suoi figli adottivi, si sostituisce il racconto di viaggio, on the road al ragù su per lo Stivale. Damasco tipizza i compagni di ventura in caratterizzazioni dal crescendo fantozziano, con iperboli ed enfatizzazioni: non forza mai, sempre a debita distanza dalla sguaiatezza. Frange la quarta parete, dosando un poco di cabaret sulla spiccata natura teatrale della recita. La partita è il nucleo: ovvia la mitizzazione, coi “belli” bianconeri, alti, eleganti, degni di quella raffinata proprietà industriale da orologio sui polsini, pur’essa mai dichiarata, e i brutti, disarmonici terruncielli, ben rappresentati dal terzino Bruscolotti e dall’innominabile sudaca, trionfale esempio di meridionale all’ennesima potenza. In alcuni momenti irrompe il video: la scena si cristallizza, i panni bianchi sono schermo per proiezioni con stralci di considerazioni calcistiche miste a lacerti esistenziali. S’intravede il padre del protagonista, che coincide con quello dell’attore.
Riprende il narrato, l’epopea si compie: alla complicazione (il gol di Laudrup, esponente perfetto della razza superiore bianconera), segue lo svolgimento, le tre “pere” azzurre, epilogo trionfale. I poveri vincono, i ricchi piangono e, a chiudere, una sequenza filmata senza parole di padre e figlio riuniti in un parco, pallone tra i piedi, explicit non privo di prevedibilità retorica.
Non convince la dissimmetria fin troppo evidente: se la cornice iniziale coincide con un’elucubrazione, peraltro in apparenza slacciata dal prosieguo, si renderebbe necessaria una chiosa in sintonia, a chiudere una parentesi altrimenti incongruente. Lo stesso discorso comico appare, in complesso, debole, senza azzardo: apprezzabili certi passaggi rotondi, aggraziati, ma solo se calati in una dinamica maggiormente variata, mossa. La comicità non può sussistere senza una sua peculiare vocazione selvaggia, o corrosiva, che non è villania, ma lavoro sul limite, sulla crisi del linguaggio, dei suoi simulacri. Così come sono abbozzati, mai o mal sviluppati, i riferimenti sociali, in potenza carichi di risonanze, eppure lasciati cadere in un finale che ci regala, purtroppo, uno spettacolo a rischio d’anemia. La stessa scelta di non nominare mai Lui, eroe e nume della vicenda, non pare dotata di vera sostanza: si resta sorridenti, ma perplessi, perché ci saremmo aspettati il taglio improvviso, un’esplicitazione dolorosa, un’incisione emotiva a rendere necessario e sorprendente uno spettacolo che non deve accontentarsi d’essere carino.
A giustificazione, chiariamo d’aver assistito al debutto di una tournée, che il teatro è da sempre fatto di correzioni in corsa e che ci auguriamo che questo Juve Napoli 1-3 possa crescere, trovare centratura, compasso: non foss’altro perché Lui non merita niente di meno.
24 Febbraio 2011
Spettacolo
Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, di Maurizio Di Giovanni
Scheda
Prossimamente in scena: 27-28/2, Torino, Cavallerizza Reale Manica Corta; 21-22/4, Roma, T.Parioli
Locandina: Antonio Damasco, drammaturgia, ideazione e regia; Valentina Padovan, aiuto regia; Raffaele Posa, video; Bruno Miguel Ferreira da Veiga, tecnico; in video, Alberto Damasco
Visto: a Bientina (Pisa), Teatro delle Sfide, il 29 gennaio 2011
Il precedente (ormai illustre): Italia-Brasile 3-2 di Davide Enia, in cui l’attautore sicuro rielaborava la tecnica del cunto evocando il trionfo del Sarrià
Juventus – Napoli 1 a 3: 9 novembre 1986, Stadio Comunale di Torino, marcatori: 50' Laudrup (JU), 73' Ferrario, 74' Giordano, 90' Volpecina
“Lui” in musica: da Santa Maradona dei Mano Negra (non il dimenticabile film di Marco Ponti) all’omonima canzone del connazionale Andrès Calamaro, da Maradò dei Los Piojos a Diego Armando Maradona del nostro Baccini e Maradona dei Mau Mau, continuando con Diego querido (Willy Polvorón), Dale Diez (Julio Lacarra), Para Siempre Diego (Los Ratones Paranoicos), Capitán Pelusa (Los Cafres), Y dale alegría a mi corazón (Fito Páez), Yo te sigo (Los Calzones), La cumbia del 10 (Tambo Tambo), El baile de Maradona (Riki Maravilla), Maradona Blues (Charly García), La Cueca de Maradona (Guillermo Guido), sino alla struggente La vida tombola di Manu Chao, colonna sonora del film di Emir Kusturiça dedicato al Diez. El Pibe de oro, infine, ha cantato Querida Amiga con i Pimpinela e Hacer el tonto, duetto con l’amico Andrés Calamaro; la lista potrebbe però continuare, forse all’infinito
“Lui” a teatro: El Diego – Concerto n.10, “musica d’autore per goal e orchestra”, progetto andato in scena in occasione dell’ultima edizione del Napoli Teatro Festival, regia video di Carlo Alvino su musiche di Niccolò Paganini e di Roberto De Simone, direzione orchestrale di Pietro Mianiti
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