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giovedì 10 febbraio 2011

La solitudine di Amleto

(da Giudizio Universale)
Abbiamo visto in anteprima nazionale lo spettacolo shakespeariano della Compagnia del Carretto. Un principe antieroe abbatte uomini come burattini, allucinata metafora della trappola teatrale e della vanità di ogni gesto

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Un quadrilatero di drappeggi in porpora trapuntati: ring, scacchiera, arena e teatro. Il solo versante che traspare volge alla platea, parete paradossale e invalicabile per quello che è il dramma dei drammi, la vicenda del principe danese. Che è metafora, secondo declinazione: dell’uomo moderno; della macchina teatrale; del complesso edipico; dell’eroe–antieroe ben conscio dell’infinita vanità del gesto e, dunque, deciso a tuffarsi nel gioco scenico, in spregio alle realtà del delitto e della vendetta. (Foto di Filippo Brancoli Pantera)

Allo schiudersi del sipario, il quadro visuale, cupo e ossessivo nella sua fissità, è tormentato concretarsi della paranoia d’un Amleto perduto in livido carminio, contrastato dal nitore dei corpi seminudi e ferini che appaiono dalle stoffe parietali. In proscenio, alla destra dello spettatore, un ripiano da cui s’ergono figurine come da presepe, proiezione di quella tavola della mente che il testo shakespeariano cita più volte. Lì si svolge la trama di cui il palcoscenico è doppio speculare: al cader degli attori corrisponde il tonfo, per mano d’Amleto, delle statuine, e viceversa.
Tutto ruota attorno a lui, tutto è creazione, visione e sogno del principe solitario, infante–regista, orditore di recite per soldatini cui mozzar il capo al momento convenuto. Giandomenico Cupaiolo è quest’Amleto scostante, meditabondo, pervicace, disperato rispetto alla vendetta ordinatagli, fool e capocomico per la messinscena guittesca da egli stesso orchestrata. Tutto ruota attorno a lui, di scuro vestito, circondato da apparenze di bianco esiziale. Ed è vertigine di drappi sollevati ad animar la scena, di luci a tagliare il palco, di corporature dal sembiante ora marmoreo ora grottesco. È in queste rasoiate visive, cui fa eco un apparato sonoro di stentorei ottoni, lame sibilanti e percussioni ostinate, è in queste epifanie tornite e lancinanti che s’esprime appieno la poetica del corpo e del suono, autentica stella polare del Teatro del Carretto. La saga scandinava si rapprende, coagulata attorno al suo interprete primo, al suo delirio visionario: ogni segmento della storia è parto solipsistico e stravolto, pure la struggente morte d’Ofelia (Elsa Bossi, cui pure è affidato il ruolo di Gertrude), che la stessa fanciulla narra in terza persona con straziante e straniante litania, dilatata nel tempo e reiterata ad libitum. Vi è pure spazio per un intermezzo tra Tim Burton e Hitchcock quando, sulle note della Marche funèbre pour une marionnette di Gounod, buffi scheletri claudicanti accennano una macabra danza nel cimitero, mimando il gesto di scavar fosse: momento che strappa sorrisi e plauso, per quanto non sembri armonizzarsi coerentemente alla direzione complessiva di Maria Grazia Cipriani.
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Spettacolo denso, a tratti faticoso, che deve ancora trovare un’andatura, come spesso accade agli allestimenti carrettiani: mantenendo intatta una scrittura scenica personale, acquisiscono ritmo e fluidità al passare dei mesi e delle repliche. Vero è che Cupaiolo, bravo Pinocchio nel penultimo lavoro della compagnia, sembra non sostenere adeguatamente una partitura ben più complicata per variazioni e dinamica: la sua interpretazione è a tratti slabbrata, non priva di stonature, benché sia doveroso riconoscergli l’attenuante di un’esecuzione ad alto coefficiente di rischio.
Le spade sguainate chiudono la tragedia: Amleto si dà all’arma bianca contro le fantasmatiche presenze della sua scena mentale; a distanza di palco, il gesto saettante è sufficiente per segnare e infliggere la stoccata. Tutti cadono, corpi in scena e marionette, residui ingombranti d’uno scacco completo, solitudine allucinata e allucinante di chi, nel rifiuto disperato d’un mondo delittuoso, trova unico indirizzo possibile nel rito scenico, nella reiterazione efficace e liminare di quel gioco serio che è il teatro, scatola magica e trappola immortale.
Igor Vazzaz23 Marzo 2010
Oggetto recensito:
Amleto, da William Shakespeare, adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani
Prossimamente: Roma, Teatro India, sino al 28/3; Bagnone (Ms), 7/4; Pomarance (Pi), 8/4; Grosseto, 9/4; Casalmaggiore (Pr), 30/4; in tournée nella stagione 2010/11
Attenzione: verificare ogni data coi singoli teatri, potrebbero esserci variazioni di rilievo, causa grave infortunio di un attore
Visto:
a Lucca, Teatro del Giglio, giovedì 11 e sabato 13 marzo 2010
Il resto della locandina: Graziano Gregori, scene e costumi; Hubert Westkemper, suono; Angelo Linzalata, luci; Luca Contini, fonico; Giacomo Vezzani, Giacomo Pecchia, Nicolò Belliti, Jonathan Bertolai, Carlo Gambaro, attori in scena; produzione Teatro del Carretto
Il Teatro del Carretto: sorta nel 1983, la compagnia si segnala per una scrittura di scena che affronta la tradizione teatrale forte (da Shakespeare alla tragedia greca), e il filone fiabesco (dall’esordio con Biancaneve al citato Pinocchio) con uno spiccato gusto grottesco, mediante un raffinato lavoro sulla plasticità delle immagini, arrivando a esibirsi in tutto il mondo
Il giudizio: da rodare, niente vieta che, andando avanti, i soli brillino splendenti
giudizio:

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