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lunedì 21 febbraio 2011

Se Dona Flor ha perso la passione

(da Giudizio Universale)
Nella sensuale Bahia, una donna si divide tra un marito mascalzone, morto, e uno amorevole e noioso, vivo. La buona notizia è che il capolavoro di Amado a teatro potrebbe fare scintille. La cattiva è: non in questo spettacolo



Abbiamo una certezza, dopo aver assistito alla versione teatrale di Dona Flor e i suoi due mariti: il capolavoro di Amado regge alla grande la traslazione scenica. Singolare che tale convinzione, tanto più ferrea rispetto ai dubbi pregiudiziali, sia risultato tetragono d’uno spettacolo mal compiuto. Chiariamo: le trasposizioni sono non solo possibili, ma da incoraggiare, e non v’è da disturbar Nekrošius per dimostrarlo. Necessario, però, è che lo spirito del modello ben si coaguli, s’impreziosisca nel filtraggio d’un differente mezzo espressivo e non si limiti a una sterile proposizione dell’inessenziale dell’opera adottata, alla sua scorza. Il piacere, infatti, dovrebbe moltiplicarsi: alla memoria dell’originale s’aggiunga il godimento dell’invenzione proficua, dell’interpretazione copiosa, gioco di risonanze che è la bellezza della fruizione estetica.
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Il romanzo di Amado è trionfo di colore e vita, rappresentazione carnevalesca e romantica d’un amore infinito che ha per teatro quell’esplosione musicale che è Salvador Bahia, pulsante cuore africano del Brasile. Ora, può anche essere improponibile che una compagnia italiana si brasilianizzi, snaturandosi, allo scopo di cercar un’anima di cui è sprovvista, ma questo non può risolversi nel mero abdicare da un elemento fondante un’opera d’arte determinata. Non si può fare Bahia? Si prenda Napoli. Ma vi sia senso magico, mitologia invadente, vi siano rumori, colori e, soprattutto, odori, profumi: quelli della cucina di Flor, quelli del desiderio carnale. Vi sia sostituzione coerente, equipotente, non la sospensione pavida d’una scelta mozzata.

Lo spettacolo: bella l’idea dei tre schermi giganti come scena, con infinite possibilità di suggestioni. Buono pure il primo quadro, con stuolo di candele replicate a video per la veglia funebre di Vadinho, canaglia di marito eppure adorato dalla protagonista. Peccato, però, che la potenzialità visiva resti poi inespressa, con prevedibili simbolismi iconici, senza forza espressiva, senza genio né nerbo. Buone le musiche del trio in scena (chitarra, violoncello, contrabbasso), ma siderale la distanza con la temperie romanzesca, bruciante di samba e ritmi africani.

Il lutto di Flor, donna dabbene cresciuta in rispetto e pudicizia, è sofferenza reale di carne e spirito: quell’irresistibile puttaniere di Vadinho, tradendola, sperperando soldi, deludendola puntualmente, l’amava davvero, a suo modo, e non v’è dubbio. Così come, in altra maniera, la ama il nuovo marito, Teodoro, letargico farmacista, eppure animato d’ogni sincera attenzione, d’ogni riguardo verso quel fiore che il matrimonio precedente aveva, strapazzandolo, condotto alla vita: quando il fantasma del primo torna dall’aldilà per le torride invocazioni della vedova, la faccenda si complica.

dona-flor-1.JPGÈ sensuale, Dona Flor, creola formosa dagli appetiti scoperti, ma al contempo misurata, mal contenuta in una disciplina che non può frenare pensiero, desiderio, memoria. Eppure Caterina Murino è algida, mai in parte, mai sbranata di voglia rappresa e continenza autoinflitta. Macchiettistico, ingiusto, è poi il Teodoro di Paolo Calabrese, intrappolato in effettacci che niente hanno da spartire col personaggio: Amado ci fa ridere del farmacista compunto che desidera la moglie (risparmiandole però quelle pratiche per cui esistono apposta "le donne di strada"), ma lo rispetta, ce lo fa amare, comprendere: Teodoro siamo noi, nostra proiezione d’affidabilità. E invece si cerca la storpiatura inerte, il riso facile, digestivo, ignorando quanto Teodoro sia denso, abbia spessore, e non la bidimensionalità d’una figurina farsesca. Meglio il Vadinho di Max Malatesta, carattere più facile, mai però conturbante, mai sfrontato in senso proprio.

La storia dovrebbe eccitare, turbare, mettere in ambasce lo spettatore, intrappolarlo in due amori paradossali e veri, in una corporeità debordante: nelle scene a tre, Flor dovrebbe baciare in bocca entrambi, e non limitarsi a un quadretto da interno borghese. A sfangarla, il coro muliebre d’amiche di Flor, al netto di qualche ribobolo superfluo, la megera Dona Rosita (Simonetta Cartia), un po’ troppo giovane per la parte. Poco, troppo poco per rendere giustizia a un romanzo tanto profondo e bello. Manca la magia: quella bahiana, sincretica, tra orixà africani e misticismo cristiano, quella d’un sesso irresistibile e inebriante che regali al pubblico il sorriso e la convinzione che l’amore, quello vero, sia qualcosa di incontenibile e difforme, quasi mai adatto alle categorie d’una convivenza regolata e borghese. Peccato, perché Dona Flor merita una traslazione scenica, quasi la invoca: il romanzo contiene un’irresistibile natura teatrale e pure una messinscena fallata ce lo conferma chiaramente. Speriamo di vederla, un domani, non chiederemmo di meglio.
04 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
Dona Flor e i suoi due mariti, di Jorge Amado, regia di Emanuela Giordano
Prossimamente in scena: fino al 6/2, Brescia, T.Sociale; 10-13/2, Monza, T.Manzoni; 15-27/2, Roma, T.Quirino-Vittorio Gassman; 28/2-2/3, Pavia, T.Fraschini; 3-6/3, Bolzano, T.Comunale; 8-13/3, Bergamo, T.Donizetti; 14/3, Legnago (Vr), T.Salieri; 15-17/3, Vigevano (Pv), T.Cagnoni; 18-20/3, Lucca, T.del Giglio; 23-27/3, Messina, T.Vittorio Emanuele; 29-31/3, Fano (Pu), T.della Fortuna
Il resto della locandina: Andrea N. Cecchini, scene; Claudio Garofalo, installazioni visive; Juan Diego Puerta , coreografie; Michelangelo Vitullo, luci; con Claudia Gusmano, Serena Mattace Raso, Laura Rovetti; musiche originali eseguite da Bubbez Orchestra (Massimo De Lorenzi, Ermanno Dodaro, Giovanna Famulari); produzione Compagnia Mario Chiocchio/Emmevu Teatro
Visto: a Pistoia, Teatro Manzoni, il 30 gennaio 2011
L’anatema di Stanislavskij: "Non ci credo", terribile verdetto con cui il regista russo ossessionava i suoi attori. Aveva ragione: ben vengano gli orgasmi simulati, ma che riescano a imbrogliarci
L’anatema di Benjamin: nell’arte, l’essenziale è incomunicabile, mentre ciò che è comunicabile è inessenziale; questo il tarlo che dovrebbe animare qualsiasi traduzione, linguistica ed espressiva
Sulla lingua: l’italiano, a volte, non aiuta; a proposito del francese, ma vale pure per la nostra lingua, George Brassens sosteneva come sia ingiustificabile che un così "sublime strumento di piacere" fosse indicato con impropri nomi d’ortaggi o animali. Patatina, pelatina nel testo originale, in traduzione, perdono ogni carnalità, sono caricature senza neppure la forza del triviale
Amore per i personaggi: prima regola della recitazione, a meno di non voler fare caricature. Il Teodoro di Calabrese (attore che amiamo e non solo per lo strepitoso Biascica nel serial Boris, quello sì personaggio buffo, ma dotato di spessore) ricorda più il Furio di Verdone (macchietta voluta e ottimamente riuscita) che il farmacista del romanzo
Al cinema: Dona Flor e seus dois maridos (Bruno Barreto, 1976), nei panni della protagonista una smagliante, e sensualissima, Sonia Braga
giudizio:

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