(da La Gazzetta di Lucca, 23 dicembre 2011)
Porcari e Cracovia: quasi uno scherzo solo a nominarle una di seguito all’altra. Eppure lo spettacolo visto ieri sera all’Auditorium Vincenzo da Massa Carrara (mai nome poteva essere più scomodo da citare in una semplice cronaca teatrale) ha idealmente unito, e in modo opportuno, la bellissima città polacca e il centro, ex rurale, ormai industriale, della Piana di Lucca. Merito di due artisti, Antonio Tagliarini e Daria Deflorian, che partono dalla danza contemporanea per poi mutare, contaminare diverse forme sceniche, mescolando le carte, giocando con le discipline allo scopo d’emozionare emozionandosi, aprire varchi, stimolare gli spettatori.
Porcari e Cracovia: quasi uno scherzo solo a nominarle una di seguito all’altra. Eppure lo spettacolo visto ieri sera all’Auditorium Vincenzo da Massa Carrara (mai nome poteva essere più scomodo da citare in una semplice cronaca teatrale) ha idealmente unito, e in modo opportuno, la bellissima città polacca e il centro, ex rurale, ormai industriale, della Piana di Lucca. Merito di due artisti, Antonio Tagliarini e Daria Deflorian, che partono dalla danza contemporanea per poi mutare, contaminare diverse forme sceniche, mescolando le carte, giocando con le discipline allo scopo d’emozionare emozionandosi, aprire varchi, stimolare gli spettatori.
Il festival Quello che forse vorresti vedere propone infatti Il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava, nell’ambito di un ardito progetto cui la coppia di artisti sta lavorando da qualche tempo (chiacchierando abbiamo carpito un Reality senza show
a proposito del quale non metteremmo la mano sul fuoco) e che prende le
mosse da un peculiarissimo caso d’autobiografia, protagonista una donna
polacca vissuta a Cracovia, appunto, tra 1922 e 2000. Verrebbe da dire
un’anonima signora, se non fosse che il suo nome ci è noto, Janina Turek:
la vera particolarità non risiede neppure in una vita avventurosa o
ricca di spunti narrativi, quanto piuttosto nell’aver registrato per
intero, con algida lucidità e impressionante metodo, la propria
esistenza in una serie di dati raggruppati in trentatre categorie. In
breve: Janina, dall’inizio degli anni Quaranta, comincia a scrivere e
fissare su carta ogni volta che mangia, cosa mangia, chi vede per
strada, cosa vede a teatro, le telefonate in entrata o in uscita, i
programmi visti in tv, in un afflato da catalogo che potrebbe far
impallidire i più paradossali narratori. Ancor più incredibile: Janina
accumula tale gran copia di dati esclusivamente per sé; la dimensione
della scrittura è privata, quindi inconcepibile per noi, assuefatti
all’esibizionismo implicito da reti sociali, bacheche virtuali,
condivisioni coatte. Janina scrive per sé, in preda a quella che ci pare
(e forse lo è) un’ossessione, forse la ricerca d’un controllo sul
proprio vissuto. Nel glaciale catalogo dei suoi quaderni, non tutto è
tradotto, anzi: le emozioni non compaiono mai, affidate invece alle
cartoline, più di tremila, che riceve o, addirittura, si spedisce da
sola. A rendere il fatto ancor più bizzarro: Janina compie questa
titanica opera di campionamento nel rigoroso silenzio, giacché nessun
famigliare (divorziata presto dal marito, è comunque madre tre figli)
scopre niente. Consumata la morte della donna, una figlia scopre
l’armadio stracolmo di quaderni certosinamente compilati. Da lì,
l’intuizione di avere una fotografia iperreale della vita quotidiana
polacca in un arco di quasi sessant’anni: un patrimonio di informazioni
che, giustamente, non è passato inosservato alla stampa nazionale, e non
solo.
Antonio Tagliarini da anni lavora sul concetto di biografia,
attanagliato ai dubbi e ai paradossi d’un racconto, quello della vita,
che nel suo farsi o, meglio, tentarsi di fare, trova
l’immancabile scacco, più o meno cosciente, più o meno consapevole.
Inevitabile che, complice Daria Deflorian, un caso come quello di Janina
Turek, concittadina e contemporanea (coincidenza?) di un gigante del
teatro novecentesco quale Tadeusz Kantor, abbia fatto scattare un
interesse che non si limiterà certo al viaggio di ricerca a Cracovia
(narrato nel diario cibernetico http://realitydiario.tumblr.com/) né alla performance appena vista. E il laboratorio che i due artisti hanno svolto presso il Centro Anziani “Il Girasole”
a Porcari è risultato essere un’ottima occasione per compiere un
ulteriore passo nella definizione di questo “viaggio” alla scoperta
(impossibile) di questa utopia narrativa, sisifeo tentativo di
traduzione del vivere. Sono nove (sette donne, due uomini) i
partecipanti all’iniziativa, sotto la guida dolce e sorridente di
Deflorian e Tagliarini: luce sparata in scena, una registrazione audio
rompe il brusio della sala, ottenendo un giusto silenzio. È un uomo a
parlare, un ottantenne che racconta, a suo modo, l’amore per una
coetanea che vorrebbe sposare e che un infortunio ha costretto in
ospedale. Entrano poi i nove protagonisti: uno per uno guadagnano il
centro della scena, salgono su una piccola bilancia elettronica e
dichiarano il proprio peso. Inizia lo spettacolo, che spettacolo non è: è
indagine, interrogativo, sfida già persa, ma che vale ugualmente
lanciare.
E i corpi di questi signori attempati, i loro volti fieri d’una
sicurezza conquistata con la progressiva fiducia nei loro “istruttori”,
si piegano alla rappresentazione dell’irrappresentabile: la vita di
Janina. Non c’è recitazione, non è teatro, non è neppure finzione, e di
questo c’è da esser grati a Tagliarini e Deflorian: non c’è la sicumera
del narrare, l’incauta perversione dell’aver qualcosa da dire.
Tutt’altro: v’è il dubbio tarlato di cosa sia traducibile o, ancora
meglio, l’enigma di un racconto sul raccontare stesso, in un gioco di
scatole che somiglia alle matrioske russe.
Inutile pretendere dall’esito spettacolare di un laboratorio il
taglio netto d’una lettura artistica: è l’apertura a contare, a essere
preziosa, come traccia di un cammino che s’imprima nella memoria emotiva
di chi ha assistito e che rimane arrovellato a interrogarsi su cosa vi
sia mai d’interessante in una vita, di come sia inevitabile, dato un
racconto di qualsiasi natura possa essere, l’inusitata violenza della
selezione dei dati. Anche Janina, nel suo utopismo razionale, cita
alcuni dati per tacerne altri e segna, volente o nolente, d’una profonda
impronta autoriale il suo racconto. E, forse, la dimensione artistica
sta (anche) in quell’atto di presunzione, hybris, follia, superbia, che è il decidere, a un certo punto, di dare vita a un’opera.
Applausi agli “attori”, a chi li ha guidati in una performance tanto
lieve quanto densa di contenuti e a questo piccolo, gustosissimo
festival che nella prossima settimana (giovedì 29 allo Jenco di
Viareggio, venerdì 30 a Porcari) chiude i battenti con il
divertentissimo Il ritorno di Hula Doll del Tony Clifton Circus.