Luigi Lo Cascio porta in scena uno spettacolo ispirato a Le Baccanti di Euripide: La caccia è ben congeniato, ma manca il contatto con la tragedia
di Igor Vazzaz
Ossessione per la forma tragica e impossibilità di esprimerla, di penetrare a fondo la dimensione del dionisiaco, la sua sapienza distruttrice e, al contempo vivificatrice, paradossale. Luigi Lo Cascio si getta a capofitto nella complessa rilettura euripidea delle Baccanti, in questa Caccia, cerca disperata e asintotica a più prede e oggetti: le menadi tebane al seguito del ricciuto dio ebbro, il contatto sconvolgente con la radice più profonda del pensiero ellenico, la sua comprensione intellettuale, raziocinante e, infine, la sua attuabilità teatrale.
È possibile la tragedia oggi? No, è la risposta chiara, disarmante e onesta d’un allestimento ben condotto, ricco di soluzioni e non semplice a solo virtuosistico di un ottimo attore.
In un quadro scuro, lo spazio scenico si comprime ed estende per mezzo d’un fondale semovente su cui si stagliano proiezioni dinamiche di segni violenti, matita bianca su nero. Le figure, graffiti realizzati magistralmente da Alice Mangano e Nicola Console, accompagnano con tratti rapidi e sofferti l’intero svolgimento d’una performance originale per idea e pratica: ora a supporto dell’azione (i vecchi Tiresia e Cadmo che aderiscono al rito del nuovo dio), ora a illustrare i grumi d’umore del protagonista della storia, il tirannico Penteo/Lo Cascio destinato a esser sbranato dal thìasos capitanato dalla sua stessa madre, ora ad animarsi con la beffarda e colorata presenza del critico/bambino (il bravissimo Pietro Rosa) che con strafottente faccia di tolla rappresenta il tentativo di penetrare intellettualmente una sapienza che, pur afferendo a una parte ineluttabile dell’animo umano, ci è ormai inaccessibile. Eccellente esempio di Grillo Parlante (il cui esibito rotacismo fa pensare al critico d’arte Philippe Daverio), il pargolo sottolinea, commenta, chiosa i punti focali della storia, finendo però, nel momento in cui annuncia la rivelazione del senso ultimo della tragedia, prima cieco (citazione edipica) e poi accoppato da neri volatili, non senza una certa soddisfazione per lo spettatore.
Il Penteo di Lo Cascio s’agita disperato in questa ossessiva scena mentale, spazio a riprodurre l’oscurità in cui brancola il tiranno, nel tentativo, inutile, d’arrestare, contrastare la forza d’un dio che finirà per blandirlo, affascinarlo e, infine, dilaniarlo per le sue sacerdotesse invasate. Ora a cavallo d’un equino di legno, ora intrappolato su di un tavolo inclinato, con indosso costume bianco, ingombrante armatura sospesa tra Ariosto e Star Wars, il protagonista naufraga in un ampio spettro di soluzioni attoriche, polifonia che esprime il passaggio dal rifiuto dittatoriale, con esplicita citazione da dittatore chapliniano, allo struggimento interiore sino all’accettazione ambigua di presentarsi en travesti per poter osservare le baccanti in delirio. La progressiva corruzione della granitica facciata è slittamento, continuo e inarrestabile, di matrice psicologica: il rifiuto schifato, Freud docet, è gravido d’attrazione morbosa, di turbamento, e Lo Cascio illustra a dovere la deriva annichilente del protagonista di questo monologo mascherato, innervato di reminiscenze kafkiane.
Fedele al paradosso, lo spettacolo sfugge alla visione delle baccanti: il momento finale è privato alla vista, sostituito dal terzo di tre filmati–parodia di réclame pubblicitarie che, a mo’ di coro, stemperano la tensione con ironia non sempre efficace, infrangendo ulteriormente l’aspettativa del pubblico in un fallimento ineluttabile: il tragico ci è precluso, non resta che un ghigno amaro.
Spettacolo che ha il pregio di “provarci” e che programmaticamente denuncia i propri limiti, La caccia realizza però solo in parte il proprio disegno, per quanto limitato e consapevole: anche se riprodotta, liofilizzata, derubricata ad accidente scenico irriproducibile, un contatto anche fortuito con la tragedia dovrebbe imprimersi con la forza d’un marchio a fuoco nello spettatore e non lasciarlo con la sensazione d’aver assistito a un allestimento bello e interessante, ma “privo di sangue”.
E invece si resta straniati da questa pregevole performance, che vuol dimostrare l’impossibilità di calarsi nel delirio dionisiaco del pubblico attico, ma che rischia, però, d’anestetizzare eccessivamente lo spettatore, quasi ad annichilirne la reazione in una distanza ironica raggelata. Il teatro può ancora, e deve, trasformare chi vi partecipa, anche al di qua della quarta parete: risultato eccezionale, ma che non possiamo smettere di pretendere.
(24 Febbraio 2010)
Visto a Pontedera, Teatro Era, il 7 febbraio 2010
La caccia, da Le baccanti di Euripide, di e con Luigi Lo Cascio
Prossimamente: Bologna, Duse, 26-28/2; Crema (Cr), 2-3/3; La Spezia, 5-6/3; Milano, Puccini, 9-21/3; Pavia, 24-25/3; Grosseto, 28/3
Il resto della locandina: Nicola Console, Alice Mangano, Desideria Rayner, ideazione; Andrea Rocca, musiche originali; Mauro Forte, ideazione sonora; produzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
Pregi: coraggio e onestà
Difetti: freddezza, nonostante l’ottima prova d’attore e la creatività delle soluzioni visive; ironia, specie nei filmati, alquanto sforzata
Cameo: nel secondo video, al fianco di Lo Cascio ci sono gli amici, e compagni d’Accademia, Alessio Boni e Fabrizio Gifuni
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