(da Giudizio Universale, versione web)
La dura pièce di Beckett con una splendida interpretazione della Asti
di Igor Vazzaz
Rumore crescente, caotico, misto a sibili di tempesta: l’abbacinante nitore di un velo si solleva. Buio. Lo sguardo sul teatro si carica del suo senso più profondo: vedere le cose che sono nascoste, vertigine azzardata, squarcio allucinato oltre la soglia del quotidiano. Luce. Lo sfondo illuminato a giorno disegna con precisione il profilo aguzzo d’un cumulo al centro della scena. Sembrano lamiere intrecciate o spigolose lingue d’asfalto, come residui stradali d’un terremoto. In vetta all’ammasso, una figura umana: bloccata all’altezza della vita, bloccata, in tutti i sensi, per la vita.
Giorni felici è uno dei testi più ardui di Beckett, successivo sia al periodo francese sia a Krapp’s Last Tape, ritorno alla lingua madre. La critica ne sottolinea sin dal debutto l’asprezza, quasi a rinnegare l’elegante costruzione dei precedenti capolavori absurdisti: Winnie, una donna letteralmente piantata per terra, coltiva la caparbia illusione di un’esistenza felice al fianco, per così dire, del marito Willie, un uomo incapace di deambulare se non strisciando, quasi sempre fuori dalla visuale della consorte. Ironico che, a fronte dei dubbi iniziali, la pièce sia divenuta traguardo per grandi attrici, specie alla soglia della mezza età: Winnie, quasi come Amleto per i colleghi maschi, è il personaggio, sulla scorta degli indimenticabili esempi di Madeleine Renaud, Natasha Perry e, in Italia, di Giulia Lazzarini e Anna Proclemer.
Il dramma pone sin dall’inizio un dilemma: privilegiare la natura estenuante del testo o sottolineare l’assurdità comica d’una così feroce metafora del vivere? Bob Wilson sceglie la prima strada, anche a fronte di alcuni tagli alla partitura originale. Adriana Asti è una splendida Winnie: loquace, sorridente, a tratti materna; il suo volto sbiancato spunta dal centrale intrigo puntuto, sfruttando cromatismi netti e splendenti.
Primo atto insidioso: all’ossessività del testo corrisponde l’assurda serenità della protagonista. Si fatica a entrare nello spettacolo, la fluviale loquela della sciùra giustifica abbondantemente la gutturale laconicità del marito (Yann de Graval) dai monosillabi mugugnati. Il tempo è cristallizzato nell’ininterrotta ciarla della donna, nella sua disperata, commovente felicità. Tutto appare normale, ma niente lo è, né normale né, tantomeno, sensato. Non solo la paradossale esistenza d’una madame infilata nel terreno, ma quella d’ognuno di noi: bloccati in cumuli di terra o macerie, benché illusi di trovar significati o scampoli di presunta serenità.
Secondo atto secco come un rasoio: con Winnie immobilizzata sino al collo, lo strisciare di Willie sino a raggiungerne la vista è sviluppo, canto del cigno, sigillo a un rapporto tanto reale quanto impossibile. Gli accadimenti esterni (i forse eccessivi cambi di luce, il lampo che si staglia immobile nel cielo) non toccano le risibili esistenze quanto quel paradossale momento di contattovisivo, sciolto dal canto del celebre La vedova allegra di Lehàr. La chirurgica costruzione beckettiana, la sua ironia nichilista sono evidenti: cos’è Winnie se non vedova allegra?
La nota migliore di Beckett sta nel feroce senso della misura, nel dire senza dir troppo, pur sfruttando immagini d’inusitata e corrosiva potenza. La regia di Wilson, cui s’accompagna l’ottima prova di Adriana Asti specie nella parte di massima costrizione fisica, ha il gran merito di restituire un testo duro, monologo travestito da pièce dialogata, senza perderne le sfumature profonde, memore forse, per alcune immagini, dell’allestimento che Peter Brook realizzò nel decennio scorso. Avremmo forse potuto, e dovuto, ridere di più, ma a uno spettacolo così ben realizzato non è pensabile chiedere oltre. Da vedere.
(03 Dicembre 2009)
Visto a Prato, Teatro Metastasio, 4 novembre 2009
La dura pièce di Beckett con una splendida interpretazione della Asti
di Igor Vazzaz
Rumore crescente, caotico, misto a sibili di tempesta: l’abbacinante nitore di un velo si solleva. Buio. Lo sguardo sul teatro si carica del suo senso più profondo: vedere le cose che sono nascoste, vertigine azzardata, squarcio allucinato oltre la soglia del quotidiano. Luce. Lo sfondo illuminato a giorno disegna con precisione il profilo aguzzo d’un cumulo al centro della scena. Sembrano lamiere intrecciate o spigolose lingue d’asfalto, come residui stradali d’un terremoto. In vetta all’ammasso, una figura umana: bloccata all’altezza della vita, bloccata, in tutti i sensi, per la vita.
Giorni felici è uno dei testi più ardui di Beckett, successivo sia al periodo francese sia a Krapp’s Last Tape, ritorno alla lingua madre. La critica ne sottolinea sin dal debutto l’asprezza, quasi a rinnegare l’elegante costruzione dei precedenti capolavori absurdisti: Winnie, una donna letteralmente piantata per terra, coltiva la caparbia illusione di un’esistenza felice al fianco, per così dire, del marito Willie, un uomo incapace di deambulare se non strisciando, quasi sempre fuori dalla visuale della consorte. Ironico che, a fronte dei dubbi iniziali, la pièce sia divenuta traguardo per grandi attrici, specie alla soglia della mezza età: Winnie, quasi come Amleto per i colleghi maschi, è il personaggio, sulla scorta degli indimenticabili esempi di Madeleine Renaud, Natasha Perry e, in Italia, di Giulia Lazzarini e Anna Proclemer.
Il dramma pone sin dall’inizio un dilemma: privilegiare la natura estenuante del testo o sottolineare l’assurdità comica d’una così feroce metafora del vivere? Bob Wilson sceglie la prima strada, anche a fronte di alcuni tagli alla partitura originale. Adriana Asti è una splendida Winnie: loquace, sorridente, a tratti materna; il suo volto sbiancato spunta dal centrale intrigo puntuto, sfruttando cromatismi netti e splendenti.
Primo atto insidioso: all’ossessività del testo corrisponde l’assurda serenità della protagonista. Si fatica a entrare nello spettacolo, la fluviale loquela della sciùra giustifica abbondantemente la gutturale laconicità del marito (Yann de Graval) dai monosillabi mugugnati. Il tempo è cristallizzato nell’ininterrotta ciarla della donna, nella sua disperata, commovente felicità. Tutto appare normale, ma niente lo è, né normale né, tantomeno, sensato. Non solo la paradossale esistenza d’una madame infilata nel terreno, ma quella d’ognuno di noi: bloccati in cumuli di terra o macerie, benché illusi di trovar significati o scampoli di presunta serenità.
Secondo atto secco come un rasoio: con Winnie immobilizzata sino al collo, lo strisciare di Willie sino a raggiungerne la vista è sviluppo, canto del cigno, sigillo a un rapporto tanto reale quanto impossibile. Gli accadimenti esterni (i forse eccessivi cambi di luce, il lampo che si staglia immobile nel cielo) non toccano le risibili esistenze quanto quel paradossale momento di contattovisivo, sciolto dal canto del celebre La vedova allegra di Lehàr. La chirurgica costruzione beckettiana, la sua ironia nichilista sono evidenti: cos’è Winnie se non vedova allegra?
La nota migliore di Beckett sta nel feroce senso della misura, nel dire senza dir troppo, pur sfruttando immagini d’inusitata e corrosiva potenza. La regia di Wilson, cui s’accompagna l’ottima prova di Adriana Asti specie nella parte di massima costrizione fisica, ha il gran merito di restituire un testo duro, monologo travestito da pièce dialogata, senza perderne le sfumature profonde, memore forse, per alcune immagini, dell’allestimento che Peter Brook realizzò nel decennio scorso. Avremmo forse potuto, e dovuto, ridere di più, ma a uno spettacolo così ben realizzato non è pensabile chiedere oltre. Da vedere.
(03 Dicembre 2009)
Visto a Prato, Teatro Metastasio, 4 novembre 2009
Spettacolo
Giorni felici, di Samuel Beckett, regia di Robert Wilson, con Adriana Asti e Yann de Graval
Giorni felici, di Samuel Beckett, regia di Robert Wilson, con Adriana Asti e Yann de Graval
Scheda
Prossimamente: Napoli, Mercadante, fino al 6/12; Bari, Piccinni, 9-13/12; Bergamo, Donizetti, 15-20/12; Jesi, Pergolesi, 15-16/1/2010; Pavia, Fraschini, 19-21/1; Como, Sociale, 23-24/1; St.Polten (Austria), Landestheater, 28-29/1; Aosta, Giacosa, 3-4/2; Cremona, Ponchielli, 6-7/2; Piacenza, Municipale, 16-17/2
Il resto della locandina: Jacques Reynaud (costumi e trucco); A. J. Weissbard (disegno luci); Peter Cerone, Emre Sevindik (suono); progetto di Change Performing Arts, commissionato da Spoleto 52esimo Festival dei 2 Mondi e Grand Théâtre de Luxembourg, prodotto da CRT Artificio, Milano
Robert Wilson: regista, drammaturgo, teatrante totale, scultore, artista. Classe 1941, texano, lavora da anni in tutto il mondo ed è uno dei padri dell’avanguardia contemporanea. Tra le mille cose, ricordiamo l’opera Einstein on the Beach, scritta a quattro mani col compositore minimalista Philip Glass. Si veda www.robertwilson.com
Adriana Asti: primadonna del teatro e del cinema non solo italiani; ha recitato con Visconti, Bolognini, Pasolini, Bunuel, De Sica (quello bravo), Strehler, Gassman, ottenendo premi e riconoscimenti unanimi
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