(da www.art-o.net)
Deadline #28. Forme dell’arte colte dal vivo su Fiabe Italiane di John Turturro
di Igor Vazzaz
Un sipario di panni bianchi, spiegati su fili tesi dai palchetti di barcaccia: immagine solare e popolana di un’Italia che, da oltreoceano, conserva i colori arcaici d’una gaia povertà mai scrollatasi di dosso, nell’immaginazione dei figli e dei nipoti di chi affrontò l’emigrazione. Accade, invece, che in Italia si torni, celebri e celebrati, a onorar da artisti il trecentesimo anniversario del Carignano torinese, in una produzione che coinvolge Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Ed è con un ulteriore omaggio alle origini, dopo Questi fantasmi! di Eduardo (Souls of Naples, regia di Roman Paska) del 2005, che John Turturro calca di nuovo le tavole nostrane, assumendosi questa volta pure le responsabilità di regista e coautore drammaturgico.
Il suo variopinto Fiabe italiane, ispirato alle raccolte di Calvino, Basile e Pitrè, rappresenta un banco di prova interessante per considerazioni che vadano al di là d’uno spettacolo condotto con timida educazione dall’italoamericano e che, nell’insoddisfatta ricezione di critica e pubblico, solleva una serie di problemi che val la pena analizzare.
La messinscena: pastiche drammaturgico, intarsio di nove racconti in un composito gioco di piani narrativi, attori (la compagnia di Turturro, con l’aggiunta di alcuni italiani) a dividersi ventagli di personaggi e un’alternanza d’atmosfere in spazio unico, quella scena ben realizzata da Carmelo Giammello al contempo landa terragna, spiaggia, mare e altrove metafisico di incontri fiabeschi. Due principali vicende, protagonisti Antonio e Francesco - fanciulli uniti per sventure ma opposti d’ingegno (Max Casella e Jess Barbagallo) - costituiscono il fil rouge d’un allestimento che se, da un lato, propone una lettura calviniana della funzione favolistica (l’incipit con Turturro che dal fondo della platea cita testualmente l’introduzione dello scrittore alla raccolta del ’56), dall’altro manca quasi del tutto di renderne l’amara complessità, il graffio sanguigno che è parte stessa della nostra concezione fiabesca. A poco valgono le ottime prove degli interpreti, la raffinatezza scenica degli oggetti di Daniela Dal Cin, una delicatezza complessiva che è segno di rispetto, intelligenza e misura.
Questioni di varia entità: a livello teatrale, la drammaturgia è pesante, lenta e, forse, la cosa non dovrebbe sorprendere. Grande attore sul grande schermo, Turturro non è autore in senso stretto: prove registiche alla mano, difetta per autorità narrativa, figurativa, strutturale, tratto principe degli amici Coen, per citare un esempio. Le sue pellicole, si pensi all’ultimo Romance & Cigarettes (2005), benché siano gradevoli, vivono d’intuizioni e trovate senza raggiungere mai lo statuto d’oggetti filmici conchiusi. Costringere in un piano unitario nove fiabe è impresa ad alto coefficiente di rischio, necessitante di tutt’altra maestria drammaturgica: uno Shakespeare, non un Turturro.
L’assenza di fluidità è peraltro gravata dalla babele linguistica in scena: attori americani che si esprimono in inglese (tradotto da sopratitoli) e in un italiano sporcato, a tratti incomprensibile; interpreti italiani sospesi tra dialetti meridionali e lingua nazionale; mélange in potenza interessante, doppio delle difficoltà di Calvino alle prese con la pluralità dialettale del repertorio italiano, ma che ben presto si rovescia in caos idiomatico, costringendo sguardi e orecchi al rimbalzo tra scena e schermo delle traduzioni, sino a compromettere attenzione e gusto.
Il punto più cogente è però un altro: cosa è giusto chiedere a un artista americano che si cimenta con le fiabe italiane? E quali possono essere i suoi scopi poetici nell’allestire uno spettacolo del genere?
L’Atlantico è assai più breve andando da est a ovest che in direzione opposta. Per quanto distorte, mai del tutto veritiere e sempre discutibili, le informazioni che in Italia si hanno degli Usa sono maggiori di quelle che di noi parlano agli americani, specie in ambito artistico. Gli ultimi film italici di maggior diffusione negli States sono stati La vita è bella e il Pinocchio benignesco, entrambi pensati appositamente per pubblico e critica stelle e strisce. La stessa cattività hollywoodiana di Muccino corrisponde all’americanizzazione di un nostro regista più che a una qualsiasi, minima, italianizzazione del loro cinema.
C’è, nell’occhio degli statunitensi rivolto all’esterno, un vizio congenito, una tara, costituita da colpevoli ingenuità e semplicismo (confermati dalla loro politica estera, a prescindere da chi sieda nella Sala Ovale) e alimentata di cliché che la realtà della comunicazione contemporanea non scalfisce né punto né poco. E così, per un artista intelligente come Turturro, da anni habitué dell’Italia, il Belpaese, visto attraverso la lente distorsiva e poetica delle fiabe, è sempre quello scalcinato e terroso d’una povertà desolante e dei panni bianchi stesi al sole.
Ci vedono, e ci leggono, così.
S’aggiunga un altro dato fondamentale e che spiega la faticata fruizione d’una drammaturgia, quella dello spettacolo turturriano, non esente da intoppi: che rapporto abbiamo, oggi, con le nostre fiabe?
Sono ancora lette o partecipano di un retroterra culturale a perdere, sostituite nell’immaginario da cartoni animati, americani o giapponesi, che ignorano del tutto le nostre origini? Fiabe italiane presuppone la conoscenza del materiale originale, pena lo smarrirsi tra filoni narrativi, personaggi disparati, peraltro resi da un numero limitato d’attori, ognuno alle prese con più caratteri. Le storie scelte da Turturro non hanno lo stesso valore iconico di un’Alice carroliana (pensiamo a Disney, ma anche al prossimo Tim Burton), di Cenerentola o di Biancaneve: sono narrazioni seppellite in una memoria occidente, inclini al silenzio, ben oltre il semplice rischio di non parlarci più. È un repertorio perduto, il cui ricupero necessiterebbe d’un lavoro ulteriore rispetto alla semplice (e imperfetta) traslazione scenica. Inevitabile, quindi, la necessità d’un costrutto drammatico assai più forte e d’una pratica teatrale più prossima alle attese della nostra sensibilità. Non sosteniamo che il teatro debba essere necessariamente localistico, tutt’altro: ma è evidente come l’operazione di Turturro fosse tarlata alla radice da una serie non indifferente di questioni, tutte ampiamente prevedibili.
L’ulteriore domanda da porre è, dunque: a chi avrebbe dovuto rivolgersi lo spettacolo? Data la committenza, la risposta sembra scontata: al pubblico italiano. Eppure l’allestimento non ci ha parlato, e la consonante ricezione di pubblico e critica lo testimonia. In questo senso, sarà interessante vedere l’accoglienza newyorkese di Italian Folktales: non è da escludere che, con altro destinatario, il “messaggio” possa acquisire rinnovata vitalità e senso differente. Quanto a queste repliche italiane (allo Streheler di Milano e al Mercadante di Napoli) difficile immaginarsi una reale crescita della performance, dato che i limiti intravisti non sembrano afferire a problemi d’un meccanismo da rodare, quanto a difetti strutturali, impossibili da eludere.
Eppure Fiabe italiane sarà, al contrario di altri, uno spettacolo che ricorderemo: di questo ne siamo certi ed è lecito chiedersi perché.
Al pari degli spettatori che hanno con noi assistito alla visione, abbiamo registrati emozione, rispetto, fiato sospeso. Ma ne abbiamo condiviso pure le espressioni poco convinte a fine recita, le recensioni amarognole, la perplessità diffusa aleggiante nella dorata sala del Carignano.
Ricorderemo Italian Folktales principalmente per un solo motivo: la dimensione di evento, il contatto diretto con una star cinematografica, la natura ultraterrena rappresentata dalla presenza di un divo, stella peraltro non afferente all’universo mainstream inviso a certo snobismo nostrano, ma, anzi, partecipe d’una costellazione d’attori di un cinema colto e popolare al contempo, paradigma che gli Stati Uniti coltivano con assai maggior naturalezza di quanto accada in Italia.
E per quanto il teatro mantenga la sua essenza di forma espressiva residuale, problematica, necessariamente politica, effimera, legata alla presenza fisica e, dunque, tetragona alla comunicazione massmediale, il caso Turturro rappresenta in tutto e per tutto una specie di sconfinamento, di minuta deriva verso il sensazionalistico, sciente ricorso a quella Societé du Spectacle che scampo non offre né possibilità di fuga.
Non si tratta di mero provincialismo, critica mossa da più d’un osservatore dello spettacolo e dell’intera operazione, ma d’un punto debole, forse tuttora sottovalutato, di un sistema culturale che ha smarrito sé stesso, sia per ciò che concerne le proprie narrazioni archetipiche (le ormai fiabe ignote di Calvino, Basile e Pitré) sia nelle insidie d’un bisogno pneumatico, in un periodo di crisi e sale spesso semivuote, di individuare strategie efficaci per creare interesse, curiosità e attenzione rispetto alle proprie proposte. Rivolgersi a John Turturro, artista che amiamo e rispettiamo, rappresenta quindi la cartina di tornasole d’una fragilità produttiva e creativa di cui ci pare inevitabile, e forse utile, occuparci, senza nascondimenti di sorta dietro i numeri incoraggianti dei biglietti venduti.
(12 febbraio 2010)
Spettacolo
Fiabe italiane (Italian Folktales)
liberamente ispirato alle Fiabe italiane di Italo Calvino e alle favole di Giambattista Basile e Giuseppe Pitrèscritto da Katherine Borowitz, Carl Capotorto, Max Casella e John Turturro
con:
Jess Barbagallo (Francesco), Katherine Borowitz (Mamma, Regina delle fate del Lago di Creno, Principessa, Megera), Max Casella (Antonio), Richard Easton (Vecchio, Orco, Drago, Ubriaco),
Erika La Ragione (Morte, Giocatore, Mendicante), Aurora Quattrocchi (Nonna, Fata), Giuliano Scarpinato (Diavolo, Dottor Pancrazio, Fratelli di Francesco), Aida Turturro (Zia, Fata Marina, Megera, Antonietta), Diego Turturro (Ragazzino, Figlio dell’Oste, Bastone), John Turturro (Principe Granchio, Oste, Bel Principe)
regia: John Turturro
scene: Carmelo Giammello
costumi e oggetti di scena: Daniela Dal Cin
luci: Luca Bronzo
musiche eseguite dal vivo dalla Compagnia Artistica La Paranza del Geco, ossia Simone Campa (voce, chitarra battente, flauti, percussioni tradizionali), Sergio Caputo (violino, mandolino, mandola) e Angelo Palma (voce, chitarra classica)
assistente alla regia: Paola Rota
assistente alla scenografia: Emanuela Vicentini
con la collaborazione di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, OPEN DOOR
soprattitoli in italiano a cura di Prescott Studio Firenze, traduzione: Rossella Bernascone
prodotto da Fondazione del Teatro Stabile di Torino/ Teatro Stabile di Napoli con il sostegno di MIBAC
di Igor Vazzaz
Un sipario di panni bianchi, spiegati su fili tesi dai palchetti di barcaccia: immagine solare e popolana di un’Italia che, da oltreoceano, conserva i colori arcaici d’una gaia povertà mai scrollatasi di dosso, nell’immaginazione dei figli e dei nipoti di chi affrontò l’emigrazione. Accade, invece, che in Italia si torni, celebri e celebrati, a onorar da artisti il trecentesimo anniversario del Carignano torinese, in una produzione che coinvolge Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Ed è con un ulteriore omaggio alle origini, dopo Questi fantasmi! di Eduardo (Souls of Naples, regia di Roman Paska) del 2005, che John Turturro calca di nuovo le tavole nostrane, assumendosi questa volta pure le responsabilità di regista e coautore drammaturgico.
Il suo variopinto Fiabe italiane, ispirato alle raccolte di Calvino, Basile e Pitrè, rappresenta un banco di prova interessante per considerazioni che vadano al di là d’uno spettacolo condotto con timida educazione dall’italoamericano e che, nell’insoddisfatta ricezione di critica e pubblico, solleva una serie di problemi che val la pena analizzare.
La messinscena: pastiche drammaturgico, intarsio di nove racconti in un composito gioco di piani narrativi, attori (la compagnia di Turturro, con l’aggiunta di alcuni italiani) a dividersi ventagli di personaggi e un’alternanza d’atmosfere in spazio unico, quella scena ben realizzata da Carmelo Giammello al contempo landa terragna, spiaggia, mare e altrove metafisico di incontri fiabeschi. Due principali vicende, protagonisti Antonio e Francesco - fanciulli uniti per sventure ma opposti d’ingegno (Max Casella e Jess Barbagallo) - costituiscono il fil rouge d’un allestimento che se, da un lato, propone una lettura calviniana della funzione favolistica (l’incipit con Turturro che dal fondo della platea cita testualmente l’introduzione dello scrittore alla raccolta del ’56), dall’altro manca quasi del tutto di renderne l’amara complessità, il graffio sanguigno che è parte stessa della nostra concezione fiabesca. A poco valgono le ottime prove degli interpreti, la raffinatezza scenica degli oggetti di Daniela Dal Cin, una delicatezza complessiva che è segno di rispetto, intelligenza e misura.
Questioni di varia entità: a livello teatrale, la drammaturgia è pesante, lenta e, forse, la cosa non dovrebbe sorprendere. Grande attore sul grande schermo, Turturro non è autore in senso stretto: prove registiche alla mano, difetta per autorità narrativa, figurativa, strutturale, tratto principe degli amici Coen, per citare un esempio. Le sue pellicole, si pensi all’ultimo Romance & Cigarettes (2005), benché siano gradevoli, vivono d’intuizioni e trovate senza raggiungere mai lo statuto d’oggetti filmici conchiusi. Costringere in un piano unitario nove fiabe è impresa ad alto coefficiente di rischio, necessitante di tutt’altra maestria drammaturgica: uno Shakespeare, non un Turturro.
L’assenza di fluidità è peraltro gravata dalla babele linguistica in scena: attori americani che si esprimono in inglese (tradotto da sopratitoli) e in un italiano sporcato, a tratti incomprensibile; interpreti italiani sospesi tra dialetti meridionali e lingua nazionale; mélange in potenza interessante, doppio delle difficoltà di Calvino alle prese con la pluralità dialettale del repertorio italiano, ma che ben presto si rovescia in caos idiomatico, costringendo sguardi e orecchi al rimbalzo tra scena e schermo delle traduzioni, sino a compromettere attenzione e gusto.
Il punto più cogente è però un altro: cosa è giusto chiedere a un artista americano che si cimenta con le fiabe italiane? E quali possono essere i suoi scopi poetici nell’allestire uno spettacolo del genere?
L’Atlantico è assai più breve andando da est a ovest che in direzione opposta. Per quanto distorte, mai del tutto veritiere e sempre discutibili, le informazioni che in Italia si hanno degli Usa sono maggiori di quelle che di noi parlano agli americani, specie in ambito artistico. Gli ultimi film italici di maggior diffusione negli States sono stati La vita è bella e il Pinocchio benignesco, entrambi pensati appositamente per pubblico e critica stelle e strisce. La stessa cattività hollywoodiana di Muccino corrisponde all’americanizzazione di un nostro regista più che a una qualsiasi, minima, italianizzazione del loro cinema.
C’è, nell’occhio degli statunitensi rivolto all’esterno, un vizio congenito, una tara, costituita da colpevoli ingenuità e semplicismo (confermati dalla loro politica estera, a prescindere da chi sieda nella Sala Ovale) e alimentata di cliché che la realtà della comunicazione contemporanea non scalfisce né punto né poco. E così, per un artista intelligente come Turturro, da anni habitué dell’Italia, il Belpaese, visto attraverso la lente distorsiva e poetica delle fiabe, è sempre quello scalcinato e terroso d’una povertà desolante e dei panni bianchi stesi al sole.
Ci vedono, e ci leggono, così.
S’aggiunga un altro dato fondamentale e che spiega la faticata fruizione d’una drammaturgia, quella dello spettacolo turturriano, non esente da intoppi: che rapporto abbiamo, oggi, con le nostre fiabe?
Sono ancora lette o partecipano di un retroterra culturale a perdere, sostituite nell’immaginario da cartoni animati, americani o giapponesi, che ignorano del tutto le nostre origini? Fiabe italiane presuppone la conoscenza del materiale originale, pena lo smarrirsi tra filoni narrativi, personaggi disparati, peraltro resi da un numero limitato d’attori, ognuno alle prese con più caratteri. Le storie scelte da Turturro non hanno lo stesso valore iconico di un’Alice carroliana (pensiamo a Disney, ma anche al prossimo Tim Burton), di Cenerentola o di Biancaneve: sono narrazioni seppellite in una memoria occidente, inclini al silenzio, ben oltre il semplice rischio di non parlarci più. È un repertorio perduto, il cui ricupero necessiterebbe d’un lavoro ulteriore rispetto alla semplice (e imperfetta) traslazione scenica. Inevitabile, quindi, la necessità d’un costrutto drammatico assai più forte e d’una pratica teatrale più prossima alle attese della nostra sensibilità. Non sosteniamo che il teatro debba essere necessariamente localistico, tutt’altro: ma è evidente come l’operazione di Turturro fosse tarlata alla radice da una serie non indifferente di questioni, tutte ampiamente prevedibili.
L’ulteriore domanda da porre è, dunque: a chi avrebbe dovuto rivolgersi lo spettacolo? Data la committenza, la risposta sembra scontata: al pubblico italiano. Eppure l’allestimento non ci ha parlato, e la consonante ricezione di pubblico e critica lo testimonia. In questo senso, sarà interessante vedere l’accoglienza newyorkese di Italian Folktales: non è da escludere che, con altro destinatario, il “messaggio” possa acquisire rinnovata vitalità e senso differente. Quanto a queste repliche italiane (allo Streheler di Milano e al Mercadante di Napoli) difficile immaginarsi una reale crescita della performance, dato che i limiti intravisti non sembrano afferire a problemi d’un meccanismo da rodare, quanto a difetti strutturali, impossibili da eludere.
Eppure Fiabe italiane sarà, al contrario di altri, uno spettacolo che ricorderemo: di questo ne siamo certi ed è lecito chiedersi perché.
Al pari degli spettatori che hanno con noi assistito alla visione, abbiamo registrati emozione, rispetto, fiato sospeso. Ma ne abbiamo condiviso pure le espressioni poco convinte a fine recita, le recensioni amarognole, la perplessità diffusa aleggiante nella dorata sala del Carignano.
Ricorderemo Italian Folktales principalmente per un solo motivo: la dimensione di evento, il contatto diretto con una star cinematografica, la natura ultraterrena rappresentata dalla presenza di un divo, stella peraltro non afferente all’universo mainstream inviso a certo snobismo nostrano, ma, anzi, partecipe d’una costellazione d’attori di un cinema colto e popolare al contempo, paradigma che gli Stati Uniti coltivano con assai maggior naturalezza di quanto accada in Italia.
E per quanto il teatro mantenga la sua essenza di forma espressiva residuale, problematica, necessariamente politica, effimera, legata alla presenza fisica e, dunque, tetragona alla comunicazione massmediale, il caso Turturro rappresenta in tutto e per tutto una specie di sconfinamento, di minuta deriva verso il sensazionalistico, sciente ricorso a quella Societé du Spectacle che scampo non offre né possibilità di fuga.
Non si tratta di mero provincialismo, critica mossa da più d’un osservatore dello spettacolo e dell’intera operazione, ma d’un punto debole, forse tuttora sottovalutato, di un sistema culturale che ha smarrito sé stesso, sia per ciò che concerne le proprie narrazioni archetipiche (le ormai fiabe ignote di Calvino, Basile e Pitré) sia nelle insidie d’un bisogno pneumatico, in un periodo di crisi e sale spesso semivuote, di individuare strategie efficaci per creare interesse, curiosità e attenzione rispetto alle proprie proposte. Rivolgersi a John Turturro, artista che amiamo e rispettiamo, rappresenta quindi la cartina di tornasole d’una fragilità produttiva e creativa di cui ci pare inevitabile, e forse utile, occuparci, senza nascondimenti di sorta dietro i numeri incoraggianti dei biglietti venduti.
(12 febbraio 2010)
Spettacolo
Fiabe italiane (Italian Folktales)
liberamente ispirato alle Fiabe italiane di Italo Calvino e alle favole di Giambattista Basile e Giuseppe Pitrèscritto da Katherine Borowitz, Carl Capotorto, Max Casella e John Turturro
con:
Jess Barbagallo (Francesco), Katherine Borowitz (Mamma, Regina delle fate del Lago di Creno, Principessa, Megera), Max Casella (Antonio), Richard Easton (Vecchio, Orco, Drago, Ubriaco),
Erika La Ragione (Morte, Giocatore, Mendicante), Aurora Quattrocchi (Nonna, Fata), Giuliano Scarpinato (Diavolo, Dottor Pancrazio, Fratelli di Francesco), Aida Turturro (Zia, Fata Marina, Megera, Antonietta), Diego Turturro (Ragazzino, Figlio dell’Oste, Bastone), John Turturro (Principe Granchio, Oste, Bel Principe)
regia: John Turturro
scene: Carmelo Giammello
costumi e oggetti di scena: Daniela Dal Cin
luci: Luca Bronzo
musiche eseguite dal vivo dalla Compagnia Artistica La Paranza del Geco, ossia Simone Campa (voce, chitarra battente, flauti, percussioni tradizionali), Sergio Caputo (violino, mandolino, mandola) e Angelo Palma (voce, chitarra classica)
assistente alla regia: Paola Rota
assistente alla scenografia: Emanuela Vicentini
con la collaborazione di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, OPEN DOOR
soprattitoli in italiano a cura di Prescott Studio Firenze, traduzione: Rossella Bernascone
prodotto da Fondazione del Teatro Stabile di Torino/ Teatro Stabile di Napoli con il sostegno di MIBAC
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