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giovedì 17 gennaio 2008

Ovadia, un Novecento da esiliato al fianco di Brecht, Benjamin e Kafka

(da loschermo.it)
PRATO - Al Metastasio, Le storie del Signor Keuner, pastiche multimediale in cui il celebre attore s’interroga sulla realtà contemporanea, tra lazzi grotteschi, canzoni espressioniste e mafiosi russi, in continuo dialogo con teatro, letteratura e saggistica

Un palco senza sipario, in cui campeggia una scena tripartita in senso verticale dal pallido color iuta. Sulla sinistra, un manichino-mummia, inerte; sulla destra un vecchio decrepito siede a un tavolino di fronte a una macchina da scrivere. Vicino a quest’ultima, una rosa rossa. A circa due metri dal suolo, una bizzarra costruzione che attraversa tutto l’arco scenico, alla stregua di un binario su cui far scorrere carrelli e oggetti, futuro doppio del palco sottostante. Oltre questo insieme di sbarre, due schermi, ai lati, in cui iniziano a scorrere delle didascalie, i titoli di testa dell’allestimento, alla stregua di un film o, meglio, di un allestimento brechtiano.

Ovadia propone una lettura plurale di quello che fu un diario intimo di Bertolt Brecht, prima esule negli Stati Uniti per fuggire la persecuzione nazista, poi, beffardamente, esule in patria, di ritorno a Berlino, nell'amara constatazione che quel comunismo non corrispondeva affatto all’ideale tanto sperato, per cui egli stesso aveva lottato e scritto.
Tra questi due differenti esili, di natura opposta ma dall’analogo scacco morale, Moni Ovadia inserisce un’ipotesi di riflessione che usa l’atmosfera grottesca dell’espressionismo tedesco come trampolino di lancio per riferirsi all’oggi, al mondo contemporaneo. Senza, ed è un bene, la fregola dell’attualità banalizzata, piuttosto con l’emergenza di pensare e (ri)pensare un mondo complicato come l’attuale.

È forse in questo senso che la mise en scéne s’ispira evidentemente alla parcellizzazione dei segni, alla contemporaneità degli stimoli sensoriali: infatti, mentre gli schermi propongono stralci delle Storie del titolo lette da personaggi del nostro tempo (tra cui Alessandro Bergonzoni, Massimo Cacciari, Gherardo Colombo, Gino Strada, Milva e Oliviero Diliberto), Lee Colbert, cantante espressionista, si esibisce in perfetto stile da Kabarett teutonico sul palco a mezz’aria, mentre la Moni Ovadia Stage Orchestra, i cui membri sono grottescamente agghindati in muliebri costumi rossi con tanto di seni finti, suona e gli attori danzano, declamano, parlano. Un caos che replica quello della comunicazione, della molteplicità degli stimoli, dell’impossibilità d'uno sguardo che riesca a contenere tutto, a dominare la scena.
È necessario scegliere, valutare, giudicare.

In questo cortocircuito di parole, suoni e immagini, Ovadia, completo scuro, filosofeggia di teatralità brechtiana, citando ampiamente gli scritti del Maestro sulla recitazione straniata, sul rapporto attore-personaggio, sull’essenza intima del teatro epico. Al fianco, un irresistibile Ivo Bucciarelli nei panni del vetusto custode di un museo d’arte socialista, Roman Siwulak è un attore orfano del grande Tadeusz Kantor, ormai ridottosi a pantomima di se stesso, mentre Maxim Shamkov è un pingue mafioso russo appassionato d’arte, dalle metamorfosi repentine e risibili, che lo portano a entrare in scena vestito da ballerino alle prese con improbabili e buffi jeté.

In un periodo confuso, in cui l’arte non basta più a confrontarsi col mondo, è necessario che a essa s’accompagnino saggistica e letteratura: seguendo tale suggestione godardiana, Ovadia e Roberto Andò (al pari dell’attore, coautore dello spettacolo) tessono una fitta trama di relazioni tra l’opera brechtiana, le sue suggestioni, i precetti teatrali del Dramaturg, e brani di Franz Kafka, fratello nemico dell’autore tedesco. All’esilio, politico e umano, dell’uno, corrisponde l’esilio come condizione permanente ed esistenziale dell’altro, nella sua comica e tragica dimensione di-sperata.
Trait d’union tra i due artisti, sia in vita sia nell’allestimento, le teorie di Walter Benjamin, filosofo, saggista, traduttore, pensatore raffinato e profondo, morto suicida sul confine francospagnolo durante una fuga dalla persecuzione. Benjamin, ebreo, comunista, studioso di Baudelaire, Nietzsche, della mistica ebraica, è stato uno dei più grandi intellettuali del Novecento per ciò che concerne la riflessione letteraria e artistica (da leggere la raccolta Angelus Novus, il cui titolo è tratto da un dipinto di Paul Klee) rappresenta nello spettacolo una sorta di chiave di volta, di personaggio (evocato con citazioni, riferimenti e addirittura la narrazione della morte da parte del curatore intellettualoide interpretato da Moni Ovadia) necessario e fondamentale per carpire il senso dell’allestimento, che, va detto, non è suggerito, propugnato dagli autori.

A fronte di escursioni finali che toccano anche l’attualità, la fatale e innegabile collusione tra capitalismo e guerra, lo spettacolo, non mondo da qualche perdonabile lungaggine, riesce nel suo intento, ossia quello di porre innanzitutto un quesito allo spettatore che, a sua volta, è costretto a collaborare con la scena per giungere a una riflessione. Non si deve credere, peraltro, che l’allestimento, così privo di progressione narrativa (di trama), frammentario nello stile epico o cabarettistico (chiaro riferimento alla temperie culturale dell’autore evocato), sia poi noioso, ché numerosi sono i momenti di alleggerimento, in cui l’orchestra en travesti recita la parte del leone.
In questo senso, l’operazione di Ovadia è integralmente brechtiana, impreziosita dal fatto d’esser frutto di una rielaborazione, giacché Le storie del signor Keuner non furono pensate per la scena, riconducendo a quell’assunto paradossale, condiviso a suo tempo anche da Benjamin, per cui, sovente, per essere fedeli a un artista, o a un pensatore, è necessario tradirlo, pur di mantenere in vita lo spirito del suo lavoro.
Il pubblico, divertito e per niente stanco, ha applaudito e dimostrato di aver apprezzato.

Visto a Prato, Teatro Metastasio, il 16 gennaio 2008.

Spettacolo
Le storie del signor Keuner
di Bertolt Brecht
traduzione Roberto Menin
uno spettacolo di Roberto Andò e Moni Ovadia
con Moni Ovadia, Lee Colbert, Roman Siwulak, Maxim Shamkov, Ivo Bucciarelli e con la Moni Ovadia Stage Orchestra (Luca Garlaschelli - contrabbasso; Janos Hasur - violino; Massimo Marcer - tromba; Albert Mihai - fisarmonica; Vincenzo Pasquariello - pianoforte; Paolo Rocca - clarinetto; Marian Ŝerban - cymbalon; Emilio Vallorani - flauti/percussioni)
portavoce in video del signor Keuner: Alessandro Bergonzoni, Massimo Cacciari, Gherardo Colombo, Philippe Daverio, Daniele Del Giudice, Oliviero Diliberto, Dario Fo, Arnoldo Foà, Don Gallo, Claudio Magris, Michele Michelino, Milva, Eva Robins, Sergio Romano, Sabina Rivetti, Roberto Scarpinato, Gino Strada, Annamaria Testa
scene: Gianni Carluccio
costumi: Elisa Savi
luci: Gigi Saccomandi
repertorio video: Luca Scarzella
suono: Mauro Pagiaro
arrangiamenti: Mario Arcari, Emilio Vallorani, Vincenzo Pasquariello, Massimo Marcer
direzione musicale: Emilio Vallorani
realizzazione video: Elisa Savi
paesaggi sonori: Marco Olivieri
regista assistente: Gabriele Tesauri
assistente alla regia: Tiziana Di Masi
assistente ai costumi: Tommaso Lagattolla
produzione: Nuova Scena - Arena del Sole - Teatro Stabile di Bologna / ERT - Emilia Romagna Teatro Fondazionein collaborazione con il Mittelfest 2006

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