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giovedì 31 gennaio 2008

La Hedda Gabler di Elena Bucci: la drammatica impossibilità del tragico

(da loschermo.it)
SCANDICCI (Firenze) - La compagnia Le belle bandiere di Elena Bucci e Marco Sgrosso alle prese con il capolavoro ibseniano Hedda Gabler, un allestimento allucinato in cui la nuda scena teatrale smaschera l’ipocrisia salottiera e borghese: quella dell’epoca (1890) e anche la nostra

S’inizia con una visione, confusa e ipnotica: sul fondale scuro di una scena scarna ai limiti dell’inverosimile, un cicaleccio di voci, sovrapposte e polifoniche, accompagna il crescendo di una fredda luce che miscela blu e bianco. Otto presenze, umane o demoniche?, danno vita a un torrente di voci, descrivendo, ma questo lo si percepisce solo dopo che l’orecchio si è abituato al brusio granuloso delle parole, la situazione. Gli attori, agghindati in fogge retro degne dei migliori salotti fine Ottocento, sovrappongono frasi, indicazioni didascaliche del testo ibseniano, e descrivono l’immaginaria scena con dovizia di particolari. In realtà sono seduti su otto sedie, all’estremità opposta della scena rispetto al pubblico. Magnificano le nozze di Hedda Gabler, desiderata e avvenente figlia di un importante generale, con Jørgen Tesman, intellettuale di belle speranze ma dall’incerto presente. I personaggi, di cui nulla ancora sappiamo, parlano, sino a che una signora agghindata con un buffo cappello, zia di Tesman, si reca al centro della scena, in corrispondenza di un quadrato perfetto disegnato sul pavimento: riporta la storia, la racconta, e gli altri, sempre sul fondo, le fanno da coro. Ne emendano le parole, intervengono, chiosano. In attesa dell’epifania della protagonista che, anch’essa seduta, offre soltanto le spalle nude verso gli spettatori.

La scena diviene scacchiera, spazio magico di linee pavimentali cui corrispondono rapporti di forza, distanze, scarti. Al dialogo tra Tesman e la zia, Hedda si volta, inizia a camminare. È bella, sensuale e spaventosa, i passi cadenzati, felini: femme fatale il cui caschetto di capelli corvini riporta la mente un po’ la Uma Thurman di Pulp Fiction. I personaggi si animano, danno vita a movimenti coreografici, concertati, a metà tra una dimensione onirica e movenze da carillon.

La storia è, peraltro, nota: Hedda, sposata malvolentieri con Tesman, è personaggio femminile complicato, moderno in senso assoluto: scaltra e tormentata, aggressiva e fragile, preda di eventi che tenta invano di governare. La (ri)comparsa di un vecchio e più talentuoso "avversario" accademico di Tesman, l’affascinante ed ex alcolizzato Eilert Løvborg (Roberto Marinelli), fa precipitare una situazione apparentemente tranquilla in una spirale di verità inconfessate, odi ipocriti, tranelli e bugie che termina con due morti: quella di Eilert, spinto al (mancato) suicidio dall’aver smarrito l’unico originale del proprio capolavoro letterario ritrovato e celatogli da Hedda e Tesman, e quella della protagonista, sconfitta, impossibilitata ad altra azione se non a quella del sacrificio, del rifiuto estremo di una vita falsa, dettata da convenienze e rapporti di forza coatti, senza scampo.

L’allestimento di Elena Bucci sottolinea compiutamente la violenza sottesa nei rapporti umani, amplificata dalla totale nudità della scena, un grado zero teatrale in cui gli oggetti, la villa (che sarebbe l’ambiente in cui si svolge il dramma), sono evocati ma mai presenti alla vista del pubblico. Tutto traspare, per lo spettatore, e la mente va a quel Dogville di Lars Von Trier, opera filmica in cui il discusso regista danese dava prova di somma padronanza di linguaggio teatrale. Se le linee della scena dettano i rapporti di forza tra personaggi, i dialoghi celano, spiazzano, mentono: sono sempre testa a testa tra due, massimo tre personaggi, quasi che le linee pavimentali segnassero un ring immaginario in cui disputare degli incontri di boxe.
La Hedda di Elena Bucci è, peraltro, magnifica: profonda, bovariana, scaltra e sofferta, eppure mai, mai ammirevole, quasi a voler mantenere l’occhio del pubblico in una dimensione di algida distanza, di ironica critica comportamentale. È a proprio agio anche Marco Sgrosso nei panni marionettistici di Tesman, sospeso tra un bonario ottimismo e il presagio strisciante di una tragedia imminente e irrealizzabile: pur nell’abisso degli accadimenti volti al precipizio, i personaggi mancano il tragico, mancando del tragico. Anche nella rievocazione di potenti immagini shakespeariane (dall’insinuante Lady Macbeth ad Amleto, di cui Hedda è spesso considerata muliebre interpolazione moderna), l’inettitudine del personaggio contemporaneo (chiave classica di letteratura e teatro novecenteschi) impedisce alla storia l’interezza del tragico, la sua assoluta fatalità. Gli uomini si ritraggono, sfuggono, facendo della mediocrità la propria cifra comportamentale. Ed è per questo che Ibsen, anche in un allestimento come quello di Bucci e Sgrosso, apprezzabile per recitazione e per le opzioni scenografiche ma ancora troppo distante per sfondare nelle emozioni dello spettatore, riesce sempre a parlare (anche) della nostra umanità.
Applausi convinti.

Visto a Scandicci, Teatro Studio, il 30 gennaio 2008.

Spettacolo
Hedda Gabler
di Henrik Ibsen
regia: Elena Bucci, con la collaborazione di Marco Sgrosso
progetto ed elaborazione drammaturgica: Elena Bucci e Marco Sgrosso
con Elena Bucci, Maurizio Cardillo, Roberto Marinelli, Salvatore Ragusa, Giovanna Randi, Marco Sgrosso, Elisabetta Vergani
disegno luci: Maurizio Viani costumi: Ursula Patzak
assistente all’allestimento: Francesco Ghiaccio, con l’aiuto di Giulia Torelli
direttore tecnico e datore luci: Loredana Oddone
direttore di scena e macchinista: Giovanni Macis
elettricista fonico: Valentina Bruno
amministrazione: Marco Sgrosso
sarta: Marta Benini
produzione: Compagnia Le Belle Bandiere

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