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a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

mercoledì 14 gennaio 2009

Il Macbeth di Lavia, ossessiva metafora del teatro

(da teatro.org)
Lavia e Shakespeare, un rapporto ultratrentennale, intenso e ininterrotto, sin dal debutto registico dell’artista milanese, nel 1975, con Otello. Il Bardo è autore che consente a Lavia di approfondire, puntualizzare e sottolineare i propri assunti filosofici e teatrali, una riflessione che parte dalla scena per abbracciar la vita. Del resto, meno d’un anno fa il Verdi di Pisa, ormai seconda casa per l’attore e regista, l’aveva visto prodursi in una serie di “letture-spettacolo” di Amleto, performance ricche di divagazioni che superavano talvolta le cinque ore.
In sala, l'attenzione è subito catturata dagli oggetti ai lati del proscenio: a sinistra, una toilette da attore, sedia, specchio con luci e lavabo; a destra, un caos d’abiti appesi e bauli da trovarobe. Poco distanti, due sottili assi di legno consentono la discesa verso la platea, ponte ideale tra immaginazione e realtà.
Un sipario arretrato a scorrimento verticale si apre su una scena spoglia e buia, ove si susseguono pochi elementi: grossi specchi dalle pesanti cornici, la scarna alcova reale, il tavolo del banchetto, le tombe di un cimitero. Lo spazio pensato dallo scenografo Alessandro Camera è desolato, quasi metafisico, a più riprese occultato dalle pesanti coltri di fumo, conseguenze di mattanze belliche e presagio di presenze infernali. Al regicidio che innesca la tragedia, crollano quinte nere e fondali, svelamento che sottolinea la nudità oscena (nell’etimo, inventato da Carmelo Bene, ossia fuori scena) del teatro, la sua dimensione di sguardo gettatto sull’abisso umano. Un'ulteriore struttura trasparente a macchie scure contribuisce inoltre ad allontanare alcune scene dall'occhio dello spettatore, conferendo loro una dimensione onirica.

Patetico attore alla ricerca della propria identità, nell'ostentare la maschera d’un potere impossibile da controllare, il Macbeth di Lavia si muove con esibito impaccio sulla scena; l’inesorabile corsa verso la morte lo vede indossare e dismettere con frenesia gli abiti della parte da recitare: un goffo cappotto di pelle con spalle enormi, le scarpe con zeppe vertiginose, una corona di carta in capo. Non re sanguinario, ma buffone, clown dallo sguardo a tratti spiritato, che la cipria spruzzata alla meglio sul viso contribuisce a enfatizzare, sfumando in momenti di triste sorriso.
La recitazione è polifonica, in contrasto con la desolazione sonora d'una partitura musicale che accompagna discreta l’intera recita. A gesti nervosi e guizzanti, il protagonista (mirabile per tenuta fisica e prestanza, data l’età anagrafica tutt’altro che verde) associa una declamazione ambivalente in cui un’ironia amara e lunare s’alterna a momenti d’enfasi marcata, così come in occasione dei monologhi più celebri sottoposti a una (ormai consueta) contaminazione metashakesperiana, mediante citazioni da Re Lear e altri capisaldi del Bardo.
Al fianco del re usurpatore, Giovanna Di Rauso è una Lady Macbeth elastica e felina, cui ben s’applica la ribelle zazzera biondo platino: la recitazione è convulsa, esasperata nello stridulo timbro vocale e nei movimenti disarmonici. All’inizio superiore per risolutezza e autorità rispetto al marito, pure la consorte è man mano preda del vortice del travestimento, imprigionata nella maschera che da sola si è costruita.
I personaggi che gravitano intorno ai due risultano privi di spessore, senza identità nella neutra tenuta militare (costumi firmati da Andrea Viotti) che li omologa gli uni agli altri: viene da chiedersi se davvero esistano o non siano piuttosto proiezioni d’un cupo incubo scenico. Il Gioco del teatro, con la sua connotazione metamorfica, si realizza in modo compiuto nella triplice e aspra presenza delle streghe (Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani), esili figure, sfrontate nella loro nudità, che compaiono in forme sempre cangianti: cameriere, sicari, vecchie, ad anticipare la conclusiva disfatta.

Il Macbeth laviano è, al contempo, discorso sul teatro e parabola metateatrale, nel proporre lo sdoppiamento del protagonista dalla dimensione regale della storia a quella, non scevra dal ridicolo, d’un attore che occhieggia e spunta da un baule, costantemente fuori posto, fuori parte, fuori gioco. Destino infame, quello del teatrante, e paradossale: dar vita a personaggi che debbano sempre avere più consistenza di sé, più verità d’una vita spesa in camerini anonimi, stanze da letto sempre diverse, deriva tanto ricercata quanto ignota alla “gente comune”.
Lavia sfrutta lacerti di Carmelo Bene, nell’esibizione comica della sostanza teatrale, del trovarobato scenico (si pensi ai vari Amleti del genio salentino), ma anche richiami, nella recitazione a tratti sostenuta, ad “altri Shakespeare” moderni, da Laurence Olivier sino a Kenneth Branagh.
Peccato che lo spettacolo (ricordiamo come attenuante che si tratta pur sempre d'una prima nazionale) sembri incepparsi, a tratti, e risulti, alla fin fine, piuttosto manieristico: Macbeth è testo talmente consacrato da consentire e consigliare ben più coraggio, e da Lavia sarebbe consentito attendersi qualcosa di più d'un allestimento che sembra dire “Vorrei, ma non posso”.

Visto a Pisa, Teatro Verdi, il 10 gennaio 2009.
(recensione di Igor Vazzaz e Silvia Cosentino)

Spettacolo
Macbeth
di William Shakespeare
traduzione: Alessandro Serpieri
regia: Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Giovanna Di Rauso, Maurizio Lombardi, Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano, Mario Pietramala, Alessandro Parise, Michele Demaria, Daniel Dwerryhouse, Fabrizio Vona, Andrea Macaluso, Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani
scene: Alessandro Camera
costumi: Andrea Viotti
musiche: Giordano Coràpi
luci: Pietro Sperduti
produzione: Compagnia Lavia Anagni

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