(da teatro.org)
Due colpi di pistola. Due spari fuori scena, probabilmente in testa, all’infame accoltellatore di Antonio Barracano, sindaco in quello sprofondo di case, cunicoli e vasci che è la Sanità, rione–cerniera tra l’ormai borghese Vomero e il brulicante centrocittà partenopeo.
L’esecuzione dell’assassino, offerta al pubblico in forma sonora, è l’aggiunta, unita all'accennata e irrispettosa ribellione d'uno scugnizzo nei confronti del boss durante il primo atto, che la regia di Carlo Giuffrè applica a questo mirabile testo eduardiano, preciso, pulito, essenziale.
Che senso ha, oggi, portare in scena Il Sindaco del Rione Sanità, dopo la sovraesposizione mediatica di Gomorra, dopo Raffaele Cutolo, dopo la guerra tra clan che dagli anni Ottanta insanguina non solo la Campania? La realtà contemporanea, quella della camorra attuale, organizzazione mafiosa meglio adattatasi alla deregulation liberista in fatto di lavoro economia, i cui boss si definiscono imprenditori e commissionano ville ispirate allo Scarface di De Palma, fa sembrare il mammasantissima di Eduardo una foto sbiadita, un personaggio perduto nel tempo, quando essere òmmo poteva avere ancora senso. Ed è certo quel braccio teso a puntar la pistola verso un Barracano di spalle, la più realistica tra le esigue invenzioni originali di questo allestimento: ribellione ignobile e vigliacca che fotografa la realtà attuale di mafie ormai prive di qualsiasi senso dell'onore e si fa figura del tradimento finale.
La scenografia di Aldo Terlizzi è cangiante sotto le luci che, all’inizio, filtrano da altri ambienti rispetti allo stanzone centrale d’una masseria di campagna, a Terzigno, in cui il caotico formicolio dei personaggi (un andirivieni tra familiari del protagonista, medico raisonneur e pigolante corte a mendicar giustizia dal boss) crea movimento già nel pieno della notte, sfruttando la gran copia di porte e ingressi laterali. Il pastello ocra livido, in una notte di rappresaglie tra scugnizzi e operazioni chirurgiche improvvisate, sfuma in soffici tonalità terree all’entrata di Barracano, capozona all’antica, ministro d’una giustizia utopica d’ispirazione e pratica d’applicazione.
La figura del Pater familas, costante nella poetica di Eduardo, ha in questo sindaco concretizzazione complessa: Barracano è personaggio difficile, ossimoro vivente, nella definizione di Anna Barsotti, di quel capo–famiglia e capo–comico che era, in realtà, il suo creatore. I tre atti della commedia consumano un passaggio epocale, la fine d’un regno: la scena della vestizione mattutina è, pur stemperata dalle gag con la fida governante Immacolata (la precisa Antonella Lori), cerimonia ieratica, solenne, mentre l’evolversi della trama, sino alla coltellata traditrice fuori scena (da copione, al contrario degli spari), sancisce l’inizio d’una nuova epoca, alla ricerca di un nuovo, e irrealizzabile, ordine.
In rilievo, rispetto al sanguinoso tramonto del protagonista, la storia dello sfiduciato dottor Della Ragione (Alfonso Liguori, geometrico per interpretazione e centratura vocale) che passa dall’anelare una fuga tardiva e velleitaria, lui medico sessantenne da trent’anni sotto copertura chirurgo della mala, alla volontà, ancor più disperata, d’una resistente permanenza in loco, nella sventurata denuncia dei misfatti che lo circondano.
Tragedia in forma di commedia, Il sindaco è, da un lato, l’affresco feroce d’una realtà in cancrena, cui Eduardo non offre soluzioni o lenitivi, ma solo la maestria chirurgica del suo occhio indagatore d’umanità; dall’altro, è una rappresentazione della morte, parabola occidente d’un sovrano che più non riconosce le macerie in cui è vissuto, mortificante sanzione della frattura tra Io e Mondo.
Giuffrè è un Barracano estenuato ma non domo: la recitazione è scandita, scientemente faticata, forse con eccessivi indugi, ma i movimenti centrano il côté regale del personaggio, suo vero status teatrale. Non convince, piuttosto, la scansione imposta al testo: ignorare la tripartizione originale, condensando in un’estenuante prima parte i primi due atti, non giova affatto al ritmo. Si finisce per appesantire la parte centrale della pièce, in cui il protagonista espone la propria Weltanschauung.
La messinscena risulta macchinosa, troppo pesante: le oltre due ore filate non sono certo rese più scorrevoli dalla recitazione, segno che la struttura forse non facilita neppure il compito degli attori. Per contro, il terzo atto è di rapidità alfieriana, quaranta minuti scarsi, ambientato in un interno rétro, dominato dal verde intenso dei tendaggi in opposizione al bianco della tavola imbandita: vi cenano i personaggi principali, spettatori impreparati della recita d’addio di un Barracano intenzionato a non innescare l’ennesima e inutile faida.
Allestimento “tradizionale”, che offre al pubblico niente di più di quanto ci si aspetti: onesto, forse, ma certo non coraggioso, al di là della doppia (e in fondo superflua) esplosione finale. Come quasi sempre avviene in questi casi, la “salvezza” è assicurata da quel mirabile esempio di meccanica drammaturgica minuziosamente costruita che è la scrittura di Eduardo, struttura portante di provata solidità.
Viene però da chiedersi: siamo sicuri che lui, osservando silente da un utopico e inesistente Aldilà dei Teatranti, scimmiottando il mondo come nel finale de Gli esami non finiscono mai, sarebbe soddisfatto da questi allestimenti tanto scolastici quanto inerti? Lecito dubitare.
Il gran pregio dei classici, e Eduardo appartiene a pieno titolo alla categoria, sta nella spiazzante flessibilità, la loro attualità teatrale e artistica. E per tale ragione è raro assistere a buone realizzazioni dei testi dell’attautore napoletano.
Un classico non meriterebbe d’esser riproposto, per quanto con zelo, ma attraversato e tradito, nel senso di tradotto e reinventato: De Filippo, forse, attende ancora un interprete degno di sé.
Visto a Lucca, Teatro del Giglio, il 24 gennaio 2009
Spettacolo
Il sindaco del Rione Sanità
di Eduardo De Filippo
regia di Carlo Giuffrè
con Carlo Giuffrè, Antonella Lori, Piero Pepe, Alfonso Liguori, Massimo Masiello, Vincenzo Borrino, Gennaro Di Biase, Roberta Misticone, Enzo Romano, Aldo De Martino
scene e costumi: Aldo Terlizzi
musiche originali: Francesco Giuffrè
produzione: Diana Or.I.S.
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