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martedì 7 luglio 2009

Lo spettacolo della morte. Anatomia teatrale del suicidio politico

La morte è concetto paradossale, limite asintotico della riflessione umana: la si può immaginare, evocare, produrre e infliggere, ma difficilmente la si riesce a pensare. La nostra contemporaneità, avida di reale comunicazione ma congestionata di voci, suoni, grida e colori, la rimuove semplicemente, rubricandola ad alterità ignota, col risultato che, quand’essa prorompe inevitabilmente nell’esperienza, si resta muti, immoti e anestetizzati.
Tra le discipline artistiche, il teatro è quella più prossima alla morte, all’evocazione d’un dolore primigenio e insopprimibile, lambito tramite il registro altisonante della tragedia o attraverso la profondità misterica del comico. E la scena stessa è quel luogo liminare ove i morti ricompaiono attraverso ritualità definite.

Histoire de ma mort. Preparativi per la scena madre di Paola Marcone ha quindi il merito di scoprire le carte e tentare un coraggioso corpo a corpo con un soggetto tanto ordinario e straordinario dell’esperienza, optando per una sua peculiare declinazione, quella della morte scelta, autoimposta e fattasi “spettacolo”, a scopo politico, di rivendicazione e di sacrificio.

È già il primo quadro, successivo a una videoproiezione di cornice indicante titolo e inizio della recita, a denunciare la natura eminentemente teatrale dell’allestimento: due incerti e comici becchini tentano, con risibili risultati, di spostare la bara in cui è riposto il corpo d’Ofelia. Valerio Amoruso dall’indovinata postura deforme, arlecchinesca, accompagnata da un grottesco grammelot gutturale, e Matteo Vagelli si alternano in buffe sequenze di reiterazione gestuale, disquisendo sulla natura del suicidio della ragazza e la discussa decisione di darne regolare sepoltura ancorché suicida. Il dialogo, intervallato dagli inutili sforzi di sollevare la cassa, s’interrompe al rintocco dei colpi nel legno cui consegue la spettrale apparizione della defunta: costume rosso, vistosa gorgera da personaggio carroliano, parrucca ingombrante, Paola Marcone (ri)dà vita a un’Ofelia rapida e squittente, alla stregua di certe interpretazioni muliebri di Anna Marchesini. L’interazione tra le tre figure è altamente comica, forse memore di certe variazioni su tema scespiriano di Tom Stoppard, minando dall’interno la seriosità (non la serietà) del tema. Altrettanto d’improvviso, il quadro si chiude alla stregua d’una prova aperta, con tanto di voce dal banco mixer a dare il via libera agli attori: cambio di costume a vista, ecco i tre comparire dietro allo schermo trasparente, in corrispondenza di altrettanti microfoni: Amoruso a sinistra, Vagelli al centro, Marcone a destra.

Ha quindi inizio una sorta di concerto vocale, in cui lacerti testuali, monologhi spezzati rimbalzano da una voce all’altra, fondendosi e confondendosi a brani musicali e proiezioni video. Lo spettacolo si fa paratassi straziata nell’evocazione visiva, verbale e sonora, d’un dolore sociale, politico, a unire martiri suicidi: dall’italiano Lauro De Bosis (spesso ignorato dalle nostre scuole) al ceco Jan Palach sino a Wafa Idris, prima donna kamikaze lasciatasi esplodere a Gerusalemme nel 2002.

Gli attori s’alternano in brevi lacerti scenici, i movimenti plastici e convulsi creano effetti visivi sia grazie ai fari verticali, che circoscrivono i rispettivi spazi in gabbie di fasci luminosi, sia alle ottime proiezioni, sgranate e sofferte, di Giacomo Verde. Le immagini riflesse doppiano, differenziandosi per dettagli o inquadratura, le figure degli stessi attori, rendendo il quadro visivo vertiginoso e spiralico, alimentando la drammaticità dell’allestimento. Le musiche, quasi tutte registrate con l’eccezione di alcuni interventi rumoristici e psichedelici di Vagelli alla chitarra elettrica, seguono l’andamento dei testi e finiscono per creare ripetute dinamiche in crescendo, indugiando forse eccessivamente sull’effetto climax, tanto che lo spettacolo sembra chiudere svariate volte prima della didascalia finale, un’ultima proiezione che decreta il termine della performance.

L’allestimento è pregevole, al netto di alcuni inevitabili dettagli da meditare, dato che si tratta, lo dice il titolo stesso, di preparativi: il teatro è anche questo, ossia produrre lavori in fieri, a livello di studio, per sondarne efficacia, direzione e potenzialità espressive.
Histoire de ma mort si dimostra intuizione fruttuosa, in cui i testi risultano forse meno efficaci del potente apparato audiovisivo: al di là di considerazioni prettamente politiche sul senso del suicidio e del sacrificio pubblico, che meriterebbero un congruo spazio, l’impressione è che la paradossalità comportata dalla morte si riverberi proprio nella difficoltà di verbalizzazione del problema. La parola è logos, ma anche sistema retorico che veicola e imbriglia qualsiasi senso profondo, di frequente banalizzato nella sua traduzione verbale in depotenziata ridondanza; là dove si ha l’impressione che si voglia dire troppo, suono, corpo, voce e immagini riescono in qualche modo a precedere e trasmettere in maniera più efficace, diretta, l’impatto profondamente emozionale ed espressivo.
Spettacolo che ha il merito e il coraggio di provarci, la cui esperienza speriamo possa giovare all’eventuale scena madre che ne conseguirà.

Visto a Buti, Teatro Francesco di Bartolo, il 30 giugno 2009.

Spettacolo
Histoire de ma mort. Preparativi per la scena madre
con Valerio Amoruso, Paola Marcone e Matteo Vagelli
direzione tecnica: Riccardo Gargiulo
ambientazione sonora: Fabio Bartolomei
video: Giacomo Verde
costumi: Fondazione Cerratelli
foto: Raoul Terilli
drammaturgia e regia: Paola Marcone
produzione: Bubamara Teatro e Teatro Francesco di Bartolo di Buti

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