PISTOIA – Al Teatro Bolognini Racconti, solo racconti di Ugo Chiti, con la sua storica compagnia Arca Azzurra Teatro. Spettacolo che fonde narrazione, azione scenica e ottima recitazione con il gusto nero delle storie del drammaturgo chiantigiano, a ulteriore conferma della bravura della compagnia e del suo autore
Il racconto a teatro assume necessariamente un contorno paradossale. Da un lato, esso è una delle principali strategie di seduzione che l’attore ha nei confronti dello spettatore. Non si deve per forza scomodare Fo e i suoi mitici Affabulatori del lago per capire quanto la narrazione sia il grado zero della comunicazione teatrale: un uomo racconta storie di fronte ad altri uomini, questo basta a fare se non il teatro, almeno un teatro. D’altro canto, narrare rappresenta uno scarto rispetto a quello specifico scenico che è la drammatizzazione, ossia la visione di personaggi che, senza commenti esterni, didascalie o altre indicazioni, danno vita a un’azione o, ancor meglio, a un atto. Per questi, e molti altri motivi, ciò che è stato definito teatro di narrazione rappresenta un fenomeno chiave della nostra drammaturgia contemporanea, filone fecondo (e ormai ampiamente sfruttato) che ha permesso a una generazione di nuovi attori e autori (Celestini, Enia, Cosentino, ma anche il più attempato Marco Paolini) di segnalarsi a livello nazionale, svincolandosi dalle pastoie produttive che da decenni paralizzano la scena nostrale.
Racconti, solo racconti, allestimento del 2006 al secondo anno di tournée, rappresenta quindi uno spettacolo doppiamente interessante. In primo luogo, perché si tratta di un lavoro di Ugo Chiti (uno dei nostri maggiori autori teatrali) e della sua storica compagnia Arca Azzurra Teatro, formata da attori che ci hanno da sempre abituati a standard di bravura non solo alti, ma differenti rispetto a ciò che si vede in giro per i palcoscenici.
Chiti, in più, è toscano, terragno, la sua lingua s’avviluppa, si sprofonda nelle incavature sonore d’un vernacolo reinventato, antipodico al fiorentino d’esportazione di certa bolsa comicità da cartolina. La sua lingua si fa carico di tutta la magia d’una Toscana nera, aggrappata a parole che sono gli ultimi sterpi agguantati da chi precipita in un borro: non è vernacolo in senso stretto, non fotografa, non campiona, non registra un linguaggio esistente, bensì lo filtra poeticamente alla ricerca d’una lingua teatrale, che trova compimento nel corpo dell’attore. Per questo, forse, Chiti non è scrittore da pagina o, meglio, il Chiti teatrale (che ha il difetto d’esser pure bello da leggere) necessita ineluttabilmente dell’attore in scena, sia esso il massiccio Salvianti, baritonale e risoluto, o il Frosali in grado di passare da partigiano a parrucchiere omosessuale, con struggente verità, eleganza, senza quella patologia insoffribile della recitazione che è il cliché.
Quattro storie, tutte alla Chiti, e quindi dure, a doppio fondo, in cui il perturbante trasuda sin da principio. Il sesso, il sangue, la violenza della cultura contadina, l’orrore umano dei rastrellamenti nazisti, il tragicomico smarrimento d’uno scemo di guerra a contatto con un coiffeur di mezz’età cui il cuore non smette di battere all’impazzata. Storie umane e disumane al tempo stesso, giacché l’uomo risulta essere un impasto doloroso di pulsioni irresolute e per questo comico e al contempo tragico. C’è una toscanità di fondo anche in questa dimensione che diremmo esistenziale della trama chitiana, uno struggente pessimismo innervato di compassione, quasi a tirar le fila con certo Machiavelli teatrale, quando non con un Boccaccio amaro, due autori polari nella costellazione regionale che Chiti ben conosce e ha variamente attraversato . Non che manchino riferimenti altri nell’opera del chiantigiano: da Shakespeare a Rabelais, da Wilde a Pasolini, senza trascurare certe nervature veriste, ma il discorso rischia di esulare dalle finalità della presente recensione.
Ci sono alcuni aspetti che colpiscono, in questo intenso Racconti, solo racconti: innanzitutto la raffinatezza, in grado di affrontare con tatto ed eleganza temi terribili (su tutti la pedofilia) senza mai sputtanarli in banalità, cosa che avviene di norma ogni giorno sui media d’ogni fatta. Dal punto di vista scenico, è interessante la strategia sfruttata da Chiti per svincolarsi dalle insidie della narrazione: mescidare racconto e dialogo, impiegando una frammentazione del soggetto in cui l’attore passa da narratore a personaggio in slittamenti progressivi che implicano grande maestria recitativa. Nell’ultima storia, poi, si nota un ulteriore preziosismo semantico, giacché il ruolo di protagonista passa, senza traumi né forzature inutilmente virtuosistiche, dal polveroso e irresistibile fool bellico di Alessio Venturini al già citato parrucchiere omosessuale di Frosali, in una dissolvenza incrociata a tradurre comicità e disperata dolcezza, una compassione che è forse la gemma preziosa della dimensione umana di questi racconti. Scene e luci sono misurate, ridotte al minimo, ma appropriate, ben in grado di supportare la recitazione e le storie, vere protagoniste dell’allestimento. Di grande suggestione il telo bianco ondeggiante prima dell’ultima scena, un effetto di bianca marina spumosa (benché il riferimento balneare sia tutto nostro, senza riscontri nella vicenda) che ci ha fatto venire in mente quel poco che abbiamo visto nelle foto di un mitico spettacolo dei Giancattivi, L’isola di ieri (1979), di cui Chiti era non a caso scenografo.
Gli attori poi, non ci stanchiamo di ripeterlo, sono proprio bravi, ma soprattutto differenti dalla media scenica italiana: si sposano perfettamente alla lingua chitiana, alla dimensione scarnificante e dolorosa delle storie. Ottime le attrici, dalla lupa toscana di Giuliana Colzi, alla madre ossuta e lancinata d’una becera e umana Lucia Socci, attrice che non manca mai di stupirci per l’ampio spettro di soluzioni recitative a disposizione.
Il pubblico applaude e per una volta tanto siamo in totale sintonia con esso. Fare teatro è possibile, narrare è possibile, e non è sempre necessario impiegare scene e costumi dispendiosi: bisogna avere qualcosa da dire e la bravura necessaria per esprimerlo.
Visto il 7 marzo 2008, a Pistoia, Teatro Bolognini.
Spettacolo
Racconti, solo racconti
di Ugo Chiti
con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Alessio Venturini
regia: Ugo Chiti
produzione: Arca Azzurra Teatro
Foto: courtesy Arca Azzurra Teatro
Racconti, solo racconti
di Ugo Chiti
con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Alessio Venturini
regia: Ugo Chiti
produzione: Arca Azzurra Teatro
Foto: courtesy Arca Azzurra Teatro
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