(da loschermo.it)
CASCINA (Pisa) – I Sacchi di Sabbia hanno presentato, in occasione di Frontiere in Metamorfosi presso La Città del Teatro, il nuovo spettacolo ispirato alla saga malese di Emilio Salgari resa ancor più celebre dalla versione televisiva di Sergio Sollima (1974, protagonista Kabir Bedi). L’avventurosa vicenda della Tigre di Mompracem si svolge attorno a un tavolino colmo di… verdura: abbiamo assistito alla filata, la prova generale dello spettacolo
CASCINA (Pisa) – I Sacchi di Sabbia hanno presentato, in occasione di Frontiere in Metamorfosi presso La Città del Teatro, il nuovo spettacolo ispirato alla saga malese di Emilio Salgari resa ancor più celebre dalla versione televisiva di Sergio Sollima (1974, protagonista Kabir Bedi). L’avventurosa vicenda della Tigre di Mompracem si svolge attorno a un tavolino colmo di… verdura: abbiamo assistito alla filata, la prova generale dello spettacolo
C’è qualcosa di imprendibile e geniale nel teatro dei Sacchi di Sabbia, nella loro capacità poetica (là dove poesia deriva dal greco poiesis, relativo ai concetti di creazione demiurgica, produzione e inventiva) di ricreare la realtà, proponendo in modi sempre sorprendenti una riflessione profonda sul senso dell’agire e del teatro. L’aspetto chiave del lavoro di Giovanni Guerrieri e compagnia è il tipo di lavoro scenico–linguistico, basato su sintagmi rapidi, sottrazioni di senso, veri e propri agguati alla logica, sia dei testi assunti sia degli spettatori che assistono ai loro spettacoli.
Dopo l’eccellente 1939, ambientato in una Pisa fascista in attesa di visita ministeriale con tanto di gruppuscolo terroristico in fregola per un tentativo d’attentato senza costrutto, i Sacchi solo apparentemente sembrano cambiare strada, buttandosi su qualcosa di classico. Che poi, troppo classico non è, dato che riprendere Salgari e Sandokan, il suo eroe più popolare grazie alla serie tv, rappresenta comunque un confronto con un’icona forte dell’immaginario popolare collettivo degli ultimi decenni.
Attorno a un tavolo casalingo, ordinario e anonimo, compare Giulia Gallo. Non vi sono arredi scenici peculiari. Arriva Gabriele Carli con sacchetti colmi di verdura: sembra la classica spesa compiuta dall’ortolano sotto casa. Iniziano a stendere alcuni ortaggi sul tavolo, impugnando i coltelli e apparecchiandosi al taglio. Parlano compunti, serissimi, esaminando di volta in volta le verdure lestamente affettate. Le parole, però, sono in evidente conflitto con ciò che accade: navi inglesi, occupazione, Tigre di Mompracem e Perla di Labuan. L’effetto è dapprima straniante, per poi progredire verso una comicità assurda, surreale, ma sempre avvolgente. Entra Enzo Illiano, allampanato, con l’aria di chi si trova lì per puro errore: ma le parole, anche in questo caso, sono quelle di Salgari (nella riscrittura di Guerrieri). L’effetto cresce, si carica di un senso inesplicabile. Il pubblico è pian piano trascinato nel gioco in questione: si partecipa dell’intreccio esotico, dando credito e consistenza alla reinvenzione applicata dagli improbabili personaggi in scena. Patate infilzate con stuzzicadenti divengono soldati al servizio, le carote sono combattenti dal bellissimo profilo, in una ridda interminabili di attribuzioni sospese tra il folle e il grottesco.
Entra, alfine, Sandokan, Giovanni Guerrieri, serissimo, baffo dalinien d’ordinanza, bello, ma anch'egli come gli altri dimesso nella quotidianità del (non) costume scenico. È lui la Tigre della Malesia e il Grand Jeu dell’allestimento si spinge al suo limite estremo: la trama salgariana si dipana in tutta la sua compresenza d'avventura e sentimento, azione guerresca e intreccio amoroso. I personaggi, per altro, rimbalzano su e nei corpi attorici: l’attribuzione interprete–carattere non è fissa, tutt'altro, soprattutto per Illiano e Giulia Gallo. D’efficacia assoluta i contrasti evidenti e ridicolosi tra espressione facciale e parola, maschera e verbo, ora intriso di sangue ora di passione. Guerrieri, pur bello nella sciatteria del controverso personaggio (re)interpretato, rende ottimamente la comica dissonanza tra voce e presenza, alla stregua di certe immagini di Peppino De Filippo, o dell’Eduardo nell’improbabile divisa militare di Napoli milionaria.
Potrebbero fare tv, i Sacchi, se solo volessero o potessero. Se solo l’Italia non fosse un paese dagli ambienti impermeabili, a tenuta stagna e, tendenzialmente, paralizzati. In scena funzionano, eccome: la recitazione, non è una novità, è ottima, limata, precisa, impreziosita da un perfetto senso del tempo. Le idee non mancano, anzi: sono sempre impasti fecondi e stimolanti d’absurdismo mai banale. Sono bravi, forse troppo perché, alla fine, risultano inclassificabili, come trent’anni fa i Giancattivi di Alessandro Benvenuti, rispetto ai quali sono diversi, pur con alcuni significativi punti di contatto: il trio fiorentino al nord era considerato carne da cabaret, a Roma comicità toscana, al sud teatro di ricerca. Era, ed è, questa, la condanna di chi non solo è bravo, ma anche originale. Peccato, però, a esser tali in un paese che ragiona per etichette, quando va bene, e sponsor più o meno occulti.
Con i Sacchi di Sabbia il terrore del critico è avanzare un’ipotesi circa la chiave interpretativa, vero e proprio mistero delle loro messinscene. Ci si alza sempre dalla poltroncina col dubbio tarlato di cosa si sia realmente visto. Il che, sia chiaro, è un gran bene, anzi, una rarità assoluta nel mondo spettacolare contemporaneo: si deve aggiungere, per completezza, che i loro allestimenti son sempre stimolanti, rapidi, divertenti e mai banali. Il senso, però, è un enigma, spesso anche per gli stessi artisti, che propongono opere d’arte senza la presunzione di governarle in toto, chiamando quindi il pubblico a svolgere, una volta tanto, il proprio ruolo autentico, quello di collaboratore irrinunciabile all’evento estetico. Non è poco.
Questo Sandokan non fa eccezione: chi sono queste quattro presenze (sei in realtà, ricordando l’intervento metateatrale di Giulia Solano a sfondare la quarta parete, e lo svelto passaggio marziale di Federico Polacci), buffe e ben poco adatte (dal punto di vista dell’avventura), che animano la scena per la durata dello spettacolo? Sono questi i protagonisti della storia, precipitati nel contrappasso surreale di un’improbabile e metafisica cucina di un non ben definito au-delà, oppure siamo di fronte al sogno impossibile di quattro guitti disgraziati e sognatori? Il dubbio è per fortuna irrisolto, consegnato al pubblico quale regalo prezioso che uno spettacolo teatrale (e qualsiasi opera d’arte degna di tal nome) può tributare alla pazienza e all’attenzione dello spettatore. Applausi convinti, che sottoscriviamo con soddisfazione.
Visto il 31 maggio, a Pisa, Teatro di Sant'Andrea (prove generali dell'allestimento).
Spettacolo
Sandokan
liberamente tratto da Le Tigri di Mompracem di Emilio Salgari
scrittura scenica Giovanni Guerrieri con la collaborazione di Giulia Gallo e Giulia Solano
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri,Enzo Illiano, Giulia Solano
tecnica: Federico Polacci
costumi: Luisa Pucci
Produzione: I Sacchi di Sabbia/Compagnia Lombardi-Tiezzi, in collaborazione con Teatro Sant’Andrea di Pisa, La Città del Teatro, Armunia Festival Costa degli Etruschi e con il sostegno della Regione Toscana
Sandokan
liberamente tratto da Le Tigri di Mompracem di Emilio Salgari
scrittura scenica Giovanni Guerrieri con la collaborazione di Giulia Gallo e Giulia Solano
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri,Enzo Illiano, Giulia Solano
tecnica: Federico Polacci
costumi: Luisa Pucci
Produzione: I Sacchi di Sabbia/Compagnia Lombardi-Tiezzi, in collaborazione con Teatro Sant’Andrea di Pisa, La Città del Teatro, Armunia Festival Costa degli Etruschi e con il sostegno della Regione Toscana
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