Turandot è, infatti, un testo chiave nel lavoro del compositore lucchese, l’ultimo indiscusso grande autore del melodramma che, proprio con questo capolavoro, sancisce di fatto la fine di una storia lunga di oltre tre secoli, quella dell’opera lirica. Ed è con Turandot, in pieno Novecento (vi lavora dal ’19 al ’24), che Puccini compie uno sforzo inedito, dal punto di vista sia della concezione scenica sia della composizione sonora. Contraddicendo la sua supposta vena realistica, nutrita di sentimenti, di storie profondamente umane, per il soggetto egli si rivolge al mondo favolistico orientale, filtrato dal settecentesco veneziano Carlo Gozzi: sceglie dunque una favola, una storia in cui i personaggi sono sì portatori di sentimenti, ma talmente assoluti e titanici, da sospettare che ci si trovi di fronte a presenze simboliche più che a caratteri in senso tradizionale. La storia dell’amore di Calaf per la crudele principessa e del sacrificio supremo che Liù compie per il proprio amato e desiderato sovrano travalicano i meccanismi “meramente” psicologici dei precedenti capolavori pucciniani, senza però contraddirli del tutto. È come se ci trovassimo in una nuova e altra dimensione del comportamento: Calaf è un innamorato ma anche qualcosa di più, un quid ulteriore, e così gli altri principali attanti del dramma, la stessa Turandot e, ovviamente, la vera eroina della storia, Liù. E non è, forse, un caso, che sia la morte di Liù a segnare definitivamente la conclusione della scrittura pucciniana: terminata la scena in cui la donna si sacrifica per amore e per un altro amore, il Maestro non scrive più niente. Non possiamo certo dire se per scelta o per la criticità delle condizioni fisiche, ma sta di fatto che oltre non andò, che l’opera fu terminata da Franco Alfano e che alla prima del 1927, Arturo Toscanini si fermò in quel punto e, rivolgendosi al pubblico, dichiarò, non senza sorpresa degli spettatori: “L'opera finisce qui perché a questo punto Puccini è morto”, senza più proseguire.
Di fronte alla densità d’un simile capolavoro, è quindi da encomiare lo sforzo registico di Brockhaus, quell’incipit svolto su una marina versiliese, con tanto di gelataio e di passeggio di primo Novecento: l’irruzione dei clown, che suonano un gong, prima e non ultima chinoiserie di un’opera basata sul gusto per l’orientale all’epoca in voga da vari decenni, che distribuiscono maschere, costumi (firmati da Stefania Tosi) e ruoli, sembra ricuperare Puccini alla sua dimensione vera e più intima: la scrittura per il teatro, com’egli stesso aveva confidato all’amico Adami. Puccini è infatti indissolubile dalla scena, dalle invenzioni visive e dai movimenti, è teatrale, assai più (e meglio) di molti illustrissimi suoi precedessori: per questo l’inizio di Brockhaus, pur forse troppo lungo, è bello, indovinato e, conditio sine qua non d’ogni “invenzione” registica, non gratuito.
Da qui, si dipana un dramma vivido, ricco di movimenti, con un carrozzone centrale che diviene simbolo dell’intrattenimento circense e palazzo regale, alle cui spalle campeggia un nuvoloso cielo marittimo che sembra uscito dal pennello d’un macchiaiolo, frutto del lavoro scenografico di Ezio Toffolutti di concerto con la già citata Stefania Tosi.
La direzione dello slovacco Oliver von Dohànnyi è ordinata, i passaggi fluidi e potenti, così come ottimo l’apporto, sia musicale sia scenografico, del Coro del Teatro Sociale di Rovigo diretto da Giorgio Mazzuccato. Qualche perplessità, invece, destano le coreografie firmate da Maria Cristina Madau, con qualche indulgenza sincretica in eccesso e non sempre un’adeguata sicurezza d’esecuzione.
Visto a Livorno, Teatro Goldoni, il 15 maggio 2009.
Spettacolo - Opera lirica
Turandot
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
musica di Giacomo Puccini, testo di Giuseppe Adami e Renato Simoni; musiche terminate da Franco Alfano
con Giovanna Casolla (Turandot), Francesco Hong (Calaf), Rachele Stanisci (Liù), Ping (Walter Franceschini), Pong (Max-René Cosotti) e Pang (Cristiano Olivieri), Elia Todisco (Timur), Jean Méning (clown)
orchestra: Filarmonica Veneta G. F. Malipiero
direzione orchestrale: Oliver von Dohánnyi
coro: Coro del Teatro Sociale di Rovigo diretto da Giorgio Mazzucato
scenografia: Ezio Toffolutti
costumi: Stefania Tosi
coreografie: Maria Cristina Madau
regia: Henning Brockhaus
produzione: Opera di Roma - Teatro Sociale di Rovigo; in coproduzione con Fondazione Teatro Goldoni, Teatro dell’Opera Giocosa di Savona,
Teatro Sociale di Trento, Teatro Comunale di Bolzano, Teatro Comunale di Vicenza