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giovedì 10 febbraio 2011

Un'eroina protofemminista

(da Giudizio Universale)
Isabella, la protagonista dell'Italiana in Algeri di Gioacchino Rossini, trionfa con l'astuzia su un mondo maschile guidato dai soli appetiti sessuali
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Caleidoscopica, brillante, vorticosa, L’Italiana in Algeri data sulle pregiate tavole del Maggio Fiorentino. E la città gigliata sancisce pure in questa stagione un legame privilegiato con una Catalogna d'allestitori visionari e coraggiosi: se nella precedente erano state le fantasie ipertecnologiche della Fura dels Baus a illustrare con scioccanti megaschermi la potenza di due quarti del Ring wagneriano (Siegfried e Götterdämmerung, diretti da Mehta), poco fa è stata la volta dell'indimenticabile capolavoro rossiniano, che ha usufruito della ludica creatività di Els Comediants, storica formazione barcellonese alle soglie del quarantesimo anno d'attività.
 
Primo capitolo di una radicale e inimmaginabile rivoluzione dell'opera buffa, L'Italiana rappresenta nel 1813 l'ulteriore e decisiva conferma per un ventunenne Rossini avviato ai massimi successi: difficile rendere compiutamente conto di quanto il pesarese fosse considerato già in vita; si pensi che Stendhal, nella biografia dedicatagli, arriva a paragonarlo a Napoleone per la capacità fulminea di conquistarsi pubblico e consenso generali.
In un periodo in cui si temeva che il teatro musicale, specie quello comico, avesse esaurito soluzioni e temi, Rossini s'abbatte sul panorama coevo, mercato incluso, da autentico ciclone: undici opere in meno di tre anni, un'esuberanza creativa capace di denotare assoluta padronanza compositiva e impressionante senso del teatro, caratteristica mai abbastanza sottolineata nell'autore marchigiano. L'arco di tempo tra 1813 e '17 (oltre all'Italiana, Il Turco in Italia, del '14, Il Barbiere di Siviglia, del '16, e La Cenerentola) seppellisce un'opera comica legata, in Italia, a una tradizione localistica, per segnare una rinnovata sensibilità a un genere che troverà ulteriore sviluppo solo in terra di Francia, nazione che proprio Rossini provvederà a stregare.

L'Italiana non è un soggetto originale, dato pochi anni prima con musiche di Luigi Mosca su libretto di Angelo Anelli: è per salvare in extremis il programma del teatro veneziano San Benedetto (in seguito ribattezzato, non a caso, Rossini) che il giovane compositore scrive i due atti di getto, non mancando di metter mano alla struttura drammaturgica. Il tema del naufragio felice e dell’amore coronato in terra ostile (quell'ambientazione turchesca che continuava ad affascinare il pubblico italico) era ampiamente sfruttato sin dall'antichità, ma, nella declinazione rossiniana, acquisisce un'inedita gamma cromatica, merito d'una partitura freschissima in grado di rivitalizzare situazioni e personaggi, a partire dalla meravigliosa Isabella, astuta e pervicace, modello d'eroina protofemminista e autentica dea ex machina dell'intreccio.
 Alla corte di Algeri, il meschino e lascivo Bey Mustafà ripudia la moglie Elvira, per darla in sposa allo schiavo italiano Lindoro e procurarsi un'agognata donna italiana. L’arrivo, a seguito d'assalto corsaro, d'una barca italiana introduce l'irresistibile Isabella, già innamorata di Lindoro, scortata dal cicisbeo Taddeo (anch'egli di lei invaghito) e subito bramata dal tiranno arabo. S'innesca una trama a incastro perfetto che vedrà la protagonista sfruttare le proprie doti d'ammaliatrice per eludere l'unione col Bey, coronare l’amore per Lindoro e impartire una mirabile lezione di condotta e dignità a Elvira, nel completo trionfo dell'astuzia muliebre su un mondo maschile preda d'appetiti sessuali e incapace d’elaborare strategie in situazioni problematiche. Rossini conduce il gioco con scrittura ariosa, ricca d’impennate, senza cedere mai al sentimentalismo e rivelandosi geniale nelle arie a più voci, in quelle scene di folla che costituiscono, per impatto travolgente ed efficacia teatrale, il valore aggiunto dell'opera. Modernissima quest’Italiana, in cui si rintraccia l’elaborazione delle lezioni di Mozart e Haydn, compositori centrali per la precoce formazione del maestro pesarese, e che già pare gravida d’un sentimento nazionale, arricchito dal topos del confronto tra due culture, una barbarica e ingiusta, l’altra civilizzata e moderna.
Tale ricchezza di temi rende di per sé interessantissima qualsiasi messinscena dell’opera: senza voler cadere nella misera contemplazione dell’attualità politica, in cui gli intrecci col sesso sono da decenni all’ordine del giorno e quindi non necessariamente legati alle recenti vicende del nostro Papino il Breve, la questione del rapporto tra diverse civiltà e, soprattutto, del ruolo della donna, sono argomenti per niente esauriti e, anzi, qui trattati con profondità e, soprattutto, mirabile sorriso.
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La ridotta (nel rispetto della partitura originale) Orchestra del Maggio, sotto la guida di Enrique Mazzola affronta l’arcinota ouverture con timidezza forse eccessiva, specie nello staccare il tempo. L’apertura del sipario regala agli occhi uno spazio ampio, a ricordare un immenso hammam in cui le numerose figure umane (il Coro del Maggio, ben diretto come di consueto da Piero Monti) indossano ingombranti copricapi sferici. Già s’intuisce come la regia di Joan Font sarà all’insegna del movimento e del colore, complice la sapiente coreografia di Xevi Dorca: spostamenti rapidi, ottimamente concertati, vivacità tutta da gustare sia per gli spunti affidati alla recitazione sia per una costruzione di quadri in cui si riconoscono tratti naïf e un certo gusto pop per niente fastidioso. Come non pensare, di fronte agli arti giganti e carnevaleschi dell’investitura del Kaimakàn, a certe sequenze beatlesiane da Yellow Submarine che s’armonizzano sorprendentemente indovinato con l’umorismo dello spartito ottocentesco...
Sul piano del canto, il basso Carlo Lepore è un Bey Mustafà buffonesco e istrionico, preda d’una cupidigia ottusa che costituisce un tratto tuttora moderno di stolta mascolinità, Enea Scala rappresenta un bel tenore leggero, a proprio agio col fraseggio mosso del suo Lindoro, Marco Filippo Romano è basso buffo di grande efficacia nei panni di Taddeo che è trai personaggi più gustosi nella sua risibile stupidità. È però il cast femminile a costituire la miglior nota dell’allestimento: Manuela Custer è un’Isabella intelligente, maliziosa, civettuola quanto basta, tutta furbizia e mossettine, brillante per recitazione e interpretazione delle sfumature teatrali d’un personaggio magnificamente supportato dallo spartito. A fronte di un’opera faticosa, il mezzosoprano (in una parte da contralto) ben regge i ritmi di questa Italiana sin nel finale, denotando encomiabile preparazione fisica e grande capacità di sintonizzarsi sulle indicazioni d’una regia mirata a valorizzare la tessitura altamente scenica dell’opera. L’Elvira di Patrizia Cigna e la Zulma di Katarina Nikolic’ completano con efficacia un terzetto di donne separate dalle occorrenze di situazioni esistenziali differenziate, ma unite da una sottile e sorprendente solidarietà femminile.

L’ampio spazio realizzato da Joan Guillén, responsabile anche dei mirabolanti costumi, pur restando fisso nella struttura complessiva (due colonnati laterali, tribunetta lignea praticabile al centro, fondale multicolore) si dimostra magnificamente funzionale nella sua cangiante multiformità: che siano scene collettive, come il tripudio onomatopeico del quartetto di fine primo atto, brano d’allucinante modernità letteraria mai abbastanza sottolineata, o l’irresistibile scena del caffè nel secondo atto, la scenografia, priva di peculiari riferimenti storici, è il complemento finale d’una messinscena che avvince per la qualità della sua efficacia complessiva. Inutile fermare lo sguardo sul singolo dettaglio, per imperfetto che sia, quando ciò che conta, lo spettacolo tout court, offre tanti e tali spunti d’osservazione: merito d’una regia creativa ma coscienziosa, d’una buona esecuzione, canora e scenica, e di quella mano felice ed esperta, di musica ma soprattutto del mondo, di un compositore che non smetterà mai di strapparci sorrisi, pensieri e ammirazione.
Igor Vazzaz
15 Marzo 2010

Oggetto recensito:
L’italiana in Algeri, di Gioachino Rossini, del Teatro Real di Madrid col Maggio Musicale fiorentino
Il resto della locandina: Walter Franceschini (Haly/basso); Italo Grassi, direttore dell’allestimento; Albert Faura, luci; Andrea Severi, fortepiano; produzione Teatro Real di Madrid, Maggio Musicale Fiorentino, Opéra National de Bordeaux, Houston Grand Opera
L’altro cast canoro: Simone Alaimo (Bey), Vincenzo Taormina (Haly), John Osborn (Lindoro), Daniela Barcellona (Isabella), Bruno de Simone (Taddeo)
Prossimamente: a Bordeaux, Opéra National, e Houston, Grand Opera, nella stagione 2010/11; non dietro l’angolo, ma lo spettacolo merita davvero
Citazione/1: “Cara m’hai rotto il timpano: ti parlo schietto e tondo” (Mustafà, I, 1)
Citazione/2: “È la musica più fisica che io conosca” (Stendhal, sulla cavatina di Lindoro, Languir per una bella)
Riparazione storica (parziale): Angelo Anelli fu bollato di “buffone” da un rancoroso Ugo Foscolo per essersi aggiudicato la cattedra di eloquenza a Milano, nel 1809; in realtà, Anelli fu librettista e letterato di tutto rispetto
Papyright: la magnifica espressione Papino il Breve è di Daniele D’Aquila (www.indiscreto.it)
giudizio:

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