È ormai con una certa consuetudine che attori resi celebri da schermi piccoli e grandi, per motivi più o meno sinceri, più o meno dichiarati, decidano di saggiare i legni del palcoscenico, “tornando”, come si suol dire in tali circostanze, al teatro, “vecchio amore mai tramontato”. Non di rado, si tratta di malcelati ripieghi, ingloriose ritirate, strategici arretramenti in attesa d’un nuovo rilancio a riassestar carriere e finanze: in questi casi, raggiunto lo scopo, la scena, sedotta e abbandonata, viene puntualmente rimessa da parte, ché l’argent sta altrove e non c’è tempo da sperperare; in questi casi, i risultati estetici sono riprovevoli e drammaticamente evidenti.

Betrayal è un esempio chiave della drammaturgia pinteriana: azione minimale, asettica, personaggi inchiodati in dialoghi che sono ciarla inciampata, blasé, ostensione umana, troppo umana, di debolezze, lapsus, meccanismi reiterativi e, al contempo, massacro chirurgico, distillato di miseria behaviouristica a tracciar continui e spietati ribaltamenti di forza. E questa storia di corna, inflitte e subite, nascoste e dichiarate, è solo in apparenza la rappresentazione amara d’una civiltà dagli istituti sociali in irreversibile dissolvimento: piuttosto, è una perfetta macchina teatrale, tornita, levigata, fin troppo meticolosamente settata secondo criteri funzionali e retorici da apparir quasi insostenibile. Non è la società inglese, contemporanea o occidentale, il vero, o il solo, obiettivo poetico, quanto il congegno, tutto scenico, tutto drammaturgico, e umano, della ricostruzione fallata, del tempo da ritrovare, del percorrere a ritroso una vicenda, che già in Edipo Re è carne viva e pulsante del nostro grande teatro. Con il pubblico, unico e solo testimone onnisciente delle patetiche magagne di questo terzetto allargato altoborghese: lei, lui, l’altro e, in aggiunta, alcune figure mai fisicamente presenti, eppure ritornanti protagonisti nei discorsi del trio.
La scenografia di Lino Fiorito ben rispetta l’economia verbale del dramma: due schermi, scientemente sghembi, ospitano retroproiezioni ora mimetiche ora ai limiti dell’astrazione. Lo spazio è largo, indefinito, absurdista nel sapore quasi metafisico, anche quando le fotografie che lo colmano di colore paiono raffigurazioni realistiche, per sfumare lente in chiazze cromatiche d’indubbia suggestione. E la scena si fa teatro di scontri e incontri, sempre a doppio senso, a doppiofondo, nel disequilibrio d’informazioni e verità, asciutto Stationendrama con didascalie temporali che a inizio quadro scandiscono la retromarcia cronologica degli eventi. Ogni sintagma è un round pugilistico in cui i colpi sono tutti da assaporare, interpretare, capire, calati nella quotidianità desolata di parole vacue eppure vischiose. Nicoletta Braschi è a proprio agio con la peculiare tessitura del lessico pinteriano: la sua recitazione paratattica, secca nel portare il dettato del testo, staglia la battuta dandole una profonda ambivalenza. È bella, fasciata nelle vesti che evidenziano le forme di Emma, nome malignamente bovariano, donna affascinante e perno principale della tresca. Enrico Ianniello, prestante amoroso, è Jerry, agente letterario di successo, di lei amante e, soprattutto, miglior compare del marito, Robert, editore “arrivato”, interpretato da uno smagliante Tony Laudadio, specie nelle sequenze veneziane.
La macchina del tempo scivola a ritroso, e ogni fermata è un tradimento nuovo, di natura e peso sempre diverso: la scherma verbale, lasca o serrata a seconda della sequenza, dipana verità elastiche e flessuose, intreccia vite ridicole, prive di buongusto o decenza. È l’identità, il centro di tutto: la memoria, nostra e degli altri, è quel cumulo di macerie rubate, malmesse, sistemate (quasi sempre) in malafede, che ci costruisce, che ci rende evidenti e imperdonabili. Pinter tratteggia questa caduta, non morale, ma esistenziale, in un ralenti impietoso, con sguardo da entomologo. A tratti si ride, ma amaro, ché la commedia è, s'è detto, umana, troppo umana. Pièce difficilissima, ad alto rischio: il testo è un inganno continuo, pure per gli interpreti, che han da calibrare fiati, respiri, il minimo cenno gestuale. Non sempre l’orchestrazione risponde alle esigenze: ne risente il ritmo, che in alcuni momenti si dilata, con una tendenza alla dispersione che mette a rischio la centratura. Manca, ci pare, l’ultima scorta di sangue, quel graffio a strappar la carne per incidersi nell’animo degli spettatori: nondimeno, questo Tradimenti resta godibile, forte d’una sua propria veracità, senza cadute e senza trucchi. Non è poco.
Visto il 16/02/2011 a Colle Di Val D'Elsa (SI) Teatro: Del Popolo
Spettacolo
Tradimenti, di Harold Pintertraduzione Alessandra Serra
con Nicoletta Braschi, Enrico Ianniello, Tony Laudadio
e Nicola Marchitiello
regia: Andrea Renzi
scene e costumi: Lino Fiorito
luci: Pasquale Mari
suono: Daghi Rondanini
produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino - OTC Onorevole Teatro Casertano
(fotografie: Giorgio Sottile)
2 commenti:
Igor ma su Celestini di venerdì? Aspetto di leggerLA sire.
Eccoti!
Nànànà... Niente recensione sul celeste.
Lo spettacolo era vecchio, a GU non interessava e, francamente, non avevo troppa voglia di scrivere cose già scritte...
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