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venerdì 18 aprile 2008

Alla corte di un genio: la scena crudele di Antonio Rezza


Livorno, Teatro del Porto - Sulle tavole di un interessante spazio scenico, ottimamente gestito, la performance dell'attore e autore più geniale dell'attuale panorama teatrale italiano. Storie di (a)/(s)variata (dis)umanità per un pubblico divertito e spiazzato, in una costruzione spaziale visionaria e originale

Due settimane or sono, chiacchierando con Daniele Luttazzi , è capitato di citare il nome di Antonio Rezza , artista-culto (per quanto, a nostro avviso, non ancora noto nella misura che meriterebbe) del teatro italiano contemporaneo. Luttazzi, col tono di chi afferma cosa scontata, dichiarava: "Vabbè, ma Rezza è un genio... Talmente bravo che il successo di nicchia è solo la conferma della sua unicità... un genio, appunto". Inutile dire che sottoscriviamo l'opinione del satirico e che la visione di Pitecus, sulle tavole del labronico Teatro del Porto di via Negrelli, ha semplicemente confermato l'assunto. Del resto, se ve ne fosse bisogno, basterebbe la lettura di uno dei suoi tre romanzi, bellissimi, lancinanti, eppure assai diversi dal lavoro teatrale, più vicino invece, per temi, situazioni e scrittura, al percorso audiovisivo fatto di cortometraggi e di quattro interessantissime pellicole lunghe.

La sala del Teatro del Porto, priva di sipario, presenta una scena strana, unica nel suo genere: il palco è totalmente occupato da una struttura a sbarra, simile a un appendiabiti, cui è attaccato un numero imprecisato di panni fantasiosamente variopinti, distesi o piegati. La luce a giorno, bianca, illumina tutto senza particolari effetti. Cala il silenzio: s'odono i primi passi dietro le tele. Sulla sinistra, una di queste, chiara, lacerata in alcuni punti, s'anima d'una presenza, un volto magro, scarnificato, l'espressione buffa, grottesca. È Gidio, beato nella propria solitudine, della propria nullafacenza. Blatera un dialetto improbabile, di marca centritaliana, d'influssi abruzzesi e burini. Le parole mozzicate soffrono una sorta d’analfabetismo di ritorno. Sparisce. Poco più in alto, un'altrettanto improbabile figura femminile occhieggia da un'altra feritoria del tessuto. S'interroga sull'andare a casa di Gidio, a trovarlo. Sparisce anch'essa, in favore di un terzo volto che spunta di profilo sul lato destro: "Siamo noi, Gidio... Siamo noi...", di lì a poco tormentone irresistibile del numero.

Pitecus, cavallo di battaglia di Antonio Rezza (il debutto è del 1995), è un collage di esistenze bizzarre e cattive. Sono disumane nella loro comica miseria intima: animano scene chiuse, numeri quasi cabarettistici in un quadro d'insieme lacerante e doloroso, nella crudeltà d’una rappresentazione che non si sottrae a un riso folle, misterico e semi-isterico. Rezza è anzitutto un agonista: in senso fisico, dato che infligge al proprio corpo, longilineo e magrissimo, bizzarre contorsioni e notevoli sforzi (la cosa sarà ben più evidente con Bahamut, quarto capitolo della teatralogia di cui Pitecus è incipit), e soprattutto in senso più propriamente scenico, teatrale. Il pubblico è bestia da domare, umiliare, mettere di fronte alla mediocrità d’una vita spesa nella triangolazione inevitabilmente borghese metro-boulot-dodo (dal francese: metropolitana-ufficio-nanna a indicare il banale tran tran della “gente normale”). Rezza lo affronta, direttamente, senza la minima pietà: sia esso il malcapitato spettatore in ritardo che raggiunge la poltrona ingobbito per farsi notare meno sia la bambina in fasce cullata dalla mamma, cui l'attore prefigura un futuro inevitabilmente pieno di sofferenze e dolori, sia, infine, il bambino che deambula a briglia sciolta per la sala, ben presto assunto quale ulteriore bersaglio da parte dell'artista. Rezza è spiazzante, corrosivo, a tratti irritante, nella sua crudele ostensione d'inumanità, di verità. Gli applausi inseguono i personaggi terribili che animano le magnifiche tele di Flavia Mastrella (a tutti gli effetti paritaria partner di Rezza nell’elaborazione degli spettacoli) e sono perennemente sconfessati sia dalla scrittura scenica sia dalla recitazione dell’attore-tiranno. Fuori tempo, il pubblico applaude sempre fuori tempo, giacché il pezzo sarebbe finito due battute più tardi, oppure non applaude, attendendo una chiosa che non arriverà. Rezza gioca su questi inciampi, ben previsti dalla drammaturgia franta d’uno spettacolo che nella frantumazione esistenziale di personaggi cinici, brutti, sommamente grotteschi, guadagna l’unitarietà d’uno sguardo spietato sul mondo e sulla vita.

Rezza scarta, salta, ironizza, si sottrae al plauso, rischia in prima persona nell’ostensione di un potere innegabile e al contempo problematico, quando aggredisce verbalmente un singolo spettatore per il divertimento smarrito dell’intera platea. E anche il bis si trasforma in uno scontro all’arma bianca: dapprima, l’artista minaccia d’andare avanti ad libitum, dopo quattro ulteriori numeri (notevole quello sull’inesistenza di dio) è invece la platea a sconcertare l’attore, con innumeri chiamate, quasi la sala fosse oggetto d’occupazione.

L’attore ringrazia, tace e invita silente a lasciare il teatro. Si applaude ancora, tra le risate, sempre più ghignanti, paradossali. È un riso terribile quello suscitato con sapienza da questo allampanato genio riccioluto, un riso gravido di dubbi, dionisiaco nel minare qualsiasi certezza, anzi, nella certezza sulfurea della totale gratuità dell’esistere. Non è tempo di tragedia, il nostro, mancano grandi valori universalmente accettati, manca un altrove mitico: lo spirito tragico non ci appartiene, venduto e compromesso secoli fa. E, dunque le verità indicibili dell’insensatezza del tutto non possono che essere affidate al ghigno tremendo di una grande comicità.
(da www.loschermo.it)

Spettacolo:
Pitecus
regia: Antonio Rezza, Flavia Mastrella
con Antonio Rezza
quadri di scena Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
assistente alla creazione Massimo Camilli

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