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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 28 marzo 2011

Wilde, così non è se vi pare

(da Giudizio Universale)
Una pellicola immaginaria riavvolge una fra le più note commedie dell'autore britannico, Il marito ideale. La regia di Roberto Valerio porta alle estreme conseguenze la satira feroce contro le ipocrisie della società



"È soltanto negli specchi che bisogna guardare. Perché gli specchi ci mostrano solo le maschere". Così sentenzia il disperato e tragicomico Erode della Salomè wildiana, fantasmagorica pièce assurta a emblema del teatro simbolista e di svariati alfieri d’avanguardie vecchie e nuove. E a queste parole sembra ispirarsi la godibile e maliziosa declinazione cui Roberto Valerio sottopone An Ideal Husband, sardonico testo che il dandy irlandese, inserendosi in un felice filone non distante dal miglior Feydeau, ambientava all’interno della upper class britannica di fine Ottocento.

Commedia farsesca, giocata sul feroce slittamento dei piani di verità, in cui niente è mai come sembra: a farla da padrone è il plesso di simulazioni e dissimulazioni cui si trovano costretti a precipitare i personaggi, nell’irrealizzabile velleità d’esser ciò che, puntualmente, non sono. Il piano utopico dell’uomo provetto, consorte ideale, politico idealista e probo, si rovescia nella sarcastica distopia della menzogna, necessaria per non perdere tutto quel che ha accumulato in una vita intera, macchiata da un solo, ma imperdonabile, peccato originale. L’ironia di Wilde, che tutto condisce attraverso una scherma testuale di fulminanti aforismi passati poi alla storia, è però assai più profonda, spietata, corrode dall’interno l’involucro, la forma stessa della commedia, mediante quella che, in apparenza, è una struttura comica perfetta, di precisione e brillantezza apollinee.

S’apre il sipario su un sontuoso interno d’epoca: arredi eleganti (due tavoli di legno lavorato, un ampio canapè, alcune sedie) e un fondale di pannelli mobili che, ruotando, definiranno l’unico cambio d’ambientazione del testo. I sei attori in scena, rigorosamente in abiti acconci, pronunciano alcune battute per poi, sul vorticoso effetto fonico di riavvolgimento d’un nastro audio, muoversi a ritroso: lacerti di commedia, frantumi drammaturgici, come se il susseguirsi degli eventi fosse risucchiato all’indietro da un’irresistibile forza centripeta. Effetto reiterato, che diverte, ma spiazza anche il pubblico domenicale del Manzoni di Pistoia.

marito ideale.jpgL’andamento à rebours trova conclusione, come prevedibile, con l’incipit della recita, in quell’incastro di dialoghi fiorettistici tra sir Robert Chiltern, il marito del titolo, la coniuge Gertrude, il faceto Arthur Goring e la cinica calcolatrice Miss Cheveley. Intreccio tra affari, sentimenti, ricatti e ideali, che vede sotto scacco Robert, nell’interpretazione – riflessiva e dalla battuta rotonda - di Roberto Valerio, spalleggiato, rinfrancato, e infine salvato dalla puntuta lepidezza di Arthur, un Pietro Bontempo in forma smagliante. È lui, in tutto e per tutto, il perno: non foss’altro perché l’equilibrio compromesso dall’avida Cheveley di Valentina Sperlì viene ristabilito, non senza batticuore, dal suo arguto personaggio. Frivolo e profondo, leggero e feroce: Arthur è un perfetto compendio di wildismo, portatore esemplare della Weltaanschaung dell’autore dublinese. Che sia lui, giovane ricco sfaccendato, emblema del disimpegno vacuo, disistimato dal padre (un vigoroso e felice Alarico Salaroli), adorato dalla velleitaria Gertrude (Chiara Degani), insidiato da Miss Chevely, la chiave di volta dell’intera situazione è il perfido paradosso al vetriolo riservato da Wilde al pubblico vittoriano, da un lato, e al teatro borghese, dall’altro.

È in questo senso che si deve leggere l’asciugatura altamente teatrale che Valerio (responsabile di traduzione, adattamento e regia) applica al testo originale, distillandone una geometrica azione scenica da giocarsi con effetti filmici e straniamenti recitativi: "niente è come sembra", e non si tratta del sin troppo semplice, per quanto innegabile, senso politico del testo, a porre in crisi l’irrealizzabile sogno di una correttezza assoluta. "Niente è come sembra" è, a livello strutturale, profondo, il vero segreto di questo gioiello di scrittura, in cui la misera dimensione umana, sovralimentata d’apparenze, d’insoffribile retorica, di slogan tanto ripetuti quanto insensati, viene messa a nudo per quello che è: un’incalcolabile e arbitraria costruzione priva di fondamenta. Un sorriso pieno, e amaro, per uno spettacolo ben fatto e che, col tempo, non potrà che migliorare
28 Marzo 2011
Spettacolo
Un marito ideale, di Oscar Wilde, regia di Roberto Valerio

Scheda
Il resto della locandina: Carlo Sala, scene e costumi; Nando Frigerio, luci; con Roberto Baldassarri (Phipps/Mason); produzione Teatridithalia in collaborazione con Padiglione Ludwig
Tournée: 28/3, Olbia, Cineteatro; 30/3-17/4, Milano, Elfo Puccini
Gli aforismi: "La spontaneità è una posa difficilissima da mantenere"; "Le domande non sono mai indiscrete. A volte lo sono le risposte"; "Volgarità è solo la condotta degli altri, e falsità sono le verità degli altri"; "Si dovrebbe giocare sempre lealmente... quando si hanno le carte vincenti"; "Quando gli dèi vogliono punirci accolgono le nostre preghiere"

Giudizio:

mercoledì 23 marzo 2011

Allo Zoo con i bambini

Dopo il diabolico 666 la compagnia madrilena Yllana porta in giro per l'Europa il suo nuovo spettacolo: la giungla in cui si avventura il loro improbabile gruppo di esploratori è fitta di citazioni "alte", ma pensata soprattutto per divertire i più piccoli


Tra le categorizzazioni più ambigue che si diano, quella più equivoca è quella di arte (o film, o spettacolo) per bambini: con essa, difatti, s’ipotizza o una qualche menomazione cognitiva da parte dei cuccioli di homo sapiens sapiens o, per contro, una loro mai dimostrata propensione per verginità, purezza e candore d’animo. E anche qui, la passione per il Benigni d’annata si rivela proficua: allertando il pubblico d’un monologo dai toni blasfemi, il primo dei toscanacci si giustificava asserendo che il problema sarebbero stati gli adulti, poiché i bambini si trovano da sempre perfettamente a proprio agio con la comicità oscena.

Zoo, ultima fatica dei madrileni e squinternatissimi Yllana, non ha nessun rapporto con sconcezze o parolacce, neppure con le parole in senso proprio, ma, nondimeno, ha ricevuto il premio Max per le arti sceniche in Spagna quale miglior allestimento infantile del 2010 e, in effetti, il bel Teatro di Rifredi (Firenze) pullula di pargoli in sala, ove ad accoglierci troviamo un sipario aperto con alcuni addobbi botanici dalle vaghe reminiscenze di silvestre esotismo. Le luci calano e uno schermo sul fondale proietta i titoli d’apertura d’un filmato, a parodia di certe vecchie pellicole avventurose. Lo spettacolo, però, ha inizio in platea: quattro improbabili figuri agghindati da esploratori s’inoltrano con passo felpato e guardingo tra le poltroncine gremite e la sorpresa degli spettatori: cercano “la loro jungla”, punto d’approdo e svolgimento della loro traversia scenica, il palco.

La breve sequenza d’inizio ben illustra la linea della performance, improntata a una comicità che unisce clownerie, slapstick, assurdità e caratterizzazioni dei personaggi. Juan Francisco Dorado è il leader machista, capo escursione di bell’aspetto, invadenza pelvica e intrepido atletismo: i pugnali gli s’infilano puntualmente nello stesso albero a sinistra della scena, a prescindere dalla direzione verso cui li scagli, ottenendo rispetto e ammirazione dai compagni di ventura. Susana Cortés è la vivace, paffutella lady del gruppo, sospesa tra ammiccamenti ridicolosi e una vocalità sopra le righe. César Maroto è… il “calvo”: sessualmente incerto (ben dosate le sequenze in cui sembra ammaliato dalla mascolinità del capo), ha doti d’inatteso eclettismo, in chiave sia comica sia corporea, mentre Rubén Hernández è lo scienziato della spedizione, con ordinaria lente d’ingrandimento e assai poca baldanza.

L’allestimento procede a sequenze chiuse, i ruoli si mescolano: spassose le parti in cui gli attori recitano travestiti da gorilla (dirette citazioni kubrickiane), così come quelle del “ritorno” in platea con folte criniere leonine. Lo sketch migliore è, probabilmente, quello dei quattro uccelli, non si capisce di che specie, in cui buon gioco hanno le luci soffuse e gli azzeccati costumi che riprendono il classico “trucco del nano”, con le braccia degli attori infilate nei pantaloni del vestito.

È garbato, ben portato, questo Zoo di Yllana, ensemble che ricordavamo, ai tempi del luciferino 666, assai più sfrontato, coraggioso. Non guasterebbe, anche in quest’occasione, qualche rischio in più, a innervare lo spettacolo, rendendolo più sanguigno, foss’anche crudele, senza tradirne l’ispirazione. Yllana è una gran gruppo, la sua storia ventennale lo dimostra, ma in questo caso pecca di timidezza nel costrutto complessivo, rinunciando a una vera e propria stratificazione di riferimenti, privilegiando un concetto, comunque discutibile, di fruibilità: quella per bambini, appunto. Non si negano risate e applausi, ma giusto sarebbe attendersi qualcosa in più.
23 Marzo 2011
Spettacolo
Zoo, di Yllana

Scheda
Il gruppo: http://www.yllana.com/  
Visto a: Teatro di Rifredi, Firenze
Prossimamente: qui tutti gli spettacoli della compagnia in giro per l'Europa
Le opere stratificate: quelle che non rinunciano a nessuno spettatore, sfruttando diversi livelli di lettura; ovvio che i fanciulli non riconoscano 2001 Odissea nello spazio, ma si potrebbe osare di più
Per capirsi: al di là dei riferimenti dichiarati dalla compagnia, in questo caso siamo molto più vicini a Aldo Giovanni e Giacomo (bravi, non diciamo di no) che ai Monty Python (divini)

Giudizio:

giovedì 24 febbraio 2011

Calcio spettacolo

(da Giudizio Universale)
Maurizio Di Giovanni porta in scena Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, che rievoca la mitica partita del 1987, rivincita di un'intera città. Il monologo di Antonio Damasco ruota tutto intorno a Maradona, ma senza mai nominarlo
Da tempo il calcio è tema sdoganato in scena, non senza motivo: lo sport in genere, specie se a vocazione popolare, è tra le poche attività che riescano a evocare un vero e proprio orizzonte mitico moderno. Se il riferimento si perde poi nel passato, in trascorsi per qualche ragione aurei, l’effetto è ancor più travolgente: non solo giacché giovinezza e infanzia lasciano solchi indelebili nella memoria, ma anche perché, più prosaicamente, il calcio italiano, in particolare negli anni Ottanta, ha registrato la più grande concentrazione di classe (e danari) disponibile all’epoca e, altro dato non secondario, una delle più avvincenti alternanze di vertice mai viste nella pelota domestica. Ovvio che prima o poi qualcuno attingesse al miracolo napoletano del 1987, primo riscatto per un Meridione fornitore storico di talenti, ma privo di rappresentanza nel palmarès nazionale: sono i torinesi del Teatro delle Forme, con un monologo di Maurizio De Giovanni, a proporre un allestimento su quella magica, e ripetuta, esperienza.

Una voce registrata spezza il buio silenzio in platea: la luce rossastra scontorna una figura umana dondolante da una poltrona; alle spalle, una stesa di bianco bucato, icona d’una Napoli popolana, sulla cui cima occhieggia la casacca azzurra della squadra del ciuccio. È un discorso, non facile, articolato, presupposto e cornice all’azione scenica vera e propria che poi, più che azione, sarà racconto, anch’essa discorso, nell’interpretazione in corpore dell’attore. La leva è il ricordo, tra sport e dimensione domestica, a riallacciare fili, rapporti forse sfibrati dalla troppa vicinanza, da quella dimensione, benedetta e maledetta, della famigliarità.
Antonio Damasco s’erge al centro della scena: bel guaglione, tuta blu (divisa esemplare dell’altra urbe evocata nel titolo), postura in lieve disequilibrio, curva in avanti, fare conciliante, un filo pretesco. Rievoca una mitica trasferta pallonara, la prima dei tifosi azzurri a Torino da primi in classifica, pur in coabitazione: una sorpresa, non fosse per Lui, innominata divinità argentina, india e pagana, deus ex machina dello spettacolo, di quella squadra, di un’intera antropologia plebea.

Al dialogo intimo, accennato, tra figlio e padre, con lo sfondo di una storia d’emigrazione e mala accoglienza in quella città odiata/amata dai suoi figli adottivi, si sostituisce il racconto di viaggio, on the road al ragù su per lo Stivale. Damasco tipizza i compagni di ventura in caratterizzazioni dal crescendo fantozziano, con iperboli ed enfatizzazioni: non forza mai, sempre a debita distanza dalla sguaiatezza. Frange la quarta parete, dosando un poco di cabaret sulla spiccata natura teatrale della recita. La partita è il nucleo: ovvia la mitizzazione, coi “belli” bianconeri, alti, eleganti, degni di quella raffinata proprietà industriale da orologio sui polsini, pur’essa mai dichiarata, e i brutti, disarmonici terruncielli, ben rappresentati dal terzino Bruscolotti e dall’innominabile sudaca, trionfale esempio di meridionale all’ennesima potenza. In alcuni momenti irrompe il video: la scena si cristallizza, i panni bianchi sono schermo per proiezioni con stralci di considerazioni calcistiche miste a lacerti esistenziali. S’intravede il padre del protagonista, che coincide con quello dell’attore.

Riprende il narrato, l’epopea si compie: alla complicazione (il gol di Laudrup, esponente perfetto della razza superiore bianconera), segue lo svolgimento, le tre “pere” azzurre, epilogo trionfale. I poveri vincono, i ricchi piangono e, a chiudere, una sequenza filmata senza parole di padre e figlio riuniti in un parco, pallone tra i piedi, explicit non privo di prevedibilità retorica.
Non convince la dissimmetria fin troppo evidente: se la cornice iniziale coincide con un’elucubrazione, peraltro in apparenza slacciata dal prosieguo, si renderebbe necessaria una chiosa in sintonia, a chiudere una parentesi altrimenti incongruente. Lo stesso discorso comico appare, in complesso, debole, senza azzardo: apprezzabili certi passaggi rotondi, aggraziati, ma solo se calati in una dinamica maggiormente variata, mossa. La comicità non può sussistere senza una sua peculiare vocazione selvaggia, o corrosiva, che non è villania, ma lavoro sul limite, sulla crisi del linguaggio, dei suoi simulacri. Così come sono abbozzati, mai o mal sviluppati, i riferimenti sociali, in potenza carichi di risonanze, eppure lasciati cadere in un finale che ci regala, purtroppo, uno spettacolo a rischio d’anemia. La stessa scelta di non nominare mai Lui, eroe e nume della vicenda, non pare dotata di vera sostanza: si resta sorridenti, ma perplessi, perché ci saremmo aspettati il taglio improvviso, un’esplicitazione dolorosa, un’incisione emotiva a rendere necessario e sorprendente uno spettacolo che non deve accontentarsi d’essere carino.
A giustificazione, chiariamo d’aver assistito al debutto di una tournée, che il teatro è da sempre fatto di correzioni in corsa e che ci auguriamo che questo Juve Napoli 1-3 possa crescere, trovare centratura, compasso: non foss’altro perché Lui non merita niente di meno.
24 Febbraio 2011


Spettacolo
Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, di Maurizio Di Giovanni

Scheda
Prossimamente in scena: 27-28/2, Torino, Cavallerizza Reale Manica Corta; 21-22/4, Roma, T.Parioli
Locandina: Antonio Damasco, drammaturgia, ideazione e regia; Valentina Padovan, aiuto regia; Raffaele Posa, video; Bruno Miguel Ferreira da Veiga, tecnico; in video, Alberto Damasco
Visto: a Bientina (Pisa), Teatro delle Sfide, il 29 gennaio 2011
Il precedente (ormai illustre): Italia-Brasile 3-2 di Davide Enia, in cui l’attautore sicuro rielaborava la tecnica del cunto evocando il trionfo del Sarrià
Juventus – Napoli 1 a 3: 9 novembre 1986, Stadio Comunale di Torino, marcatori: 50' Laudrup (JU), 73' Ferrario, 74' Giordano, 90' Volpecina
“Lui” in musica: da Santa Maradona dei Mano Negra (non il dimenticabile film di Marco Ponti) all’omonima canzone del connazionale Andrès Calamaro, da Maradò dei Los Piojos a Diego Armando Maradona del nostro Baccini e Maradona dei Mau Mau, continuando con Diego querido (Willy Polvorón), Dale Diez (Julio Lacarra), Para Siempre Diego (Los Ratones Paranoicos), Capitán Pelusa (Los Cafres), Y dale alegría a mi corazón (Fito Páez), Yo te sigo (Los Calzones), La cumbia del 10 (Tambo Tambo), El baile de Maradona (Riki Maravilla), Maradona Blues (Charly García), La Cueca de Maradona (Guillermo Guido), sino alla struggente La vida tombola di Manu Chao, colonna sonora del film di Emir Kusturiça dedicato al Diez. El Pibe de oro, infine, ha cantato Querida Amiga con i Pimpinela e Hacer el tonto, duetto con l’amico Andrés Calamaro; la lista potrebbe però continuare, forse all’infinito
“Lui” a teatro: El Diego – Concerto n.10, “musica d’autore per goal e orchestra”, progetto andato in scena in occasione dell’ultima edizione del Napoli Teatro Festival, regia video di Carlo Alvino su musiche di Niccolò Paganini e di Roberto De Simone, direzione orchestrale di Pietro Mianiti

Giudizio:

lunedì 21 febbraio 2011

Una perfetta (e spietata) macchina teatrale

(da teatro.org)
È ormai con una certa consuetudine che attori resi celebri da schermi piccoli e grandi, per motivi più o meno sinceri, più o meno dichiarati, decidano di saggiare i legni del palcoscenico, “tornando”, come si suol dire in tali circostanze, al teatro, “vecchio amore mai tramontato”. Non di rado, si tratta di malcelati ripieghi, ingloriose ritirate, strategici arretramenti in attesa d’un nuovo rilancio a riassestar carriere e finanze: in questi casi, raggiunto lo scopo, la scena, sedotta e abbandonata, viene puntualmente rimessa da parte, ché l’argent sta altrove e non c’è tempo da sperperare; in questi casi, i risultati estetici sono riprovevoli e drammaticamente evidenti.

Non sempre lo schema è questo, per fortuna, e siamo felici di poterlo affermare all’indirizzo di Nicoletta Braschi, attrice discussa, non foss’altro per la duplice veste, spesso penalizzante, di first lady e unica musa ispiratrice d’un nostro altrettanto discusso premio Oscar. È, infatti, da quattro anni che l’artista cesenate calca le scene con spettacoli per niente facili, per niente banali, raccogliendo un giusto successo con, supponiamo, grande soddisfazione. Dopo due stagioni di tournée con Il Metodo Grönholm del catalano Jordi Galceran i Ferrer, eccola alle prese con Tradimenti di Harold Pinter: stessi compagni di scena, regista diverso (prima Cristina Pezzoli, ora Andrea Renzi), testo differente.

Betrayal è un esempio chiave della drammaturgia pinteriana: azione minimale, asettica, personaggi inchiodati in dialoghi che sono ciarla inciampata, blasé, ostensione umana, troppo umana, di debolezze, lapsus, meccanismi reiterativi e, al contempo, massacro chirurgico, distillato di miseria behaviouristica a tracciar continui e spietati ribaltamenti di forza. E questa storia di corna, inflitte e subite, nascoste e dichiarate, è solo in apparenza la rappresentazione amara d’una civiltà dagli istituti sociali in irreversibile dissolvimento: piuttosto, è una perfetta macchina teatrale, tornita, levigata, fin troppo meticolosamente settata secondo criteri funzionali e retorici da apparir quasi insostenibile. Non è la società inglese, contemporanea o occidentale, il vero, o il solo, obiettivo poetico, quanto il congegno, tutto scenico, tutto drammaturgico, e umano, della ricostruzione fallata, del tempo da ritrovare, del percorrere a ritroso una vicenda, che già in Edipo Re è carne viva e pulsante del nostro grande teatro. Con il pubblico, unico e solo testimone onnisciente delle patetiche magagne di questo terzetto allargato altoborghese: lei, lui, l’altro e, in aggiunta, alcune figure mai fisicamente presenti, eppure ritornanti protagonisti nei discorsi del trio.


La scenografia di Lino Fiorito ben rispetta l’economia verbale del dramma: due schermi, scientemente sghembi, ospitano retroproiezioni ora mimetiche ora ai limiti dell’astrazione. Lo spazio è largo, indefinito, absurdista nel sapore quasi metafisico, anche quando le fotografie che lo colmano di colore paiono raffigurazioni realistiche, per sfumare lente in chiazze cromatiche d’indubbia suggestione. E la scena si fa teatro di scontri e incontri, sempre a doppio senso, a doppiofondo, nel disequilibrio d’informazioni e verità, asciutto Stationendrama con didascalie temporali che a inizio quadro scandiscono la retromarcia cronologica degli eventi. Ogni sintagma è un round pugilistico in cui i colpi sono tutti da assaporare, interpretare, capire, calati nella quotidianità desolata di parole vacue eppure vischiose. Nicoletta Braschi è a proprio agio con la peculiare tessitura del lessico pinteriano: la sua recitazione paratattica, secca nel portare il dettato del testo, staglia la battuta dandole una profonda ambivalenza. È bella, fasciata nelle vesti che evidenziano le forme di Emma, nome malignamente bovariano, donna affascinante e perno principale della tresca. Enrico Ianniello, prestante amoroso, è Jerry, agente letterario di successo, di lei amante e, soprattutto, miglior compare del marito, Robert, editore “arrivato”, interpretato da uno smagliante Tony Laudadio, specie nelle sequenze veneziane.

La macchina del tempo scivola a ritroso, e ogni fermata è un tradimento nuovo, di natura e peso sempre diverso: la scherma verbale, lasca o serrata a seconda della sequenza, dipana verità elastiche e flessuose, intreccia vite ridicole, prive di buongusto o decenza. È l’identità, il centro di tutto: la memoria, nostra e degli altri, è quel cumulo di macerie rubate, malmesse, sistemate (quasi sempre) in malafede, che ci costruisce, che ci rende evidenti e imperdonabili. Pinter tratteggia questa caduta, non morale, ma esistenziale, in un ralenti impietoso, con sguardo da entomologo. A tratti si ride, ma amaro, ché la commedia è, s'è detto, umana, troppo umana. Pièce difficilissima, ad alto rischio: il testo è un inganno continuo, pure per gli interpreti, che han da calibrare fiati, respiri, il minimo cenno gestuale. Non sempre l’orchestrazione risponde alle esigenze: ne risente il ritmo, che in alcuni momenti si dilata,  con una tendenza alla dispersione che mette a rischio la centratura. Manca, ci pare, l’ultima scorta di sangue, quel graffio a strappar la carne per incidersi nell’animo degli spettatori: nondimeno, questo Tradimenti resta godibile, forte d’una sua propria veracità, senza cadute e senza trucchi. Non è poco.

Visto il 16/02/2011 a Colle Di Val D'Elsa (SI) Teatro: Del Popolo


Spettacolo
Tradimenti, di Harold Pintertraduzione Alessandra Serra
con Nicoletta Braschi, Enrico Ianniello, Tony Laudadio
e Nicola Marchitiello
regia: Andrea Renzi
scene e costumi: Lino Fiorito
luci: Pasquale Mari
suono: Daghi Rondanini
produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino - OTC Onorevole Teatro Casertano
(fotografie: Giorgio Sottile)

Un Machiavelli tutto da ridere

(da Giudizio Universale)
La compagnia di Ugo Chiti mette in scena La Mandragola, commedia nera del nostro Cinquecento. Umorismo ruvido e musiche ataviche per una storia di corna e intrighi in cui la parola è protagonista
Fotografie di L. Bojola


Una commedia austera, acuminata, solenne e tesa come la corda d’un arco, geometrica, fine d’una stilizzazione sofisticata e mai gratuita, così coerente con la lingua desueta e moderna, inconfondibile, di Ugo Chiti. Inutile sperperar tempo e fiato in sguerguenze: Arca Azzurra è, da decenni, tra le migliori realtà della scena italiana, compagnia di giro quasi all’antica, quasi famigliare, così periferica, resistente e orgogliosa, portatrice di un mondo, di un teatro, di un idioma, da sempre frutti di lavorio profondo e rigoroso. E i risultati, non da ieri, si vedono: come questa Mandragola, perfetta macchina teatrale allestita secoli or sono dal geniaccio viperino di Machiavelli, aspra commedia nera e, al contempo, disincantato dramma filosofico sull’umanità o, meglio, sulle di lei inevitabili miserie.

mandra.JPGIl capolavoro del nostro teatro cinquecentesco è filtrato con abilità, capo e piedi inzuppato nella poetica chitiana del grottesco, secondo i codici spietati d’un umorismo ruvido, che non offre requie né liberazioni, tanto si fonda su una smaliziata coscienza della fisiologia e su una ben peggiore sfiducia a proposito della presunta moralità dell’uomo. In un quadro scuro, predominato dalle fosche tinte del fondale e da un’inquietante linearità, si dà un piano inclinato discendente verso la platea, al cui termine opposto troviamo l’entrata principale, portale e passaggio d’evidente astrazione. Ai lati della rampa, figure umane sedute su blocchi vermigli, al centro, un personaggio solitario, femmineo demone teatrale, coagula in sé le ninfe e i pastori a cantar l’argomento. Illustra al pubblico i protagonisti uno a uno, ogni volta lanciando verso l’interessato un lungo bastone ligneo, rito d’evocazione scenica, come se quel passaggio d’oggetto vivificasse anime e corpi altrimenti immoti nell’obliata fissità del testo. Che la recita inizi.

mandra3.JPG
La vicenda è nota, o almeno dovrebbe esserlo: sapido intreccio d’appetiti sensuali, corna e coglionamenti, al termine del quale nessun valore si salva alla chirurgia drammatica machiavelliana: Callimaco (che l’autore presenta quale amante meschino) riesce a giacere con la bella e coscienziosa Lucrezia, sposa di Nicia, vecchio bacucco con velleità di riproduzione tardiva. Il tutto grazie alla connivenza pelosa del servo Siro, dell’amico Ligurio, di un frate corrotto, Timoteo, e della madre della fanciulla, Sostrata, inconsapevole dell’inganno, benché decisiva nella sua messa in atto. La conclusione non dà scampo a nessuno: Lucrezia scopre l’intrigo e decide di prendere il giovane lascivo come amante segreto, punendo così l’idiozia del marito e perpetrando quindi una vita di foia e inganno. Ma è nel farsi carne e sangue d’attore che il verbo di ser Nicolò acquisisce la meritata profondità d’una lingua terrosa, d’organica concretezza, in cui gli inediti innesti firmati da Chiti trovano agio e spessore: la recitazione d’Arca Azzurra, così aderente all’idioma, in emorragico contatto col personaggio eppure in grado di creare interstizi tra attore e carattere, brilla nella sua mai sufficiente lodata differenza rispetto alla media nazionale di un’asettica ed esangue standardizzazione linguistica.
 
mandra4.JPGDimitri Frosali è uno splendido Nicia, con quella voce a tratti gutturale, stolto vecchiaccio pronto a farsi buggerare, così come lodevoli sono, al solito, il fratesco Massimo Salvianti nei panni di Timoteo e, per non poter citare tutti, la magnifica Lucia Socci nella parte più affascinante, spigolosa e luciferina, quella del citato Prologo. Ottima la selezione musicale nell’alternanza di temi medievali, così atavici da scavar dentro rivoli d’emozioni sepolte, e sinistre sonorità dissonanti: modulazione indovinata e coerente ai colori e i ritmi della messinscena. Tempi e movimenti sempre esatti, concedendo nulla al ribobolo superfluo, ottimamente calibrati in una scenografia antimimetica e rarefatta.

Ride il pubblico del bel Teatro Dante di Campi Bisenzio, forte d’una complicità linguistica evidente, ma non indispensabile: ride e, se proprio si vuol muovere un minimo rilievo a uno spettacolo che corre lungo il limite dell’inappuntabilità, potrebbe ridere di più, ché materia da sghignazzo feroce e mai consolatorio ve n’è a sfare. Chiti, non rinunciando a un umorismo cupo e disincantato, a tratti verde, tannico, preferisce far di questo reticolo di pulsioni, meschinerie e imbrogli, un impietoso groppo rappreso, triste eiaculatio senza godimento: dopo tutto, ha ragione Nicia, quando, giusto in tema, si chiede a che pro valga tutta quest’uggia, questo affannarsi miserabile, risolto in quello che, alla fin fine, è solo un vano "sputo di piacere".
10 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
Mandragola, di Nicolò Machiavelli, regia di Ugo Chiti
La locandina: Ugo Chiti, ideazione dello spazio, adattamento e regia; Giuliana Colzi, costumi; Marco Messeri, luci; Vanni Cassori e Jonathan Chiti, musiche; e con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Lorenzo Carmagnini, Giulia Rupi, Paolo Ciotti; produzione Arca Azzurra Teatro
Prossimamente in scena: 12/2, San Gavino (Vs); 13/2, Lanusei (Og); 17/2, Campiglia Marittima (Li); 26/2, Scansano (Gr); 6/3, Città della Pieve (Pg); 18/3, Porto Ferraio (Li)
La mandragola: solanacea dai fiori violetti o bianchi, le cui radici, invero tossiche, sono state per secoli considerate medicamentose; nell’imbroglio, è alla base della pozione che renderebbe fertile Lucrezia, comportando però la morte del primo che giacesse con la fanciulla
giudizio:

E pensare che c'era Giorgio Gaber


(da Giudizio Universale)
La brava Maddalena Crippa riporta in scena il genio del teatro canzone. L'attrice cerca di smarcarsi dall'inarrivabile modello e ci riesce meglio di altri: ma non basta

A scanso di fraintendimenti, ribadiamo quel che abbiamo detto altre volte: il teatro è il regno della reintepretazione, della reinvenzione, della resurrezione di testi, corpi e rapporti di forze un tempo cuciti addosso ad altri corpi, altre voci, altri attori. Quello di Gaber, a nostro avviso, era ed è tuttora grande teatro, originale, urgente e, benché legato a doppio filo con la realtà dell’epoca in cui veniva concepito, ancora in grado di parlare agli spettatori.

Questo non implica che le ultime rivisitazioni abbiano colto nel segno, tutt’altro: pensiamo a Giulio Casale, Neri Marcorè, artisti che, per una ragione o per l’altra, si sono infranti contro il simulacro del primo interprete, fallendo, al di là di bravura e applausi. Il punto, però, non è, come si potrebbe pensare banalmente, che Gaber possa venire interpretato solo da se stesso: idea semplicistica, ingiusta, pure nei confronti d’una scrittura autentica, ricca di sponde e piegature ancora da esplorare del tutto. La stessa accusa, del resto, era rivolta a Dario Fo, salvo poi accorgersi che, già negli anni Settanta, i testi del futuro Nobel erano allestiti ogni sera in lingue e luoghi sparsi in tutto il mondo. Per questo motivo, innanzitutto, siamo incuriositi e ben disposti nei confronti di Maddalena Crippa, attrice di gran curriculum e indubbia statura, che porta in scena E pensare che c’era il pensiero.

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Una donna nei panni di G, bella idea: vuoi vedere che uno scarto fisico tanto netto non garantisca il successo a un’operazione che ha visto naufragare quotati colleghi maschi? La scelta del testo, peraltro, conferma personalità: non un greatest hit come per Marcorè né uno spettacolo mitico come il Polli d’allevamento riproposto da Casale, bensì un lavoro del 1994, il primo inedito degli anni Novanta da parte del duo Gaber–Luporini. Testi insidiosi, non facili, che il cantattore lombardo portava sapientemente, sfruttando quell’inconfondibile vocalità piena, intensa, e la caratteristica flessuosità corvina d’una corporeità sghemba e perfetta.

Al centro dello spettacolo, una riflessione ironica e amara sull’individuo post–riflusso
, l’enigma rappresentato da un poco onorevole rientro all’ordine e la non totale rassegnazione nei confronti d’una realtà ormai immutabile. Mi fa male il mondo, urlo di dolore tra ironia e frustrazione, refrain d’uno show cui si sovrappongono dubbi viperini (Destra-Sinistra), vecchi temi e una serie d’acute osservazioni sulle menzogne che ci raccontiamo. Paradossale e beffarda, l’utopica soluzione alle trappole della nostra cattiva coscienza coincide, per Gaber, con un egoismo "antico e sano", ma, per una volta, autentico.

Si inizia con La sedia da spostare: un fascio luminoso illumina dall’alto una scranna in legno e due voci identiche si fronteggiano dai lati opposti della scena. È Gaber, ma non è lui. Il timbro è femminile, la calata lombarda, le frasi, le ricordiamo a memoria, sono le stesse, ma i tempi, le esitazioni sono nuove, differenti. Ecco la musica: un piano sulla sinistra suona, dal vivo, su una base registrata. Entra l’attrice, microfono in mano, vestito nero, anfibi ai piedi: Mi fa male il mondo. Si agita, percorre il palco più volte, accompagnata da tre coriste coi corpi in ombra, sullo sfondo bianco. L’amalgama sonoro è inedito, il tempo più rapido, troppo, si perde qualcosa.

L’idea, confermata nel corso della performance, è che l’attrice ingaggi un costante corpo a corpo con il modello originale: Maddalena si smarca, dribblando melodie, aggiungendo acuti, svariando sulla partitura. Ha ragione: non può fare Gaber, e di questo le siamo grati, a prescindere dal risultato.
Non va male, infatti, su certi soffiati, quando la modulazione s’abbassa, trovando una propria intensità. E se nei monologhi si salva da attrice, pur non convincendo appieno, le canzoni risultano la parte più critica: l’impiego dei cori non è malvagio, ma la miscela tra suoni live e registrati è telefonata, insufficiente, il canto spesso impreciso, a fronte d’un modello che più passano gli anni e più appare insuperato. La strategia, scientemente adottata, degli scarti nell’esecuzione e di lavorare d’accumulo sulla gestualità, se, da un lato, rappresenta uno sforzo encomiabile, dall’altro, lascia sin troppe perplessità.

Monologhi e brani musicali s’inseguono, con qualche anomalia rispetto al testo adottato: ecco Il dilemma, bella canzone da Anni affollati (1981), iniziata con un recitativo, poco dopo, Qualcuno era comunista, monologo del 1991, in un gioco di ricomposizione lecito, ma non provvisto di una sufficiente congruenza. E, infatti, manca quella Canzone della non appartenenza che della messinscena originale rappresenta la chiave, lo spiraglio, la timida soluzione proposta da Gaber. Le si preferisce, invece, L’attesa, sempre da Anni affollati, anch’essa riproposta in forma recitativa.
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Lo spettacolo purtroppo non funziona, non decolla: non per questioni d’ordine filologico teoricamente trascurabili, ma perché mancante d’una coerenza estetica che dev’essere il principe cardine di qualsiasi allestimento scenico. Riportare in scena Gaber, ormai s’è capito, non è uno scherzo: occorre bravura nel canto, nella recitazione, nonché quell’indescrivibile autorità artistica che sembra davvero la qualità più forte, e ancora poco indagata, del compianto Gaberscik. E spiace che a rimetterci sia, tutto sommato, una brava attrice, protagonista, per una volta, di uno spettacolo comunque non ruffiano, non furbetto e, alla fin fine, pure onesto.
08 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
E pensare che c’era il pensiero, di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, con Maddalena Crippa, regia di Emanuela Giordano
Il resto della locandina: Massimiliano Gagliardi, pianoforte e arrangiamenti; Chiara Calderale, Miriam Longo e Valeria Svizzeri, coriste; produzione Tieffe Teatro Milano Stabile di Innovazione in collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber
Prossimamente: 8/3, Cesano Boscone (Mi); 12-13/3, Brescia, T.Sociale; 13-14/3, Savona, Chiabrera Sociale; 19-20/3. Jesi, Pergolesi
Indicativo/1: che il pubblico non "prenda" il finale dello spettacolo e l’attrice debba, con strizzata d’occhio furbetta, segnalarlo agli spettatori
Indicativo/2: che le parti migliori siano, a sorpresa, i due bis canori, con un pot-pourri gaberiano a cappella invero godibile
E pensare che c’era il pensiero in cd: due versioni, una registrata all’Alfieri di Torino, nel 1994, e l’altra al Regio di Parma, a fine 1995
Chiusa della Canzone della non appartenenza: "E non ci salva l'idea dell'uguaglianza/né l'altruismo o l'inutile pietà/ma un egoismo antico e sano/di chi non sa nemmeno/che fa del bene a sé e all'umanità"
giudizio:

Se Dona Flor ha perso la passione

(da Giudizio Universale)
Nella sensuale Bahia, una donna si divide tra un marito mascalzone, morto, e uno amorevole e noioso, vivo. La buona notizia è che il capolavoro di Amado a teatro potrebbe fare scintille. La cattiva è: non in questo spettacolo



Abbiamo una certezza, dopo aver assistito alla versione teatrale di Dona Flor e i suoi due mariti: il capolavoro di Amado regge alla grande la traslazione scenica. Singolare che tale convinzione, tanto più ferrea rispetto ai dubbi pregiudiziali, sia risultato tetragono d’uno spettacolo mal compiuto. Chiariamo: le trasposizioni sono non solo possibili, ma da incoraggiare, e non v’è da disturbar Nekrošius per dimostrarlo. Necessario, però, è che lo spirito del modello ben si coaguli, s’impreziosisca nel filtraggio d’un differente mezzo espressivo e non si limiti a una sterile proposizione dell’inessenziale dell’opera adottata, alla sua scorza. Il piacere, infatti, dovrebbe moltiplicarsi: alla memoria dell’originale s’aggiunga il godimento dell’invenzione proficua, dell’interpretazione copiosa, gioco di risonanze che è la bellezza della fruizione estetica.
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Il romanzo di Amado è trionfo di colore e vita, rappresentazione carnevalesca e romantica d’un amore infinito che ha per teatro quell’esplosione musicale che è Salvador Bahia, pulsante cuore africano del Brasile. Ora, può anche essere improponibile che una compagnia italiana si brasilianizzi, snaturandosi, allo scopo di cercar un’anima di cui è sprovvista, ma questo non può risolversi nel mero abdicare da un elemento fondante un’opera d’arte determinata. Non si può fare Bahia? Si prenda Napoli. Ma vi sia senso magico, mitologia invadente, vi siano rumori, colori e, soprattutto, odori, profumi: quelli della cucina di Flor, quelli del desiderio carnale. Vi sia sostituzione coerente, equipotente, non la sospensione pavida d’una scelta mozzata.

Lo spettacolo: bella l’idea dei tre schermi giganti come scena, con infinite possibilità di suggestioni. Buono pure il primo quadro, con stuolo di candele replicate a video per la veglia funebre di Vadinho, canaglia di marito eppure adorato dalla protagonista. Peccato, però, che la potenzialità visiva resti poi inespressa, con prevedibili simbolismi iconici, senza forza espressiva, senza genio né nerbo. Buone le musiche del trio in scena (chitarra, violoncello, contrabbasso), ma siderale la distanza con la temperie romanzesca, bruciante di samba e ritmi africani.

Il lutto di Flor, donna dabbene cresciuta in rispetto e pudicizia, è sofferenza reale di carne e spirito: quell’irresistibile puttaniere di Vadinho, tradendola, sperperando soldi, deludendola puntualmente, l’amava davvero, a suo modo, e non v’è dubbio. Così come, in altra maniera, la ama il nuovo marito, Teodoro, letargico farmacista, eppure animato d’ogni sincera attenzione, d’ogni riguardo verso quel fiore che il matrimonio precedente aveva, strapazzandolo, condotto alla vita: quando il fantasma del primo torna dall’aldilà per le torride invocazioni della vedova, la faccenda si complica.

dona-flor-1.JPGÈ sensuale, Dona Flor, creola formosa dagli appetiti scoperti, ma al contempo misurata, mal contenuta in una disciplina che non può frenare pensiero, desiderio, memoria. Eppure Caterina Murino è algida, mai in parte, mai sbranata di voglia rappresa e continenza autoinflitta. Macchiettistico, ingiusto, è poi il Teodoro di Paolo Calabrese, intrappolato in effettacci che niente hanno da spartire col personaggio: Amado ci fa ridere del farmacista compunto che desidera la moglie (risparmiandole però quelle pratiche per cui esistono apposta "le donne di strada"), ma lo rispetta, ce lo fa amare, comprendere: Teodoro siamo noi, nostra proiezione d’affidabilità. E invece si cerca la storpiatura inerte, il riso facile, digestivo, ignorando quanto Teodoro sia denso, abbia spessore, e non la bidimensionalità d’una figurina farsesca. Meglio il Vadinho di Max Malatesta, carattere più facile, mai però conturbante, mai sfrontato in senso proprio.

La storia dovrebbe eccitare, turbare, mettere in ambasce lo spettatore, intrappolarlo in due amori paradossali e veri, in una corporeità debordante: nelle scene a tre, Flor dovrebbe baciare in bocca entrambi, e non limitarsi a un quadretto da interno borghese. A sfangarla, il coro muliebre d’amiche di Flor, al netto di qualche ribobolo superfluo, la megera Dona Rosita (Simonetta Cartia), un po’ troppo giovane per la parte. Poco, troppo poco per rendere giustizia a un romanzo tanto profondo e bello. Manca la magia: quella bahiana, sincretica, tra orixà africani e misticismo cristiano, quella d’un sesso irresistibile e inebriante che regali al pubblico il sorriso e la convinzione che l’amore, quello vero, sia qualcosa di incontenibile e difforme, quasi mai adatto alle categorie d’una convivenza regolata e borghese. Peccato, perché Dona Flor merita una traslazione scenica, quasi la invoca: il romanzo contiene un’irresistibile natura teatrale e pure una messinscena fallata ce lo conferma chiaramente. Speriamo di vederla, un domani, non chiederemmo di meglio.
04 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
Dona Flor e i suoi due mariti, di Jorge Amado, regia di Emanuela Giordano
Prossimamente in scena: fino al 6/2, Brescia, T.Sociale; 10-13/2, Monza, T.Manzoni; 15-27/2, Roma, T.Quirino-Vittorio Gassman; 28/2-2/3, Pavia, T.Fraschini; 3-6/3, Bolzano, T.Comunale; 8-13/3, Bergamo, T.Donizetti; 14/3, Legnago (Vr), T.Salieri; 15-17/3, Vigevano (Pv), T.Cagnoni; 18-20/3, Lucca, T.del Giglio; 23-27/3, Messina, T.Vittorio Emanuele; 29-31/3, Fano (Pu), T.della Fortuna
Il resto della locandina: Andrea N. Cecchini, scene; Claudio Garofalo, installazioni visive; Juan Diego Puerta , coreografie; Michelangelo Vitullo, luci; con Claudia Gusmano, Serena Mattace Raso, Laura Rovetti; musiche originali eseguite da Bubbez Orchestra (Massimo De Lorenzi, Ermanno Dodaro, Giovanna Famulari); produzione Compagnia Mario Chiocchio/Emmevu Teatro
Visto: a Pistoia, Teatro Manzoni, il 30 gennaio 2011
L’anatema di Stanislavskij: "Non ci credo", terribile verdetto con cui il regista russo ossessionava i suoi attori. Aveva ragione: ben vengano gli orgasmi simulati, ma che riescano a imbrogliarci
L’anatema di Benjamin: nell’arte, l’essenziale è incomunicabile, mentre ciò che è comunicabile è inessenziale; questo il tarlo che dovrebbe animare qualsiasi traduzione, linguistica ed espressiva
Sulla lingua: l’italiano, a volte, non aiuta; a proposito del francese, ma vale pure per la nostra lingua, George Brassens sosteneva come sia ingiustificabile che un così "sublime strumento di piacere" fosse indicato con impropri nomi d’ortaggi o animali. Patatina, pelatina nel testo originale, in traduzione, perdono ogni carnalità, sono caricature senza neppure la forza del triviale
Amore per i personaggi: prima regola della recitazione, a meno di non voler fare caricature. Il Teodoro di Calabrese (attore che amiamo e non solo per lo strepitoso Biascica nel serial Boris, quello sì personaggio buffo, ma dotato di spessore) ricorda più il Furio di Verdone (macchietta voluta e ottimamente riuscita) che il farmacista del romanzo
Al cinema: Dona Flor e seus dois maridos (Bruno Barreto, 1976), nei panni della protagonista una smagliante, e sensualissima, Sonia Braga
giudizio: