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lunedì 26 dicembre 2011

Dante risciacquato in Arno

(da Giudizio Universale)
Una parodia della Divina Commedia recitata da un barchino che naviga sotto i ponti di Firenze: sembra un banale spettacolino per turisti, invece è una godibilissima performance dello Zauberteatro
di Igor Vazzaz


S’arriva da Ponte a Santa Trinità e, prima ancora, da quelli di Vespucci e alla Carraia: l’estate fiorentina è stranamente indulgente e non s’accanisce afosa, come spesso accade. Lo scorcio mozza il respiro, abbiam voglia di sottilizzare noi detrattori del Giglio: Ponte Vecchio, anzi, il complesso di finestrucole, pertugi, terrazze esigue e variopinte che lo incoronano, offre una vista incomparabile. La scarpinata, però, ci porta oltre, sino a Ponte alle Grazie, percorrendo prima il lungarno degli Acciaiuoli e poi quello intitolato ad Anna Maria Luisa, gran donna, ultima esponente della prima linea medicea, adorata dai sudditi per non aver concesso ai Lorena di depredar la città degli inestimabili tesori.

Si digrada verso il fiume, appena storditi dagli odori rifritti delle trattorie, dalle note intrecciate dei pianobar, per entrare in tutt’altra atmosfera, ieratica e misteriosa. Saremo in venticinque, quando arrivano i barchini dei renaioli, due natanti in legno condotti con destrezza da nocchieri eredi d’una tradizione antica, quando gli scafi trasportavano sabbia e non allampanati spettatori in cerca d’emozione. Maneggiano lesti le stanghe, pertiche in legno leggero, e non remi: immerse nella torbidità dell’Arno sino a raggiungerne il fondo, fungono da leve e accompagnano il docile rollio a filo d’acqua.

Dal punto di vista scenografico, siamo già messi bene: guardare una città, qualsiasi città, dal fiume che l’attraversa è, di per sé, un vedere rinnovato, figuriamoci se questa è Firenze. La prospettiva rovescia gli assunti e la situazione carontea oblitera la molestia sonora dei locali che strombazzano canzoni vecchie e nuove. Stige o Arno che sia, siamo di nuovo verso Ponte Vecchio, quando un terzo naviglio ci affianca rapido, poco prima di giungere sotto una delle tre arcate del capolavoro fluviale. Tre ombre per equipaggio: il barcaiolo, un musicista seduto di lato e una figura ricciuta, eretta in prossimità d’un ampio leggio. Guadagnatosi pronto il silenzio, declama un prologo rimato d’impronta dantesca, parodia e tributo (ché poi non son così distanti) dei versi divini a introdurre un viaggio del viaggio, succinto percorso delle tre auree cantiche. Siamo sotto l’arco: la parete è punteggiata di nicchie, minuti tabernacoli da cui occhieggiano le fiamme d’alcune candele. I barchini si fermano, incastrandosi all’uopo per offrire ai silenti passeggeri l’ascolto. 

È un Dante ridotto, dimagrito, reso agile e a tratti banale, ma sempre innervato d’asprezza ruvida, irridente, come i cornocchi duri riempiono le sacche dei buoni sanguinacci di qua. I versi di Venturino Camaiti, fiorentinesco poeta vissuto a margine dell’Accademia come del Novecento, son grezzi e al contempo nervosi, lepidi, maligni, a perfetto agio nel pelago infernale di cui ben riprendono l’indugio al basso corporeo, quella poetica lorda e materica ch’è linfa prelibata dell’umoraccio toscano. E l’Inferno scorre in un baleno, tra zotiche insinuazioni e strizzate d’occhio a quel che san tutti, ché la Comedia, ormai, è carne da pop, fatta a tranci e bocconi per il pubblico da lenire e mai umiliare.

Si scivola oltre, sino a Santa Trinità, tra i flash terrestri dei turisti che si sbracciano a salutare quelle strane imbarcazioni in notturna crociera: il Purgatorio tiene, del resto la salvezza, ancorché certa, è lungi dal farsi vedere, e la pettegola caricatura dantesca disegna sorrisi in volto a coloro che, son molti, stan dietro al verseggio declamato da Sandro Carotti. È lui che ghigna, bocia, arringa, in un gesticolar fulmineo, spezzato, quasi granuloso, e gli educati clarinetti di Luca Becorpi tracciano fraseggi mai invadenti né fuori posto. Si naviga ancora, verso il fianco sinistro, nei pressi di Borgo San Iacopo, per un Paradiso che, prevedibilmente, è il meno acconcio dei tre traslati: pur si ride, ché almeno in questo caso, non si fa il verso ai magnifici versi e, anzi, la poetica dell’ineffabile dimostra d’esser concepita, benché rifiutata da una prospettiva antipodica e bernescante. Si chiude in bellezza, nella notte fiorentina, con due barche d’anime a raggiungere la terra, che non è il Paradiso, troppo in alto, ma la riva d’una città inondata di un’estiva luna piena.

L’arte "per turisti" è sempre considerata di lega men che bassa, eppure certe categorizzazioni lasciano il tempo che trovano: una Comedia conscia del suo farsi bignami è, invece, risultato più interessante di tanti spettacoli laureati, banalizzazioni a uso di pubblici da ammansire, lisciare, consolare. Ed è per questo che applaudiamo Carotti, Becorpi, Zauberteatro e anche Camaiti, senza minimamente irritarci per l’ipotetico affronto. A salvarli, comunque, basterebbe la scenografia. 
28 Luglio 2011

Oggetto recensito:
La Divina Commedia: oratorio burlesco, di Zauberteatro
Il testo: La Divina Commedia, esposta e commentata in cento sonetti fiorentineschi umoristici e satirici da Venturino Camaiti nel VI centenario dantesco, Firenze, Tipografia Giuntin, 1921
Locandina: regia di Niccolò Rinaldi; ideazione scenica di Mario Librando; allestimento di Massimo Carotti; produzione Zauberteatro
Prima di Sandro Carotti: le voci recitanti sono state Beltranto Mugnai e Altamante Logli, forse l’ultimo grande esponente degli improvvisatori in ottava rima
Per vedere lo spettacolo: www.zauberteatro.com
giudizio:



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