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venerdì 22 febbraio 2008

Pippo Delbono, la ferocia candida e mortale del buio

(da loschermo.it)
PRATO – Presentato al Teatro Metastasio, Questo buio feroce, penultima realizzazione del teatrante ligure, è un viaggio scioccante e coraggioso che affronta il tema della morte attraverso potenti visioni bianche, commistioni sceniche tra letteratura e danza. Per chi è ancora convinto che il teatro possa colpire, emozionare, senza cedere alla banalità del cliché emotivo. Da non perdere.

Non amiamo a priori Delbono. Questione di diffidenza, o banalissimo atteggiamento da bastian contrari. Dinanzi al generale consenso ci si smarca in cerca dell’anello cedevole, s’indaga maligni. Questione (quasi) morale: di fronte a un fenomeno di livello (non solo) europeo, al cospetto d'un teatrante adorato in Francia (ma in questi casi è giusto diffidare del tipico provincialismo italico che onora a prescindere ogni cavallo di ritorno) è giusto e, anzi, il minimo pretendere il meglio. Il fatto è che Delbono stavolta il meglio lo dà. Lo sbatte addirittura in faccia al pubblico, un meglio straziante, intenso e irriducibile.

Si resta basiti, senza parole, senza neppure concetti conchiusi, di fronte al nitore violento di Questo buio feroce, alla sua aggressione, brutale e al contempo misurata, nei confronti della morte, punto focale e dello spettacolo e della vita tout court. In quella che probabilmente è la prima scenografia vera e propria (di Claude Santerre) utilizzata dall’artista in due decenni di carriera, gigantesco spazio completamente bianco di suggestioni fontaniane, privo d’arredo, in cui lo sfondo si apre scorrendo all’ingresso degli attori, Delbono miscela con sapienza elementi eterogenei: maschere tribali e costumi settecenteschi, il bisbiglio faticato di chi, lucido, sta morendo e il ghigno beffardo d’una parodia fiabesca. Fil rouge, un piccolo libro ritrovato per caso nel corso di un viaggio in Birmania: l’autobiografia dello statunitense Harold Brodkey che, colpito dall’AIDS, narra con lancinante lucidità il proprio viaggio verso la morte.

È il silenzio, irreale e imbarazzante, l’elemento primo della messinscena: colpisce al cuore, sin dal lento affiorare delle luci a dissolvere l’oscurità presaga dello spettacolo. La scena dal candore spettrale è opposto espressivo, cassa di risonanza efficace del titolo: buio e bianco, oscurità e barbaglio, morte che postula la vita e viceversa. Nella magrezza scarnificata della prima presenza umana, in quel corpo macilento e allucinato che reca sul volto una maschera d'Africa, si ha l’epifania inspiegabile, tremenda. Avanti che la voce fuoricampo soffiata e baritona di Delbono pronunci le prime parole sfiancate, si percepisce già che non si tratta di uno spettacolo normale. Non ha senso, e non dovrebbe mai averlo, un teatro che non mini la vita dall’interno, che non si renda necessario, che non si presenti sgombro dalla mortificante necessità borghese dell’intrattenimento. L’estetica è malattia volgare, insulto esiziale d’una società corrotta, malata e irrecuperabile, in cui l’arte consola, solletica, sciacqua, senza mai incidere o rendersi ineluttabile. Il minimo che si dovrebbe chiedere a uno spettacolo è di cambiare la vita, modificare chi vi partecipa, attore o spettatore che sia. Di questo assunto artaudiano Delbono è ben consapevole, e il coraggio tragico di questa messinscena dolente e lucida ne è la dimostrazione compiuta. "Milioni di persone muoiono per rendervi liberi e felici… Isolati nei vostri appartamenti con l’aria condizionata voi siete liberi e felici", recita la voce amplificata. Non c’è scampo, né salvezza. Anche se vorremmo chiosare l'affermazione delboniana, avanzando l'ipotesi che la presunta libera felicità cui si allude è, in realtà, rassegnata prigione, gabbia disarmante d'un uomo anch'esso carcerato, tanto più quanto non riesce a rendersene conto.

In una sequenza di quadri sciolti dall’impaccio narrativo, ma ben legati dal disegno unitario, l’artista coniuga il tuffo mortale di Brodkey con frammenti di Emily Dickinson, l’onnipresente Artaud e Pierpaolo Pasolini. Vortice tormentato d’atmosfere che alternano spasmo, sofferenza, a momenti grotteschi, quasi comici, in una polifonia cui si sposa magnificamente la multiforme versatilità del bianco. Dai languidi toni quasi avana al pallore livido, dal raggelante candore letale alla lucentezza che ferisce gli occhi: la scena e le luci (quest'ultime di Robert John Resteghini) sono attori aggiunti, delirio solo in apparenza monocromatico, complici primi d’una compagnia variegata e improbabile (tredici interpreti, con l’inseparabile partner scenico di Delbono, l’argentino Pepe Robledo), tra cui, senza scandalo alcuno, si contano un down, un poliomielitico, un barbone e un sordomuto.

Al silenzio succedono voci e musiche, frutto di selezione eclettica e puntuale, da Joan Baez a un emule di Sinatra, da potenti citazioni almodovàriane alla voce nature dello stesso Delbono. L’atmosfera è densa, soffocante, forse memore del viaggio africano del Céline al termine della notte o del Marlowe di Conrad: si respira malattia e morte, nell’eroica concezione che questa è inevitabile opposto della vita, suo termine e complemento finale. Si vive per la morte, senza mai poterne obliterare, lucidamente, il pensiero. Herr Heidegger ed Emil Cioran occhieggiano dalla dimensione allucinata di Delbono, il quale ha pure l’occasione di ricucire un legame antico con il proprio variegato percorso poetico: seminudo, l’attore danza dimentico, con movenze buffe e bellissime, sequenza che rivela la collaborazione (fine anni Ottanta) con la coreografa Pina Bausch. La pancia tonda è ferale, ipnotica, i passi cadenzano un movimento inspiegabile e urgente, sul quale s’innesta l’ingresso dell’intera compagnia, ora di nero vestita, a ricevere i copiosi e meritatissimi applausi d’un pubblico attonito ed entusiasta. Il bello colpisce, dilania, ferisce, senza bisogno della rassicurante illusione d’aver compreso: sentire basta e avanza.

Si replica sino a domenica (feriali 21.00, festivo 16.00).
Informazioni:tel. 05746084, fax 0574608524, mail info@metastasio.it

Teatro Metastasio di Prato
Questo buio feroce
Ideazione e regia Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti e Pepe Robledo
Scene: Claude Santerre
Direttore Tecnico: Sergio Taddei
Luci: Robert John Resteghini
Produzione: Teatro di Roma, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Thèatre du Rond Point Paris,Thèatre de la Place Liege, Festival delle Colline Torinesi , TNT Thèatre National de Toulose Midi-Pyrénées, Maison de la Culture d' Amiens, Le Merlan Scene National de Marseille, Le Fanal Scène National de Saint Nazaire

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