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giovedì 22 gennaio 2009

Quando i nomi non salvano il monologo

Per decenni il monologo è stato l’ancora di salvezza della comicità italiana, forma ideale per allestimenti poco costosi, riproducibili ovunque e in grado di evidenziare le doti di una e più generazioni di attori solisti, dal Grillo in fase “pre-Guru” al primo Benigni (più Cecco Angiolieri che l’edulcorata versione dantesca), dal Verdone che ancora non si credeva autore cinematografico ai più recenti attautori Paolini, Celestini e compagnia.
Del resto, il nostro paese è storicamente terra d’attori, di guitti, di professionisti della scena più che d'autori veri e propri (i grandi drammaturghi italiani, da Goldoni a Pirandello, sono vere eccezioni) il che ci ha consegnato più tradizioni, multiformi e radicate, d’interpreti. Se gli anni Settanta hanno costituito un momento di svolta in questo senso (la comicità come linguaggio diffuso e invasivo in nome d’un cabaret in salsa italica) grazie a una generazione di nuovi comici d’origine teatrale alla carica di tv e cinema, è anche vero che gli ultimi anni sembrano testimoniare quanto tale onda lunga di monologhisti stia esaurendo la propria carica, alla stregua d’una miniera gigantesca che partorisca inerti pulviscoli aurei e (quasi) mai più pepite.

Non fa eccezione, ahinoi, la pur brava Angela Finocchiaro, attrice d’indubbie doti, comiche e non, alle prese col suo nuovo spettacolo, Benneide 2. Al pari della splendida Lucia Poli, infatti, la Finocchiaro è musa teatrale di Stefano Benni, autore ormai consacrato e dall'industria editoriale e dal pubblico italiano, che firma quest’ultimo allestimento diretto dall’esperta Cristina Pezzoli. La collaborazione tra quest’ultima e l’attrice lombarda non è peraltro cosa nuova, dal momento che il precedente Miss Universo (altro monologo, per noi poco convincente a fronte d’incoraggianti riscontri sia dal pubblico sia dalla critica) le aveva già viste lavorare insieme.

Benneide 2 rappresenta a nostro avviso un ulteriore passo indietro rispetto al precedente, che pure contava d’una drammaturgia forte, una storia non certo sconvolgente, ma in grado di “impegnare” le innegabili qualità interpretative dell'attrice. Stavolta lo spettacolo è a numeri (di per sé non certo un male), brani lunghi che l’attrice affronta in una scena spoglia, il cui arredo principale è costituito da due cumuli di pacchi di giornali. A entrare per primo è, però, Daniele Trambusti, vecchia conoscenza del teatro comico italiano e toscano, ultimo “terzo” dei Giancattivi di Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, per sostituire (nel 1982) un Francesco Nuti alla rincorsa del successo personale.
Dopo l’ingresso charlottiano dell'attore che s'improvvisa a dirigere un’improbabile orchestra di telefonini, lo spettacolo vero e proprio: Angela Finocchiaro, abbigliamento casual (maglioncino blu su calzoni altrettanto anonimi) ai limiti dello sciatto, si presenta e inizia un monologo a tematica ferroviaria. Un semplice viaggio diviene lo spunto per un’iperbolica raffigurazione d’inferni danteschi, dove gli occasionali “abitanti” dei diversi vagoni divengono vere e proprie anime perdute. La verve d’osservatore sociale, matrice tipica di Benni (quella, per intenderci, del primo Bar Sport) si sfoga in una serie di quadretti contemporanei, colpendo i vizi, le abitudini, le magagne dei costumi nostrani. Peccato che tutto appaia come innocuo, non rilevante, non avvincente: manca il materiale vero e proprio di questi sfoghi, la linfa vitale.
Se, perdonate l'esempio letterario e non teatrale, il già citato Bar Sport era in realtà un addio, affettuoso e sincero, a una società, un'Italia irrimediabilmente al tramonto, le successive variazioni sul tema non sembrano che pallide e depotenziate iterazioni. Così, i quadretti di Benni, di certo non agevolati da una messinscena mal sicura e da rivedere, risultano prove d'autore sbiadite e inerti.

La Finocchiaro s’ingegna quanto può nel tener su la baracca, con una recitazione frizzante, ben dosando il registro surreale, sua corda storicamente migliore.
Certo, non è di soccorso all'attrice una regia alquanto impalpabile: non si capisce, per esempio, a cosa serva, all'inizio dello spettacolo, raggiungere il fondale e attaccarvi una sagoma in carta di giornale se poi il gesto non viene né ripreso né giustificato sotto il profilo scenico. Del tutto inutile, al di là della bravura e della simpatia di un attore che ben conosciamo, la presenza di Trambusti: l’unico vero “numero” riservatogli, un monologo un po’ cionesco (Mario Cioni è la prima maschera, toscana e terragna, del vero debutto di Roberto Benigni), resta lettera morta e non se ne percepisce la reale necessità scenica.

Per fare uno spettacolo, ma questo lo sanno benissimo e Angela Finocchiaro e Cristina Pezzoli e, si spera, l’A.Gi.Di. che produce e distribuisce, non basta mettere insieme autore, regista e interpreti, ancorché ottimi: serve il sangue, in senso non cruento, ma essenziale.
Serve che vi sia un vero motivo per cui si vada in scena, che non sia (dis)impegnare una serata solleticando il pubblico, sempre più pronto a riconoscere anziché conoscere, pensare, faticare per giocare la propria parte.
A fronte dei copiosi applausi, ci si alza esausti e rattristati, proprio per la grande stima nutriata per autore, regista e interpreti: ma è proprio indispensabile portare in scena certi allestimenti?

Visto a Pescia (Pt) al teatro Pacini, il 15 gennaio 2009.
Prima nazionale assoluta.

Spettacolo
Benneide 2
di Stefano Benni
con Angela Finocchiaro e Daniele Trambusti
regia: Cristina Pezzoli
produzione: A.Gi.Di.

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