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lunedì 26 novembre 2007

Ultrà in scena, tra curva e teatro

(da loschermo.it)
MONTECARLO (Lucca) - Edgarluve ha presentato uno spettacolo sul fenomeno del tifo calcistico basandosi sull'esperienza degli ultras livornesi. Lo spettacolo svoltosi presso il Teatro dei Rassicurati di Montecarlo ne ha evidenziato i pregi e, soprattutto, i difetti

Non è agevole il compito di critico quando si tratta di scrivere una stroncatura, a meno che non ci si faccia prendere dal divertito sadismo che è proprio della distruzione. Allo stesso tempo, c'è da intendersi su quale sia il ruolo della critica e delle recensioni e, in questo che potrebbe essere un discorso assai complicato e pure fuori dalla portata di chi scrive, di sicuro si può affermare che il compito di esse sia d'esser motivo di riflessione per tutti coloro che partecipano, in qualche modo, a un evento artistico. Nella fattispecie di uno spettacolo teatrale, quindi, i destinatari del messaggio sono molti, ossia gli autori, i realizzatori tecnici, gli attori e, infine, gli spettatori, e quelli reali (che hanno visto una recita) e quelli potenziali (che la vedranno o che non la vedranno mai).

Purtroppo viviamo in un periodo in cui la critica negativa è vissuta con sospetto, acrimonia, come un attacco scorretto: giudicare (operazione che ogni soggetto pensante compie d'istinto nella propria relazione col mondo) e per di più giudicare negativamente è spesso interpretato come un qualcosa di abominevole, di inaccettabile.
Ebbene, è con questa consapevolezza, cui fa da contraltare la coscienza lucida e incrollabile che sia utile, bello e, se ben fatto, interessante parlare (anche male) di un'opera, che ci apparecchiamo a discutere di Ultrà, spettacolo a firma di Edgarluve, visto qualche giorno fa nel bel teatrino dei Rassicurati di Montecarlo di Lucca.

Si tratta di un allestimento che, da un lato, prende di petto un argomento d’attualità quale il tifo calcistico con le sue propaggini violente e, dall'altro, tenta una reinterpretazione del libro I furiosi di Nanni Balestrini, testo chiave, e artistico, ossia d'artificio (Balestrini è uno scrittore e mai fu un ultrà), nella rappresentazione di questo peculiare fenomeno sociale, non solo italiano.

In scena, un solo attore (Marco Mannucci), alle cui spalle, su una pedana, sta un batterista. Ai lati della scena, due striscioni verticali rossi riportano scritte in cirillico, le stesse che facevano parte dell'armamentario retorico-politico delle Brigate Autonome Livornesi, la frangia più estrema, sotto il profilo politico e pratico (almeno questa era la rappresentazione data dai media) del tifo calcistico labronico. Le BAL, ora sciolte, hanno rappresentato un caso particolare nel panorama delle curve italiane: non solo di sinistra, non solo dichiaratamente comuniste, le Brigate si sono segnalate per l'intransigenza sia rispetto il fascismo dilagante nel tifo nazionale sia rispetto alle supposte debolezze delle altre curve variamente di sinistra e antirazziste, talvolta accusate di essere troppo accondiscendenti o troppo "morbide". Il dato che colpiva maggiormente, però, era l'aperto stalinismo sciorinato dai livornesi, tratto esibito ed evidente, cui s'accompagnava una lucida analisi del senso e della funzione del tifo nella società contemporanea: le BAL, infatti, sostenevano il primato della politica sugli aspetti calcistici, dando spesso vita a sottoscrizioni per cause umanitarie e distinguendosi per un'attività sociale da non sottovalutare. Notevole, in questo senso, che lo spettacolo sia stato scritto con la consulenza della curva Nord livornese.

Torniamo però allo spettacolo: all'ingresso degli spettatori, il sipario è aperto, l'attore sdraiato indossa qualcosa che somiglia a un'armatura, mentre s'aggrappa a un'asta microfonica. In sottofondo, una musica dal sapore epico, a suggerire il presagio d'una battaglia. Entra il batterista: Mannucci inizia a respirare nel microfono, effetto invero piuttosto abusato da almeno trent'anni di teatro d'avanguardia. Si alza e inizia il racconto di una trasferta dei livornesi a Palermo. Ben presto, però, si ha la netta sensazione che lo spettacolo zoppichi, faccia acqua da tutte le parti. Cerchiamo di spiegare perché:

1. L'eloquio di Mannucci non è credibile. Non è questione di dizione: l'italiano standard spesso suona falso, proprio perché siamo un paese di comuni, di città diverse. Allo stesso modo, però, un accento senza cura, senza la giusta riflessione su ciò che si sta pronunciando, comunica solo sciatteria ed equivale a un suicidio, specialmente in un monologo, per sua natura legato alla voce e al discorso dell'attore. Con questa premessa, è impossibile che la recitazione suoni anche lontanamente verosimile. "Non ci credo" è la frase-condanna che Stanislavskij rivolgeva ai suoi attori, nello sforzo di indurli a infondere "verità" nella recitazione. Purtroppo, a Mannucci, non si riesce a credere nemmeno per un attimo.
2. Il testo è scritto male: a fronte di alcuni elementi potenzialmente sfruttabili (certe immagini ripetute, certe allocuzioni), il racconto di Edgarluve è un florilegio di "e poi", "ma", "e lui dice". Difficile da spiegare, ma l'impressione finale è di una narrazione sprecisa, senza centro, linguisticamente insufficiente. Stiamo parlando in termini di efficacia, ben consci che una comunicazione franta possa essere appropriata a teatro (come in letteratura). Il problema è che questo testo è carente di elementi forti e, soprattutto, risulta del tutto privo di una lingua teatrale efficace: si pensa, ascoltando, molto di più all'incespicare dell'attore-personaggio che a ciò che viene detto e dubitiamo che questo sia un effetto cercato dall'autore.
3. La scenografia non partecipa dello spettacolo: la gente (ce ne siamo resi conto personalmente) non la interpreta per quello che è, col risultato che essa risulta del tutto inutile. Meglio un fondale nero, "neutro". Per di più le luci sono elemento accessorio dell'allestimento, con l'eccezione della parte centrale, quando il personaggio subisce una sorta d'interrogatorio, immobilizzato sulla sedia e racconta il proprio approccio con la curva.

Il monologo è articolato in tre distinti momenti: nel primo si narra la trasferta palermitana dei livornesi, con tanto di "ragioni" a favore degli spesso "irragionevoli" ultras; nel secondo, come già detto, si svolge una sorta di confessione "privata" del protagonista che racconta il proprio percorso personale; nel terzo, si sfrutta la parte più importante (e bella) de I furiosi di Nanni Balestrini, ambientandola in chiave livornese e legandola alla diatriba con i tifosi palermitani che costituisce la trama dello spettacolo. Ma anche quest'ultima parte, per quanto "aiutata" da una struttura forte come il testo letterario di Balestrini finisce per zoppicare e risultare inefficace.
Nel libro si narra, in modo espressivo, il clamoroso scontro nelle campagne vicine a Pontecurone (AL) che il 6 giugno 1993 si verifica all'incrocio di due treni carichi di tifosi sampdoriani e milanisti: ne scaturisce uno scontro durato per ore, coinvolgendo quasi un migliaio di persone, forse la "battaglia" più grande mai svolta tra due tifoserie italiane. Lo scrittore riesce a tradurre in modo esemplare l'aspetto epico dell’avvenimento attraverso l'eliminazione totale della punteggiatura, nel tentativo di riprodurre la frenesia e il caos implicito nei fatti narrati.

La traduzione scenica del passo balestriniano soffre, però, degli stessi problemi sopra esposti e in più presenta una vera e propria "caduta", quando, alla fine del racconto, Edgarluve aggiunge un dialogo tra il protagonista e un amico tifoso che sottolinea la "vittoria" della battaglia appena conclusa. È lì che il personaggio, contestando il compagno, afferma di non sentirsi affatto vincitore, di esser convinto d'aver sempre perduto, da tanto tempo, forse da trent'anni.
L'effetto, da un punto di vista scenico, funziona, è uno dei pochi momenti, forse il solo, in cui la recita riesce a essere significativa in senso teatrale: peccato che per un tale risultato si debba utilizzare una retorica, quella della sconfitta esistenziale, malata di morale, pure facile, come se bastasse un dialogo per provocare un passaggio psicologico tanto forte da compiere una metamorfosi totale nel protagonista. Non contestiamo che per qualcuno, nella vita reale, possa essere andata realmente così, ma all'interno di una rappresentazione artistica, spesso la realtà perde completamente di forza. Per questo, a nostro avviso, il fatto che nell'elaborazione dell'allestimento siano intervenuti dei veri tifosi è un elemento trascurabile: Salgari scriveva dell'India dalla propria scrivania, senza aver mai vedute le terre tanto bene illustrate nei propri racconti. Allo stesso modo l'arte è, in gran parte, artificio, e quindi gli attributi reali di un racconto sono certo importanti ma non necessariamente fondamentali.

Chiariamo: il tifo è, potenzialmente, tema teatrale di tutto rispetto. Vi sono insigni studiosi di teatro greco, come Harold C. Baldry, a sostenere non senza ragioni che l'atmosfera degli attuali stadi calcistici è ciò che maggiormente si può avvicinare a quell'incomprensibile (per noi "moderni") clima di delirio collettivo sotteso in occasione degli allestimenti tragici ateniesi. La tragedia spesso tratta della hybris umana, toccando quel lato oscuro, pericoloso e insondabile dell'uomo, nella dimensione di un delirio distruttivo che rappresenta tuttora un tema inesaurito e certo interessantissimo. Vi evitiamo, in tal senso, menate da intellettuali, alludendo "soltanto" a La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche.

Non solo: sono numerose le suggestioni contemporanee legate alla rappresentazione artistica del fenomeno del tifo. Pensiamo, per esempio, allo scozzese Irvin Welsch, già autore celebre di Trainspotting, che ha dedicato vari racconti, divertentissimi, con protagonisti ultrà. Ma anche Arancia Meccanica (sia nella versione filmica sia nell'originale letterario di Anthony L. Burgess) è una rappresentazione potente di un atteggiamento comportamentale non distante da una certa follia violenta.
Diciamocela tutta: i tifosi hanno un fascino innegabile proprio perché violenti e irriducibili rispetto a una mentalità borghese. In ciò, sono inevitabilmente un'attrazione irresistibile per i borghesi stessi: non a caso, molti responsabili di violenze legate al tifo non sono (più) disadattati sociali, ma gente più o meno "per bene", con un lavoro e, in ogni caso, non necessariamente degli "irregolari".

Proprio per queste ragioni, unitamente al moralismo semplicistico del finale, a un sociologismo abbozzato e superficiale e, ciò che è peggio, a un linguaggio teatrale del tutto involuto (nel testo, nella recitazione e nella concezione complessiva dell'allestimento) che Ultrà risulta uno spettacolo da rivedere, ripensare in ogni sua componente. Prima di tutto nella struttura retorica e in ciò che deve esprimere, in seconda istanza nel linguaggio scenico, che ha una propria sintassi precisa, da cui solo i geni possono, forse, prescindere.
L'argomento è troppo interessante e d'attualità per lasciarlo cadere, ma proprio per questo merita un maggior approfondimento, emozionale e intellettuale, in grado di spiegare in termini teatrali sia il fascino, perverso e incontestabile, sia il complesso aspetto sociale del mondo ultras, fenomeno in grado di tenere occupate ogni fine settimana migliaia di persone senza nessuna prospettiva se non quella di trovare un nemico, nella ricerca, disperata e irrisolvibile, di uno straccio d'identità.

Visto a Montecarlo di Lucca, teatro dei Rassicurati, 22 novembre 2007.

Spettacolo
Ultra
tratto da I furiosi di Nanni Balestrini
ideazione e regia: Edgarluve
drammaturgia: Alessio Traversi
con: Marco Mannucci
batteria: Francesco Zerbino
organizzazione: Federico Bernini
con il contributo di alcuni ultrà della Curva Nord di Livorno
Finalista del premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti edizione 2006

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