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lunedì 31 ottobre 2011

La pettinatura della cantatrice calva


È forse il testo più paradossale del teatro novecentesco, tra i più emblematici e carichi di conseguenze: ignorata, criticata al debutto, La cantatrice calva avrebbe dovuto attendere qualche anno per entrare a pieno titolo nell’Olimpo della drammaturgia mondiale, citato come primo esempio (in competizione con Le bonne, di Jean Genet, datato 1947) di quelde-genere che la fortunatissima formula di Martin Esslin battezzò, una volta per tutte, teatro dell’assurdo
La stessa genesi della spietata anti-pièce (così definita dal suo autore nella versione a stampa), peraltro opera prima di Eugène Ionesco, è tra le più singolari: studiando l’inglese, lo scrittore rumeno d’adozione francese, dinanzi alla gran copia di frasi-cliché da mandare a memoria (verrebbe da pensare a the book is on the table), cogliendone l’ineluttabile insensatezza, decide di scrivere un testo teatrale sull’assurdità del linguaggio, la sua deprimente e vuota retorica. Ne risulta un capolavoro di decostruzione, nichilistica messa a nudo della convenzionalità che, inevitabilmente, porta con sé il corollario dell’annullamento di qualsivoglia significato esistenziale: non poteva all’epoca non disturbare, questo dramma méchant, cattivo, e, solo in un secondo momento, divertire, una volta assimilato. Il riso, in fondo, coincide con l’ultima barriera, dentale, atavica e animale, da un lato, tutta umana, dall’altro, strenua difesa e argine all’abisso vertiginoso della gratuità della vita. 
All’insegna del paradosso sono state anche le condizioni in cui si è consumato il ritorno all’assurdo da parte di Massimo Castri che, dopo il successo del beckettiano Finale di partita (Premio Ubu 2010 ex aequo come  miglior spettacolo), sceglie Ionesco per tornare al Metastasio di Prato, dov’è stato direttore artistico dal 1994 al 2000. Il regista toscano (nato a Cortona, con un passato da cabarettista a Firenze negli anni Sessanta), per problemi di salute, non ha presenziato alle prove, dirigendole a distanza grazie all’aiuto prezioso di Marco Plini, suo fido collaboratore da diciassette anni. 
La cantatrice castriana si dipana con grande misura nell’equilibrio d’un allestimento fedele a quel gusto rétro che, un caso fortuito occorso al debutto, segnò gran parte degli allestimenti successivi. L’interno borghese dai toni pastello, asimmetrico, sospeso nel nero dei fondali scenici, coincide col salotto degli Smith, ordinaria coppia inglese còlta nel corso d’un dopocena qualsiasi. Ionesco, nell’atavico tentativo del drammaturgo di condizionare la messinscena, infarcisce il testo di didascalie e Castri, registicamente malizioso, affida la lettura della prima di esse a un personaggio (Francesco Borchi), colui che, in seguito, sarà il capo dei pompieri. 
Lo spettacolo inizia e la squinternata scherma verbale dei personaggi-fantoccio s’impenna nella felice interpretazione della compagnia del MET: la storica traduzione di Gian Renzo Morteo scorre fluida con la declamazione quasi straniata di Valentina Banci e Mauro Malinverno, contraltare alla fissità d’un quadro scenico cristallizzato nell’inanità che contraddistingue la pièce. La stagnazione contratta domina La cantatrice, nel reiterato battere le tre del pendolo, nell’arrivo vacuo dei coniugi Martin (Fabio Mascagni e Elisa Cecilia Langone): parlano, straparlano, e l’incongruenza coatta dei dialoghi tanto (ab)usati sfonda il muro dell’insignificanza. 
A distanza di sessant’anni, il testo denuncia una natura fossile, quella condizione, agognata e aborrita al contempo, che tocca ai classici: Castri, assente dalle prove come la cantatrice del titolo dalla scena, riesce comunque a interrogare, a mo’ d’oracolo, la partitura, ricavandone un allestimento feroce, comico, in grado di mettere il giogo al pubblico, che apprezza, ride e applaude. La messinscena suona calibrata, mai scollata: gli attori non cedono all’insidiosa tentazione dell’effettaccio, dell’occhiolino allo spettatore, pure quando la quarta parete viene abbattuta, prima con l’incursione in platea della cameriera Mary (Sara Zanobbio), poi con le luci sparate in sala. 
La dimensione ridicola, certo, è la cartina di tornasole d’una pièce che non indigna più, innegabilmente invecchiata dai fischi del maggio ’50: rispetto all’epoca, la vena corrosiva distilla nonsensi irresistibili, reiterazioni, giochi d’accumulo e sconfessioni che ritroviamo in tanto teatro d’oggi, ma ha perduto parte del significato originale. Certo, il nonsenso è tra noi, nella vita contemporanea, ma non è la condizione storica che interessava a Ionesco, quanto quella esistenziale, irrimediabile e immutabile. Nondimeno, l’allestimento di Castri denota una grande coscienza dello stato del testo, riuscendo, tutto sommato, a far tornare i conti. Non è certo l’unica Cantatrice auspicabile, ma, senza dubbio, ne è una versione più che plausibile.

Visto: a Prato, Teatro Metastasio, il 29 novembre 2011

Spettacolo
La cantatrice calva di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
regia: Massimo Castri
con la collaborazione di Marco Plini

scene e costumi: Claudia Calvaresi
progetto luci: Roberto Innocenti
musiche: Arturo Annecchino
aiuto regista: Thea Dellavalle 

personaggi e interpreti:

signor Smith - Mauro Malinverno
signora Smith - Valentina Banci
signor Martin - Fabio Mascagni
signora Martin - Elisa Cecilia Langone
Mary, la cameriera - Sara Zanobbio
il capitano dei pompieri - Francesco Borchi

produzione TEATRO METASTASIO STABILE DELLA TOSCANA
Prima nazionale


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