Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 14 gennaio 2008

Ascanio Celestini, o del dilemma della lotta di classe

(da loschermo.it)
CASCINA (Pisa) - Ieri sera (14 gennaio) alla Città del Teatro è andato in scena l’ultimo spettacolo dell’ attore romano , attuale punta di diamante del teatro di narrazione, filone che ha caratterizzato la scena italiana contemporanea degli ultimi anni. Storie di precariato, canzoni e spunti comici che non fugano alcune (sacrosante?) perplessità.

È già in visibilio la sala, il pubblico freme, rumoreggia, ben prima che lo spettacolo abbia inizio: si percepisce che Ascanio Celestini, classe 1972, tuttora giovane (francamente non si capisce quando, in Italia, si raggiunga l’età adulta), è entrato di diritto nell’immaginario collettivo del pubblico di sinistra, tappando probabilmente una delle innumerevoli falle aperte da una politica sempre più incapace non solo di dare risposte, ma persino di fornire pallide e remote speranze.

Dopo aver variamente occhieggiato nel foyer per poi spuntar qua e là dalle quinte d’una scena senza sipario, ecco l’attore, camicia rossa e capello scarmigliato ad hoc, compiere l’agognato ingresso, in compagnia di tre musicisti: battimani convinto, ai limiti dell’ovazione. Non v’è dubbio, il consenso è già guadagnato e, da questo punto di vista, sembra d’assistere a un giallo di cui hanno già provveduto a raccontarci la fine.

Appunti per un film sulla lotta di classe è uno spettacolo particolare, work in progress cui l’attore sta lavorando da almeno due anni e che aveva trovato una prima forma nel giugno 2006, a Milano, in occasione del centenario della CGIL. La narrazione teatrale che vede in Celestini uno dei suoi migliori esponenti (e il più acclamato della propria generazione) abbandona i rivoli della (micro)storia per sporcarsi le mani col presente, con la realtà attuale. L’attore avverte il pubblico, direttamente, della natura in fieri del lavoro, affermando che proprio di appunti si tratta: una trentina di storie d’ordinaria follia precariale, di sfacelo sociale e umano, da cui, a ogni replica, l’artista pesca quindici pezzi, tra racconti e canzoni, diversificando costantemente le numerose performance. Le storie trattano in modo ora ironico, ora surreale, la (vera) vicenda occorsa negli ultimi due anni ai lavoratori romani della Ericsson, in una sacrosanta battaglia per i propri diritti (per esempio, il fatto che la precarietà contrattuale dovrebbe, di logica, essere profumatamente pagata e non costituire, come avviene da noi, l’anticamera della miseria). Battaglia peraltro fiaccata con rigorosa puntualità da un articolo della Finanziaria 2007, quella votata, tanto per intenderci, dal centro-sinistra.

L’argomento offrirebbe il destro per uno spettacolo satirico, o per tirate cariche d’indignazione, ma Celestini, per fortuna, non è Grillo e se ne rende conto. La scelta è quindi quella di raccontare, in prima persona, dando vita a una serie di personaggi coinvolti nella storia, protagonisti, loro malgrado, d’una lotta che è uguale a se stessa in tutta Italia: giovani malpagati, sfruttati, costretti a campare con stipendi da fame, spesso a fronte di un’istruzione più che decente, con tanto di laurea e (abbandonate) aspettative professionali. La cifra celestiniana sta nella sua particolare lingua, verbale e scenica: quell’italiano lordato di romanesco, e tuttavia delicato, d’una sua eleganza, anche quando cede alla tentazione della battutaccia, cavalcando la coprolalia per raggiungere invero una visionarietà satirica di buon effetto. I personaggi, ma potremmo dire il personaggio, di Celestini è declinazione capitolina e contemporanea del fool , presenza fanciullesca in grado di raccontare il mondo con stupefatto candore, mai privandosi, però, della morsicata (anzi, mozzicata) feroce, resa più efficace dal contrasto con i toni naïf. La posizione, a sedere su un’ordinaria sedia di legno, è di leggero scarto, a minare l’equilibrio, col busto proteso in avanti, le mani spesso a indugiare su gambe e ginocchia, corrispettivo gestuale della s-centratura linguistica ed esistenziale.

A commento delle storie paradossali e innamorate raccontate dall’attore, le musiche di Roberto Boarini (violoncello), Gianluca Casadei (fisarmonica) e Matteo D’Agostino (chitarra), sospese tra reminiscenze popolaresche e melodie che pescano da sonorità est-europee attingendo da ritmiche d’impianto smaccatamente latino. Le canzoni intervallano il racconto: parlano d’amore e di lotta, con testi a dire il vero interessanti, in cui le parole risultano calibrate, puntuali, anche quando implicano una pronuncia serrata, ai limiti della mitragliata di sillabe. Il canto è naturale: Celestini non è vocalist di professione, e si sente. Ciononostante l’interpretazione riesce a comunicare, persino a toccare, al di là della mera (e spesso inerte) sintassi vocale. A racconto segue canzone, cui segue un altro racconto, in una spirale che potrebbe estendersi all’infinito. Il fool romano tesse con dimestichezza i fili narrativi, reiterando battute, ripescando immagini, sfruttando a fondo la retorica d’un umorismo che non fatica ad avvincere il pubblico. Due ore di spettacolo sono forse eccessive: alla fine la stanchezza si fa sentire, in sala più che in scena, dal momento che Celestini al commiato pare fresco come una rosa e in grado di proseguire ad libitum. Gli applausi sono convinti, scroscianti, maggioritari, anche di fronte al discorso finale, evidentemente a braccio, confusamente politico: fuori di spartito, toccando il tema sacrosanto dei lavoratori dello spettacolo, l’attore sembra arrancare, senza essere convincente.

In ogni caso, a nostro avviso, non qui sta il punto. Recensire uno spettacolo che ottiene un generale consenso è sempre difficile, soprattutto se il giudizio maturato non è affatto positivo. A complicare le cose è poi sopraggiunta un’interessante querelle sollevata a margine dell’ultimo caso-Luttazzi: non parliamo di tv e di censura, ma d’onestà intellettuale e di recensioni. Nel dibattito legato ai recenti fatti che l’hanno coinvolto, Daniele Luttazzi ha espresso posizioni interessanti circa metodi e finalità della critica "artistica" in genere, citando persino John Updike, celebre romanziere e saggista statunitense, il quale sostiene che una recensione dovrebbe rispettare i tre seguenti principi:

1. Cerca di capire cosa l'autore desidera fare, invece di accusarlo di non aver raggiunto ciò che non si è prefisso.
2. Riporta brani dell'opera in modo che il lettore della critica possa formarsene una impressione personale.
3. Se l'opera è giudicata insufficente, cita un esempio riuscito dello stesso tipo, da lavori dell'autore o di altri. Cerca di capire l'errore. Sei sicuro che sia dell'autore e non il tuo?

Un’altra affermazione, stavolta di Luttazzi in prima persona, ci ha particolarmente colpito: "Quando un critico dice che sbagliano sia l'artista che il pubblico, sbaglia il critico".
Ebbene, per quello che riguarda i precetti di Updike, non c’è molto da dire, se non che essi appaiono del tutto condivisibili. Insidioso è invece il corollario del (miglior) satirico italiano, poiché rischia d’impedire un giudizio analitico negativo da qualsiasi fenomeno che raccolga consensi unanimi e generalizzati. Come se un critico, di fronte a un concerto di Gigi D’Alessio, non potesse affermare con tranquillità che lo spettacolo offerto è mediocre (ovviamente argomentando con dovizia la propria posizione) per il semplice fatto che l’evento corrisponde esattamente sia alle intenzioni dell’artista sia a quelle del pubblico sopraggiunto.

Tornando a Celestini, si deve ammettere che, con tutta probabilità, l’autore è riuscito in pieno nel proprio intento, realizzando uno spettacolo soddisfacente sia per sé sia per la sala che l’ha applaudito in gran copia. Nondimeno c’è qualcosa che non convince, che proprio non riesce a placare un disagio pulsante, palpabile, che ci obbliga ad affermare che no, Appunti non è un gran spettacolo, no, non abbiamo assistito né a una gran performance né a un evento significativo sotto il profilo politico, in barba al battimani e alla consolata soddisfazione dei convenuti.

Il fatto è che l’arte, e il teatro è o dovrebbe essere arte, non funziona come qualsiasi altro prodotto. L’equazione acquisto-soddisfazione non è analoga a quella sottesa nel comprare una macchina, della carne, una bottiglia di vino, un televisore o un maglione. L’arte, e il teatro, hanno bisogno d’essere alimentate dalla sorpresa , dall’ inatteso , categorie irrinunciabili per tutto ciò che sia legato alla creatività. Un artista, e questo lo diceva Brecht, un tale che di teatro politico qualcosa intendeva, dovrebbe essere sempre un passo avanti alla massa : non troppo distante, pena l’incomprensibilità, né al fianco di essa, pena la prevedibilità, cancro fatale per l’efficacia di qualsiasi enunciato artistico. Se vogliamo poi parlare di teatro politico, di fronte a uno spettacolo che riporta in titolo la categoria marxista della lotta di classe , ci pare quantomeno il minimo vagliarne la qualità e dal punto di vista estetico e da quello legato alla praxis.

In tal senso, la convinzione intima è che un’opera d’arte che sia tale dovrebbe, come gli oracoli greci, fornire una domanda e non una risposta o, quantomeno, dovrebbe proporre una domanda ben più grande e irrisolvibile della risposta avanzata dall’autore. Perché la domanda, quando ben posta, è sempre superiore a qualsiasi soluzione, in quanto contiene sia lo scioglimento dell'enigma sia tutte le altre possibili risposte implicate dal quesito. Si pensi ad Arancia Meccanica : Kubrick ha certo una posizione netta circa il senso della violenza, ma quello che conta maggiormente nella pellicola è la potenza (e la complessità) insanabile della questione posta allo spettatore. Che non è coccolato, blandito e, implicitamente, sottovalutato, ricattato alla stregua di un infante da istruire, nutrire o consolare, come accade puntualmente in certi spettacoli che si vorrebbero politici.

Un’opera d’arte, soprattutto se vuol esser politica, dovrebbe stimolare la riflessione, non imboccarla. Dovrebbe piuttosto disturbare, indignare, disgustare il pubblico, e non lisciargli il pelo sprofondando nella pastoia insoffribile della consolazione, della bella coscienza sciacquata, dell’illusione intima d’aver assistito a qualcosa che possa aver (peccato imperdonabile) reso migliore lo spettatore. Il teatro dovrebbe essere morbo, tumore, malattia che mina le certezze, che mostra una verità dolorosa e indicibile, qualcosa che metta a repentaglio prima d’ogni altra cosa la placida (e borghese) certezza d’essere giusti, appropriati, in armonia con il mondo circostante. La denuncia della precarietà (tema di per sé urgente e rispettabile, sia chiaro), che si risolve nel plauso senza critica, nella risposta senza domande è, prima di tutto, impasse politica, ancor più colpevole perché tale vorrebbe essere l’allestimento. Per questo Celestini non ci ha convinto, per niente, a fronte del successo, a fronte del consenso, a fronte dell’unanimità.

Sempre più spesso ci ritroviamo a rimpiangere Giorgio Gaber, in particolare quando ci spiazzava, quando ci disturbava, anche e soprattutto quando aveva la grazia infinita di sbagliare: quello era, a suo modo, teatro politico, al di là della lotta di classe (in chiave marxista, peraltro, lo spettacolo di Celestini è quanto di più confusamente anarcoide si possa pensare, così privo d’analisi rigorosa e di prassi, come del resto l’attuale sedicente e buffa sinistra-sinistra), era porre, prima di tutto, delle domande.

Torniamo a casa, John Lennon alla radio grida disperatamente "A working class hero is something to be", in una canzone che non smette di sfuggirci, di non farsi catturare del tutto, conservando irriducibili residui di senso, che ci obbliga a riascoltarla senza mai aver la sensazione di poterla afferrare. Questa, pensiamo, è un’opera d’arte politica. Non sappiamo se la presente stroncatura rispetti lo stimolante crisma luttazziano, possiamo solo dire che è sentita, sofferta e più che convinta. Al lettore giudicare. Brecht non ce ne voglia se, anche stavolta dopotutto, ci siamo seduti dalla parte del torto.

Visto il 13 gennaio 2008, Città del Teatro, Cascina (Pi).

Spettacolo
Appunti per un film sulla lotta di classe
Non è uno spettacolo ma è proprio quello che dice il titolo
con Ascanio Celestini
e i musicisti Roberto Boarini, violoncello; Gianluca Casadei, fisarmonica; Matteo D’Agostino, chitarra
suono e luci di Andrea Pesce
produzione: Fabbrica, in collaborazione con Teatro Stabile dell’Umbria, Fandango e Associazione Centenario Cgil

Nessun commento: