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giovedì 18 dicembre 2008

Decameron, o della (vera) satira

(da teatro.org)
Qual è il ruolo della satira, la vera satira, in un periodo difficilissimo per questo peculiare genere espressivo? Sovresposta, bruciata dal grillismo (che ha recentemente registrato alcune significative battute d’arresto), fraintesa ed equivocata in televisione (quella di Crozza è satira in parte, idem per la Cortellesi; quella della pur brava Littizetto non la è proprio; quanto a Zelig e Striscia, sopravvoliamo…), sfruttata in modi talvolta discutibili (la stizzosetta Guzzanti, l’ambiguo mélange col giornalismo di Travaglio), fiaccata dal diffuso clima d’intimidazione produttiva, dalla crisi, dalla mancanza di veri spazi promozionali: questo il poco edificante quadretto che ci conduce al cospetto di Daniele Luttazzi, attualmente il miglior satirico (l’unico?) del panorama nazionale.
La sala del Politeama pratese non è piena quanto avremmo pensato e la totale scomparsa dai teleschermi dell’artista romagnolo gioca di certo il suo ruolo in certe dinamiche d’afflusso: a quanto pare, molti teatri solitamente frequentati dal “dottore”, fiutata l’aria, hanno smesso di ingaggiarlo come un tempo. In Italia si può dar noia a una chiesa, non a tutte contemporaneamente…

Esaurita la necessaria premessa, lo spettacolo. Nuovo, ispirato nel titolo e nei temi al programma bandito dall’emittente LaSette nell’autunno 2007, Decameron (completo del sottotitolo originale, ossia Politica, sesso, religione e morte) torna sulle tavole del palcoscenico. La struttura apparente è la medesima degli ultimi one man show del comico: in realtà a cambiare sono i contenuti, anzi, la forma in cui i contenuti (press’a poco gli stessi che la satira tratta da qualche millennio…) vengono presentati, sezionati, analizzati. S’inizia subito con la politica, come da programma e Luttazzi misura subito la “pressione” al pubblico, con un’ardita metafora tra il popolo italiano e una donzella coinvolta in un rapporto sodomitico: niente di nuovo, si dirà… In realtà, tutto di nuovo, giacché il nostro più caustico raisonneur scenico arriva al punto di evidenziare le tre fasi distinte della sodomizzazione, riconducendole puntualmente, con un irresistibile paragone politico, al rapporto tra Berlusconi e l’intero elettorato. Inizio col botto. Niente male: in più, la similitudine sessuale offre il destro per reiterazioni, riprese, all’insegna dell’estremo: del resto, “Se la satira non è estrema”, lo dice Mel Brooks e lo ricorda spesso Luttazzi, “non fa ridere”.

Al di là dell’iperbolismo scatologico (funzionale e ottimamente pensato), il monologo evidenzia alcune perle assolute, a testimoniare una continua evoluzione del modus satirico dell’artista. Splendida la disanima del panorama politico nazionale secondo schemi desunti dall’analisi narratologica: la scomposizione cui Luttazzi sottopone i protagonisti dell’attualità, sottolineandone la capacità, o meno, di “rappresentare una storia”, è illuminante. La chiave permette di leggere con estrema chiarezza sia il successo berlusconide sia la disfatta, ultraventennale, d’una sinistra incapace di proporre modelli nuovi e alternativi, ancorata alla suicida gestione dell’esistente.

Satira ultrapolitica, anfibia per vocazione: sesso e morte occhieggiano continuamente. Per la religione si deve aspettare la seconda parte dello spettacolo: una sequenza di osservazioni al vetriolo sull’assurdità di ogni confessione e sulle ingiustizie del cattolicesimo, quali il differente statuto (e trattamento economico) dei docenti di religione rispetto agli altri o la gestione scientemente ondivaga di vicende eticamente complesse, confrontando il caso di papa Wojtyla con gli altri che hanno animato i recenti dibattiti inerenti alla gestione delle volontà dei pazienti terminali. Degna d’un cattedratico, infine, la prolusione sulla radice antropologica del cristianesimo, i recuperi da altre tradizioni precedenti, nonché la riconduzione della simbologia crociata ai cicli cosmici.
Il tutto, sia chiaro, facendo ridere, in situazione per di più del tutto disagevole: è, infatti, un gran peccato che l’acustica del Politeama sia tanto deficitaria da impedire a gran parte del pubblico di carpire in modo definito le parole pronunciate dal comico. Luttazzi, più di ogni altro collega, è una macchinetta verbale: fa dell’eloquio rapido, serrato, una delle sue peculiari strategie comiche, in cui le rapide impennate locutorie fanno da trampolino per le battute, autentiche rasoiate che sorprendono l’ascoltatore. Se l’acustica viene meno, lo spettatore è costretto a porre eccessiva attenzione sulla fonetica delle parole, compromettendo del tutto il meccanismo comico: si sorride, al massimo, perché si capisce in ritardo, là dove l’effetto sorpresa è il fondamento primo della scarica emotiva costituita dal riso.
La cosa è per nulla secondaria, perché a restar penalizzate sono le parti più raffinate del dettato luttazziano, quelle in cui primeggia un esprit de finesse impareggiabile, tra le migliori armi dell’arsenale umoristico del nostro. Del tutto perduta, per esempio, la parte in cui l’attore, conscio del pericolo “unanimistico” implicito nel successo delle performance, si sottrae al pernicioso meccanismo dell’autosantificazione, fenomeno che coglie impreparati altri suoi colleghi, incapaci di gestire opportunamente tale rischio. Non si tratta di “bontà”: certo, di intelligenza, cultura e coscienza. La satira è contro il potere e, per essere autentica, deve ben guardarsi anche (e soprattutto) dal potere della satira medesima.

Applausi, convinti, anche sulla fiducia, per ciò che non siamo stati in grado di sentire distintamente.
Spettacolo da vedere, dunque.
Anzi, da rivedere (alla Città del Teatro di Cascina il 17 gennaio, a Firenze, Saschall, 27-28 febbraio), e non certo per colpa del suo protagonista.
Ancora una volta: grazie, Dottor Luttazzi.

Visto a Prato, Teatro Politeama, il 18 dicembre 2008.

Spettacolo
Decameron
di e con Daniele Luttazzi
produzione: Krassner

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