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lunedì 17 marzo 2008

Lavia e Amleto, tra spettacolo e lezione

(da loschermo.it)
PISA - Gabriele Lavia al Verdi, solo in scena, si confronta con Amleto, in una performance che tenta un viaggio profondo nei molti temi del capolavoro shakespeariano. Oltre quattro ore di racconto misto a digressioni, spunti filosofici e riferimenti sia storici sia linguistici. Teatro che unisce narrazione, recitazione e lezione dotta, ma che, pur rappresentando probabilmente una delle direzioni della scena italiana contemporanea, non sgombra certo il campo delle perplessità

Ha iniziato Dario Fo, sin dagli anni Settanta: del resto, quel gran capolavoro che è il suo Mistero Buffo (spettacolo chiave per tutta la nostra comicità contemporanea, e non solo quella) era, ed è, allestimento, anche in ottica didascalica o didattica, forte di un gran numero di puntualizzazioni, riletture poetiche e spunti di riflessione a gettare un ponte tra Medioevo e giorni nostri. Certo, Fo è un istrione, un attautore, e agli attori (come agli artisti) non si deve creder del tutto: dire che la Letteratura Italiana (con entrambe le maiuscole) sia strettamente legata alla cultura popolare è, grossomodo, una boiata, ma ciò non toglie che il Mistero sia uno spettacolo (e un testo) mirabile e che la sua rilettura di Rosa fresca et aulentissima sia servita a rendere di pubblico dominio questioni letterarie di non poco conto.

La sequenza di spettacoli-lezione non si esaurisce certo col nostro Nobel scenico e i suoi successivi Ruzante, né coi vari Albertazzi, Sermonti e con il recente Tuttodante di Roberto Benigni, vero e proprio caso non solo per questioni di prossimità temporale, ma per impatto sul pubblico di massa. In questo senso, Lavia racconta Amleto rappresenta un ulteriore capitolo di questa linea di performance sceniche a fondere teatro (l'attore di fronte al pubblico) e lezione (la spiegazione di ciò che si dice), in una commistione invero particolare e certo interessante.

Solo in scena, abito scuro neutro, l'attore e regista entra: si presenta come se stesso (del resto il titolo non lascia dubbi al riguardo), saluta il pubblico, a dire vero scarso, e inizia una prolusione sul senso, etimologico e filosofico, della tra-dizione legata ai concetti di tra-duzione e tra-dimento.
La voce, ben amplificata da un impianto audio che indugia con malizia sulle tonalità baritonali, è piana, spesso preoccupata di risultare comprensibile.
Il filo di Lavia si svolge e riavvolge ogniqualvolta l'artista abbia il dubbio di poter non essere capito: in certi momenti sembra quasi parlare a un pubblico di bambini, con toni bonari, rassicuranti. Quando si lancia in paralleli filosofici e contestualizzazioni storiche, pur proponendo concetti ben risaputi da chiunque si sia interessato minimamente negli ultimi trent'anni al corpulento testo shakespeariano, l'artista corre sempre sul filo del rasoio, rischiando ora la banalità ora la banalizzazione, cose diverse tra loro. Banalità è dire ciò che tutti, in un dato ambito, sanno, tipo "Amleto è un testo sull'essere", frase tanto abusata (e banale) da risultar (quasi) falsa. Banalizzazione è quando si tratteggiano temi complicati in due parole, impugnando metaforicamente un'accetta e tagliando la Storia (con la maiuscola) in tronchi perfetti, mescolando filosofia e letteratura, scienza e poesia, tranciando giudizi che sono sempre discutibili, se (im)posti come verità assolute.

Man mano che l'attore s'inoltra nel testo, lo vediamo mescolare narrazione a interpretazione, in un continuo passaggio dal piano discorsivo a quello recitativo. Questo, forse, l'aspetto interessante della performance: assistere al passaggio, ripetuto e continuo, dal fuori al dentro il testo, quasi fossimo di fronte a un regista che spiega le parti a una compagnia di attori. E via quindi, a sfrondare Amleto, giustamente, dalla cristallizzazione, dall'odor di muffa cui lo costringono sin dall'Ottocento, con interpretazioni psicanalitiche e banalità che oramai l'hanno reso inerte, per non dir noioso.
E sottoscriviamo anche l'assunto (di George Bataille, ma Lavia non lo cita) secondo cui "per essere fedeli a un'opera è necessario tra-dirla" (lo stesso valga per un artista, un autore, un filosofo), concetto a più riprese ribadito dal regista-attore e che pure noi abbiamo, con assai meno autorità, ribadito in varie occasioni.

Il fatto, piuttosto, è un altro e non è nemmeno costituito dalle quattr'ore suonate dell'esibizione: troppe, non perché siamo contrari a priori alla lunga durata, ma perché Lavia non riesce a reggere tutto il tempo su un ritmo accettabile, che sappia avvincere il pubblico. Probabilmente, non è necessario parlare per così tanto tempo e spiegare Amleto. O, quantomeno, dovremmo metterci d'accordo: ben venga la filologia, le note a margine, a chiarire i riferimenti osceni e sessuali che innervano le battute del principe di Danimarca e della giovane Ofelia, ben venga lo svecchiare un testo complesso come la tragedia più lunga del Bardo Inglese, ma non è necessario, a questo scopo, parlare, parlare e parlare per quattr'ore in un teatro. Carmelo Bene, uno tra gli Amleti più profondi, ricchi e iconoclasti del Novecento italiano (e di certo il più iconoclasta), risolveva il suo corpo a corpo con Billy (nomignolo col quale indicava William Shakespeare) in un'ora di pura musica, rasentando e oltrepassando in abbondanza le soglie della comunicazione: perché ciò che conta, a teatro come in qualsiasi fruizione artistica, non è la comprensione, la comunicazione, bensì la capacità di sentire ciò che avviene in scena. E a sentire, forse, non s'insegna, neppure con ore e ore di lezione.
Si può affinare il gusto, ma non è detto che la scuola, le lezioni, le letture, siano la strada indicata. Anzi.

Il rischio che Lavia non evita, e in questo ci ha ricordato il ben diverso Benigni dantesco, è quello dell'appiattimento estetico: perché alla fine è tutto un florilegio di "magnifico", "grandissimo", "stupendo", che non rende giustizia all'effettiva grandezza di un testo, come di qualsiasi altra opera d'arte degna di tal nome. Allora, parafrasando, visto che ci siamo, il Bardo (o la Tigre di Cremona...), diciamo che le parole, parole, parole lasciano il tempo che trovano e che, per sprofondare nel mistero di Amleto (che è quello del teatro e della sua dolorosa e ineluttabile prospettiva tragica nei confronti della vita) bisognerebbe ammettere semplicemente che "tutto il resto è silenzio", rappresentarlo (operazione che a cui Lavia si è dedicato in passato) e, eventualmente, dis-farlo, cosa che solo i grandi (Carmelo Bene, Leo De Berardinis e, in certa misura, Eduardo, per citare italiani del recente passato) riescono a fare.

Visto a Pisa, Teatro Verdi, il 16 marzo 2008.

Spettacolo
Lavia legge Amleto
di e con Gabriele Lavia
liberamente tratto da Amleto di William Shakespeare
produzione: Compagna Lavia Anagni

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